di Giorgio Israel.
Diceva il celebre storico della medicina, Mirko Grmek che la 
statistica è talora un calcolo molto preciso su dati male interpretati: 
«Se in un villaggio si trova che, in un determinato periodo storico 
compaiono malattie che non c’erano, la prima cosa da chiedersi è se è 
cambiato il medico.
Se in un Paese s’introduce un servizio-sociale 
sanitario pubblico, il risultato sarà un aumento statistico delle 
malattie, un apparente peggioramento dello stato generale di salute, 
perché la gente che prima non andava dal medico adesso ci va!».
Insomma,
 il problema è capire le vere cause di un fenomeno attestato dalle 
statistiche.  
Mutatis mutandis il discorso si applica al 
fenomeno della drammatica disoccupazione dei laureati. Dedurre 
dall’aumento dei laureati disoccupati che la colpa è solo 
dell’università è un modo di ragionare fallace.
L’Italia è un paese in piena de-industrializzazione: avevamo 
un’industria chimica di prima grandezza, non esiste più; potevamo avere 
posizioni di primo piano nell’informatica e ci facciamo ridicolizzare da
 paesi minori; la siderurgia traballa; l’industria automobilistica sta 
emigrando. Resta la media e piccola industria, pur boccheggiante sotto 
la ferula della burocrazia.
Dove dovrebbero trovare posto i laureati?
Oppure vogliam dire che occorre chiudere i corsi di laurea in chimica, 
matematica, fisica, e molti di ingegneria, o riciclarli in corsi di 
apprendistato funzionali a mansioni e «responsabilità aziendali a 
livelli minimi», come suggerisce Pierluigi Celli?
Benissimo, questa è la
 via per ratificare la de-industrializzazione e ridurci a consumatori di
 tecnologie altrui.
Si vantano i successi dell’università Luiss, i cui 
laureati sono tutti presto occupati: ma è un’università di economia, 
finanza e management, che non comprende settori scientifici e solo un 
frammento delle scienze umane. Forse l’università italiana dovrebbe 
plasmarsi tutta sul modello Luiss-Bocconi?
L’istruzione è sempre stata un canale importantissimo di impiego. Ma 
le politiche dissennate degli ultimi decenni hanno chiuso l’accesso ai 
giovani e la legge che prevede una ripartizione a metà degli accessi tra
 neo-laureati e precari è costantemente disattesa.
Come stupirsi se chi,
 legittimamente, s’iscrive alla facoltà di lettere o a una facoltà 
scientifica per insegnare si vede preclusa ogni possibilità? È squallido
 fare retorica giovanilista mentre manteniamo un sistema dell’istruzione
 basato su una drammatica frattura generazionale.
Occorre scegliere tra adattare il sistema universitario alla crisi 
industriale del paese, o intervenire su quest’ultima per dar senso alla 
formazione di personale altamente qualificato. La prima via è quella del
 declino programmato. La seconda è l’unica speranza perché l’Italia 
resti un paese dotato di una scienza e una tecnologia avanzate, di una 
cultura umanistica degna del nostro patrimonio artistico-culturale.
Ciò detto, non è che l’università non abbia le sue colpe e non debba 
emendarsi. Ma non nel senso che dice Pierluigi Celli quando stigmatizza 
il comportamento dei docenti universitari: «Insegnano, spiegano il 
testo, salutano e vanno via». Il problema è chiedersi cosa fanno dopo 
aver salutato. Forse qualcuno va a far nulla, ma molti a partecipare a 
ingorghi pazzeschi di riunioni, a sequenze folli di adempimenti 
burocratici privi di senso.
Il mondo confindustriale che ha ottenuto una
 posizione influente nel sistema di valutazione universitario non può 
sfuggire alla responsabilità di aver promosso il contrario di quel ogni 
giorno chiede per sé: dissolvere la cappa degli adempimenti burocratici a
 monte, per riservare le valutazioni a valle. Oggi l’università è 
oppressa da una selva pazzesca di adempimenti, valutazioni e controlli 
burocratici a monte che strangolano qualsiasi spazio per una seria 
didattica, per non dire della ricerca; tanto che di recente qualcuno ha 
prospettato la situazione non più irrealistica di due docenti sotto 
procedimento disciplinare per essersi scambiati in corridoio dei lavori 
scientifici. Forse non ci si rende appieno conto della situazione.
Tanto
 per fare un esempio a caso, oggi un docente deve perder tempo a 
distinguere nella scheda d’insegnamento del corso le “conoscenze 
acquisite†e le “competenze acquisite†dallo studente, tutto 
rigorosamente al presente – «al termine del corso lo studente sa, 
riconosce» – in nome del successo formativo garantito. Oppure deve 
quantificare la percentuale di studio personale sul totale dell’impegno 
richiesto allo studente, come se tale percentuale potesse essere uguale 
per tutti. Si nominano commissioni per elaborare algoritmi di 
“sofferenza didattica†per evitare di cadere sotto la mannaia di 
parametri che fanno perdere corsi.
Il celebre matematico Bruno de Finetti definiva come 
“imbecillocrazia†le lontane manifestazioni embrionali di tale 
incredibile fenomenologia e contro di essa scrisse un “manifesto di 
battagliaâ€.
Chissà cosa avrebbe fatto oggi. Forse si sarebbe arreso, 
lasciando il posto a chi gode nel fare queste cose. Difatti, la 
dittatura burocratica apre lo spazio ai peggiori elementi, e quindi 
l’unica speranza di risanamento è di spazzarla via, e non certo di 
trasformare l’università nell’incrocio tra un burosauro kafkiano e una 
scuola di formazione professionale.
Fonte: Il Mattino, 12 marzo 2014.
Tratto da:  http://www.roars.it/online/i-laureati-al-tempo-dellimbecillocrazia/.