di Emiliano Brancaccio.
Augusto Graziani
 è morto l’altro ieri, a Napoli, pochi mesi dopo le celebrazioni per i 
suoi ottant’anni. Scompare così il maestro di una intera generazione di 
economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes
 e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso 
la politica economica dominante. Nell’opera di ricerca, così come nella 
didattica e nella divulgazione, Graziani ha incarnato 
una miscela per certi versi unica di rigore intellettuale, potenza 
dialettica e delicatezza espressiva. Una figura minuta, quasi a 
simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una 
sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita
 materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto 
combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei 
protervi strilloni della vulgata economica che avevano la 
sventura di incrociare le sue affilate armi critiche. Quello stesso 
spirito tuttavia sembrò pure obbligarlo a un voto di perenne sobrietà: 
un velo di rigoroso understatement, sempre lì a celare la sua grandezza. Nell’epoca della mediocrità alla ribalta lo si potrebbe definire un uomo d’altri tempi.
 Appellativo condivisibile, purché ci si riferisca non solo al passato, 
ma anche e soprattutto al futuro. In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici. Attualissimi, in questo senso, sono i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea.
Nel 2002, a Napoli, nell’aula Vanvitelliana della facoltà di Scienze politiche, Graziani tenne una lezione sull’euro
 appena entrato in circolazione. I colleghi ad ascoltarlo vennero 
numerosi. La sensazione era che i più lo onorassero senza esser 
minimamente persuasi dal suo scetticismo sulla sostenibilità futura 
dell’eurozona. Sarebbe ingeneroso criticarli, col senno
 di poi. Dopotutto la grancassa dell’ideologia in quei giorni operava a 
pieno ritmo, seducendo persino le menti più brillanti e avvezze alla 
critica. Graziani peraltro è sempre parso alquanto refrattario alle opere di seduzione ideologica. I suoi dubbi sulla moneta unica, ben saldati sul terreno dei fatti, non si limitavano a trarre spunto dalla nota lezione keynesiana
 sulla insostenibilità di quelle unioni valutarie che pretendono di 
scaricare l’intero peso dei riequilibri commerciali sui soli paesi 
debitori. Vi era pure, nella sua analisi, una lettura implicita del 
concetto marxiano di centralizzazione dei capitali, e dei tremendi conflitti politici che possono derivare da essa. Il pessimismo di Graziani era dunque fondato su una consapevolezza profonda dell’equilibrio precario su cui verteva il processo di unificazione europea,
 e del rischio che prima o poi la situazione potesse precipitare sotto 
il giogo di meccanismi favorevoli all’economia più forte del continente.
 Veniva così a crearsi uno scenario propizio per la riscoperta del 
sinistro monito di Thomas Mann sull’essenza dello spirito prevalente in Germania: “Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonioâ€.
Nel clima di entusiasmo suscitato dalla nascita dell’euro, tuttavia, le preoccupazioni di Graziani non attecchirono. Nel nostro paese, piuttosto, trovò largo seguito l’improbabile ideologia del “vincolo esternoâ€.
 I suoi propugnatori sostenevano che i vincoli imposti dall’Europa sul 
governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici, non 
costituivano la dimostrazione che l’Unione andava costituendosi a 
immagine e somiglianza degli interessi del più forte, ossia del 
capitalismo tedesco. Piuttosto, si diceva, quei vincoli avrebbero 
miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi dello stagnante e 
frammentato capitalismo italiano in algidi principi della modernità 
globale, in vere e proprie avanguardie della produzione planetaria. 
Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria hanno incredibilmente sostenuto che il vincolo esterno
 imposto dall’Europa potesse spontaneamente fare tutto questo, sia pure 
in un deserto di progettualità e di investimenti. In tanti furono 
abbagliati da simili illusioni. Di contro, in un articolo pubblicato 
sempre nel 2002 sulla International Review of Applied Economics, Graziani fu tra i pochi a segnalare che il vincolo esterno
 avrebbe potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello 
annunciato. Egli cioè previde che i capitalisti italiani avrebbero 
tentato di rimediare alla perdita delle ultime leve della politica 
economica tramite una ulteriore frammentazione dei processi produttivi, finalizzata a reiterare il lassismo in campo fiscale e contributivo e ad accelerare la precarizzazione del lavoro. Fino a scoprire, nella crisi, che questi rozzi tentativi di contrazione dei costi non potevano reggere a lungo.
Oggi sappiamo che le cose sono andate come Graziani aveva previsto. Sappiamo pure che, proseguendo di questo passo, l’inasprirsi dei conflitti tra capitalismi europei potrà condurre a un tracollo dell’Unione che porrà i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro, ognuna delle quali avrà diverse implicazioni sui diversi gruppi sociali coinvolti. I contributi di Graziani,
 fondati su una visione moderna delle contrapposizioni tra e dentro le 
classi sociali, potranno aiutarci anche ad afferrare i termini di quello
 snodo decisivo che pian piano affiora all’orizzonte. Purtroppo, 
specialmente tra gli eredi più o meno diretti del movimento dei 
lavoratori, vi è oggi ancora chi preferisce distogliere lo sguardo da 
questa realistica prospettiva, e continua ad affidarsi alle sempre più 
flebili speranze di rilancio dei nobili ideali europeisti. Eppure in 
tempi più illuminati del nostro è stato detto acutamente che l’invito a sperare è in fondo un invito a ignorare. Chi conosce non spera ma prevede, e se le condizioni oggettive e la metodica organizzazione delle forze lo permettono, si dispone ad agire per il cambiamento. Credo che la vita intellettuale di Augusto Graziani abbia ben rappresentato questo saggio modus operandi.
Il Manifesto, 7 gennaio 2014.
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