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Le identità ri-composte per una nuova politica

Le identità ri-composte per una nuova politica
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9 Febbraio 2010 - 09.01


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QUANDO  I CONFORMISMI GENERANO MOSTRI

Some people represent authority without ever possessing any of their own.
(Bansky, “Wall and Piece“)

di Dafni Ruscetta.

 

Quando la domenica pomeriggio, o in qualsiasi altro giorno festivo, mi capita di passare davanti a un grande ipermercato, osservando la coda di auto che fa la fila in attesa di un parcheggio mi rendo conto di essere minoranza nel mio Paese.

 

 

In Italia, in un contesto socio-culturale che va impoverendosi di giorno in giorno, mi capita sempre più spesso di provare disagio, soprattutto dopo aver deciso di rientrare a vivere nel mio paese, in controtendenza rispetto all”appello di Pier Luigi Celli – che con un recente articolo su «Repubblica» ha esortato il figlio appena laureato a emigrare dall”Italia – e rispetto alla scelta di molti miei coetanei.

Un anno trascorso nella serafica ed evoluta Danimarca, infatti, ha acuito quel senso di amarezza misto a preoccupazione per la strana atmosfera che qui si respira quotidianamente.

La cosa che mi colpisce maggiormente è che questo “paesaggio” non sia raffigurato soltanto nei quadri a tinte uniche del circuito mass-mediatico, in particolar modo quello dei telegiornali che sistematicamente perseguono una precisa e subdola strategia di dominazione delle coscienze.

Quello che mi avvilisce maggiormente, infatti, è la constatazione di uno stato di “sonnolenza” generalizzata, di conformismo e di adesione quotidiana a modelli un tempo ritenuti fallaci; assistiamo, ormai sempre più spesso, a una costante incapacità di reazione, se non proprio di indifferenza, da parte di sempre più ampi strati di popolazione.

Ad esempio, non può non provocare un forte senso di tristezza, se non di angoscia, in un Paese che sembra quasi aver perso il senso di sé, la questione del razzismo e dell”immigrazione di questi ultimi mesi.

Gli episodi riportati quotidianamente dai media sono purtroppo numerosi, basta citarne alcuni dei più recenti: il caso Balotelli negli stadi di calcio, la rivolta dei cittadini di Rosarno (un tempo le rivolte si facevano contro chi opprimeva, contro i potenti, ora si fanno contro i più deboli…?), la triste vicenda del ragazzo indiano dato alle fiamme da alcuni balordi in una stazione ferroviaria alcuni mesi fa.

Il caso del calciatore Balotelli è certamente una delle manifestazioni più evidenti di un”anomalia ormai diventata consuetudine in Italia, frutto di una serie reiterata di episodi del genere – certo meno emblematici di questo – e di una strategia mediatico-comunicativa probabilmente volta a indicare dei capri espiatori, come al solito individuati tra gli strati più inermi della società. Mario Balotelli è un giovane di colore, di origine ghanese ma nato in Italia, uno dei maggiori talenti calcistici di un paese che per questo sport ha un rituale senso di devozione (ormai non più solo per ragioni culturali, ma soprattutto economiche).

Pur essendo egli cittadino italiano a tutti gli effetti, ultimamente è stato fatto bersaglio della stupidità e del razzismo ormai dilaganti nei nostri stadi, nei quali pur confluisce una sintesi dei difetti di questo paese.

Come se non bastasse il ragazzo, ad oggi, non è mai stato convocato in nazionale maggiore, una delle poche formazioni europee che non annovera nessun giocatore di colore tra le sue fila.

In una cultura in cui ci si dimentica delle proprie radici, nemmeno tanto lontane, non sembra ci possa essere spazio per costruire un futuro su basi solide, specie se proprio l”emigrazione rappresenta uno dei retaggi più evidenti di quella cultura; poiché la metamorfosi antropologica che essa ha subìto, in termini di accettazione, umiltà e tolleranza pare aver agito sull”inconscio collettivo e sulle aspirazioni umanistiche di un”intera nazione. Il vivere sociale è un sistema da ricostruire in larga parte nel nostro Paese, soprattutto agli occhi di chi, come il sottoscritto, ha avuto modo di sentirsi parte attiva in un contesto come quello scandinavo, dove la convivenza civile tra culture diverse emerge come uno dei più alti esempi di democrazia e pluralismo che la storia degli ultimi secoli abbia saputo esprimere.

Nel Nord Italia come nel Mezzogiorno assistiamo, sempre più spesso, a scene di giovani che imbracciano bastoni a difesa di un”identità che viene proclamata con violenza, da affermare proprio nella lotta contro l”alterità, contro un capro espiatorio che qualcuno ha consapevolmente saputo costruire con menzogne e a suon di bombardamenti mediatici.

L”economista premio Nobel Amartya Sen, in un famoso saggio sull”identità, sostiene che molti dei conflitti e delle atrocità del mondo siano tenuti in piedi dall”illusione di un”identità univoca; promuovere la violenza equivale a coltivare un sentimento di inevitabilità riguardo a una qualche presunta identità unica.

La cultura, sostiene ancora l”economista indiano, non è l”unico elemento che determina la nostra vita e la nostra identità. Anche perché gli attuali contatti culturali stanno ibridizzando a tal punto le modalità di comportamento in tutto il mondo che è diventato difficilissimo identificare una qualsiasi “cultura locale” come genuinamente “autoctona”.

A seminare la violenza nel mondo sono l”ignoranza e la confusione, oltre che le ingiustizie trascurate. L”indigenza può essere accompagnata non soltanto dalla debolezza economica, ma anche dall”impotenza politica. Un morto di fame può essere troppo debole e demoralizzato per lottare e combattere, e perfino per protestare e gridare, un lavoratore immigrato è spesso sottoposto al ricatto occupazionale e potrebbe non avere la forza di pretendere quello che è un suo diritto.

In questo contesto andrebbe analizzato il vergognoso episodio di Rosarno. Come afferma Diego Barsotti, infatti, se le arance del sud Italia e di Rosarno oggi arrivano nei nostri mercati a un euro al chilo è grazie proprio allo sfruttamento di manodopera a basso costo, che scarica su questa ingiustizia sociale il reale valore del prodotto in sé.

Della vita degli immigrati, delle esistenze disperate di molti esseri umani in fuga da qualche atrocità o miseria in altre parti del mondo, non solo non si fa alcuna seria e matura riflessione o analisi politica, ma neppure li si aiuta a vivere una vita normale.

Anzi, spesso si accetta di farli vivere in sordidi ambienti a prezzi vergognosi, in cubicoli sporchi ed indegni di ogni forma di vita, senza nemmeno rispettare il diritto a un”intimità ed a un riposo dopo turni massacranti di lavoro.

Gli episodi di violenza del piccolo centro calabrese evidenziano un sentimento di intolleranza, se non proprio di avversione, nei confronti del diverso, sentimento che ormai accomuna Nord e Sud del Paese.

E pensare che, come ricorda il mio amico e maestro Gigi Malaroda, proprio quel Nord-Sud in Italia erano stati uniti dalle lotte di chi si spostava dalle proprie terre per cercare lavoro nelle aree industrializzate del Nord e lì riusciva a rivendicare e a veder riconosciuti dei diritti che gli erano negati. In primo luogo negati dall”arretratezza dello sviluppo economico a cui erano costrette le zone di provenienza, in secondo luogo dagli stessi abitanti delle nuove regioni di “accoglienza”, che già allora avevano per lo più dato prova di cavalcare narrazioni egoistiche e artificiali sul rapporto tra esseri umani.

Analogamente, ai nostri giorni, pare essersi realizzata una nuova unità, ancora costituita dall”egoistica affermazione del sé sociale come superiore, spesso proclamata da chi accetta supinamente regole che lo mettono ai margini della società; società di cui, anche ai margini, ci si sente parte tuttavia, in quanto il senso di identità comune genera sicurezza.

Come afferma l”antropologo piemontese Francesco Remotti, buona parte dell”uomo (i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi sentimenti, le sue inclinazioni) viene costruita socialmente. Nel momento in cui l”essere umano ha da uscire dalla precarietà e dall”incompletezza affronta il problema dell”identità: di una specifica identità culturale. Si realizzano legami di dipendenza profonda rispetto a quelle forme. Qualsiasi realizzazione culturale, qualunque forma di identità, implicano una rinuncia alla molteplicità, un”accettazione (entusiastica, forzata o dissimulata) della particolarità.

Non ci vuole molto a scivolare dal riconoscimento e dal rispetto delle differenze alla discriminazione, da questa al rifiuto e dal rifiuto al tentativo di eliminazione.

L”intolleranza – afferma ancora lo studioso nel citare il filosofo Hume – potrebbe essere conseguenza del monoteismo cristiano. Il monoteismo è compatto, incorruttibile, duro, programmaticamente avverso all”alterità e quindi all”alterazione di sé. L”eccessiva rigorizzazione del monoteismo, la troppo forte armatura identitaria che ne è alla base, produrrebbero i disastri di cui è piena la storia delle società in cui si è imposto.

La vera modernità non sarebbe quella del mono-mito, la modernità autentica è predisposta al pluralismo, come altre culture e forme di pensiero – basti pensare a quella buddista ad esempio – hanno dimostrato.

Impossibile, a mio avviso, continuare a negare che le responsabilità del degrado della vita sociale in questo paese dipendano da un sistema esteso di valori (o, piuttosto, di disvalori), da una intera cultura in senso antropologico: dal mondo della politica, del sapere e dell”educazione, dell”economia e della finanza, dei media, da quello della scienza e della religione, dalle professioni varie ecc. La maggior parte di queste sfere della società persegue ormai interessi di parte e non più il bene comune; le ciniche logiche del mercato, della vendita e del marketing spesso sembrano guidare le dinamiche che intervengono tra gli individui che operano in questi ambiti.

Per ricordare come il “sonno della ragione” possa intervenire, talvolta, sulle coscienze di un”intera collettività vorrei introdurre un parallelo, per quanto possa sembrare esagerato.

Alcuni video relativi alla liberazione dei campi di sterminio nella Germania nazista, all”epoca della fine della seconda guerra mondiale, mostrarono le immagini di alcuni cittadini tedeschi che, costretti dagli Alleati ad assistere alla visione raccapricciante di migliaia di corpi senza vita ammassati in quei luoghi, si coprivano il volto dal disgusto e dal senso di repulsione.

Possibile che quegli individui fossero realmente ignari degli orrori che si commettevano nei lager?

È davvero concepibile che essi si ritenessero immuni dalle responsabilità di ciò che era avvenuto dietro quei recinti di filo spinato?

Può il singolo individuo che fa parte di una società ritenersi esonerato dalle enormi responsabilità che quella stessa collettività ha generato per mezzo anche della propria indifferenza, noncuranza, qualunquismo?

Analogamente, si può continuare ad affermare che gli errori ed orrori del fascismo in Italia fossero unicamente responsabilità di un uomo?

Oppure, sarebbe forse il caso che ogni singolo individuo riconoscesse le proprie colpe di fronte alla storia, di fronte agli uomini e all”ambiente in cui opera?

A tal proposito, alcuni giorni fa i giornali italiani riportavano, con un tono quasi di sdegno, le parole di Oliver Stone riguardo a una nuova serie televisiva a cui egli sta lavorando negli Stati Uniti. Nel presentare questo suo nuovo lavoro il regista americano ha definito Hitler, certamente in maniera un po” provocatoria, come “il prodotto di una serie di azioni”, preparandosi quindi a raccontarlo come un “semplice fenomeno della storia”. Stone sostiene, senza ipocrisia o pregiudizio, come un personaggio – sebbene con tutto il carico di responsabilità da cui non può ovviamente essere assolto – non possa aver determinato, da solo, effetti di portata così drammatica e globale, ma come questi ultimi siano riconducibili a un”intera classe dirigente, se non a un”intera popolazione, cultura o vivere sociale.

È davvero immaginabile provare indignazione e stupore solo quando ci si trovi dinanzi ai frutti più perversi e raccapriccianti di quanto si sia seminato con costanza? Si può continuare ad accettare, oggi come ieri, una tale incoscienza collettiva nel nome dell”ingenuità, della passiva accettazione degli eventi in quanto la manipolazione mediatica ha il vantaggio di agire profondamente sulle coscienze?

È qui il punto fondamentale della questione a mio avviso: l”evoluzione sociale e culturale di un popolo, in grado di generare effetti positivi simili a quelli che si osservano nei paesi scandinavi, è possibile solo grazie a una presa di coscienza prima individuale che collettiva.

Le grandi responsabilità possono essere assunte solo da soggetti in possesso degli strumenti adatti, da individui preparati a scomporre i segni che vengono proposti ogni giorno sottoforma di messaggi pubblicitari, slogan televisivi o notizie in generale.

La maschera dell”identità si fa fatica a strapparla perché sotto non vi sono né un “Io” né un “Noi” più autentici e consistenti.

Una persona interiormente adulta non ha paura del diverso, il diverso disturba perché provoca interrogativi, scalfisce abitudini inveterate. Ecco perché una maggiore consapevolezza del proprio Io, un””identità personale” consolidata e fortemente soggettiva, per certi versi psichica e spirituale, è la premessa per una società migliore.

L”identità collettiva, come sostiene ancora Remotti, crea vicoli ciechi mentali spesso inesorabili. Ogni tanto si finisce per attribuirla a soggetti entificati (Dio o l”Io, la nazione o l”etnia) ed essa assume un carattere potenzialmente perenne o comunque duraturo, può avanzare diritti di riconoscimento e di auto-affermazione; può persino sentirsi legittimata all”espansione e a una diffusione universalistica.

Il problema principale – e ormai pressoché generalizzato – di gran parte del Vecchio Continente risiede in una certa boria, nella scarsa umiltà, nel chiudersi in difesa di puri interessi egoistici, a rincorrere i vezzi di classe, a mantenere i propri vizi e capricci, nel dedicarsi a perpetuare piccole sacche di potere ed egemonia autoreferenziale, nel privilegiare i salotti del perbenismo e nel costante disinteresse (se non addirittura disprezzo e condanna) dei maleodoranti ambienti in cui gli umili, i poveri, i reietti si dimenano per un pezzo di pane.

Un”Europa costituita da persone volte ad affermare il proprio ego, a ricercare l”affermazione sociale piuttosto che la crescita umana, basando il riconoscimento del proprio valore unicamente su ciò che si possiede. Per dirla alla Fromm: «il vasto pubblico è a tal punto egoisticamente occupato da interessi privati, da prestare scarsa attenzione a tutto ciò che trascende l”ambito strettamente personale». È sintomatico, in questo senso, che un personaggio pur controverso come Bill Gates sostenga che nei paesi industrializzati i ricchi siano più interessati a risolvere i loro problemi di calvizie che a combattere la malaria nel resto del mondo in via di sviluppo.

Tornando ancora una volta a rivolgere lo sguardo al nostro paese, verrebbe da domandarsi, ad esempio, se sia sufficiente continuare a credere che Berlusconi rappresenti l”unica causa del problema.

Allo stesso modo, è sufficiente accettare di rivolgersi a un”unica fonte di informazione (fosse anche «la Repubblica») con la pretesa di arrivare a conoscere la realtà e quindi di avere gli strumenti per un”analisi corretta?

O, ancora, può bastare affidarsi alle buone maniere dei vari dirigenti dell”attuale centrosinistra, senza pretendere un”opposizione più decisa ai vari tentativi di oscuramento della volontà popolare?

Occorre abbandonare queste ipocrisie e porsi delle domande serie e precise, per non finire tutti contagiati dalla stessa malattia, anzi per non rischiare di esserne maggiormente esposti per il solo fatto di ritenersi immuni. Per riprendere il riferimento iniziale allo stato di “sonnolenza generalizzata”, non si può certo ignorare il fatto – e non esserne preoccupati – che siamo circondati da un nuovo e pericoloso conformismo, da coloro (spesso intellettuali) che, con poco senso del coraggio e con malcelata presunzione, sono convinti di rappresentare l”élite democratica di questa Italia, decisi a credere e a far credere che esista un”unica e legittima alternativa istituzionale all”attuale classe di governo, al contempo sconfessando e mandando al rogo tutte quelle forme che propongono nuovi e più incisivi modelli di cambiamento politico e sociale.

L”odierna “caccia alle streghe” è la solita strategia che ha come obiettivo quello di creare forme di dipendenza sociale. Spesso essa si manifesta con la costruzione di quelle “verità uniche” di cui parla anche Sen, che tendono a criminalizzare, zittire e isolare quei comportamenti di chi ogni giorno propone modelli alternativi di analisi della realtà, o semplicemente stili di vita più sostenibili da un punto di vista economico, sociale o ambientale.

Purtroppo anche in questo caso si tratta di una larga parte del Paese che, pur opponendosi alla deriva anti-democratica rappresentata dal berlusconismo, spesso si scaglia altrettanto anti-democraticamente contro chi usa toni e contenuti più forti per destare le coscienze.

I nuovi conformisti, appunto, coloro che, dall”alto delle posizioni di potere – politico, amministrativo, burocratico, universitario, giornalistico-mediatico, sanitario e scientifico, giudiziario, sindacalista, ecclesiastico, associazionistico, massonico ecc. – che pur detengono, non sono in grado di proporre soluzioni credibili e concrete per superare tale deriva.

L”inevitabile fine dell”era Berlusconi, nei prossimi anni, avrà davvero un effetto di cambiamento in Italia, così come vogliono farci credere questi artefici della pseudo-rivoluzione? Come sostiene ancora Fromm «molti di noi sono come sospesi tra veglia e sonno, inconsapevoli che gran parte di ciò che ritengono vero e di per sé evidente non è che illusione frutto dell”influenza suggestiva dell”universo sociale in cui si vive».

Nemmeno possiamo sperare che i nuovi modelli organizzativi di società impegnata, che nascono per lo più dai social network (come un tempo lo erano i circoli ricreativi di partito), rappresentino l”unica vera alternativa al cambiamento. Anche se il malcontento globale, a cui taluni movimenti di protesta hanno dato voce in questi ultimi anni, può essere visto come la prova dell”esistenza e della necessità di un”etica globale.

Forse, allora, è necessario riconoscere che la vera rivoluzione socio-culturale non può prescindere da un nuovo patto sociale, a partire da una redistribuzione più equa delle risorse, rivolgendo anzitutto lo sguardo alle sacche di povertà più estrema, senza alcuna distinzione di provenienza etnica, nazionale o sociale. L”interrogativo che andrebbe posto è se sia possibile ottenere un trattamento migliore (e più giusto) con minore disparità di opportunità economiche, sociali e politiche e quali aggiustamenti a livello internazionale e nazionale siano necessari per raggiungere questo obiettivo.

L”integrazione dell”immigrato può avvenire solo in condizioni di reali possibilità di accoglienza (soprattutto da un punto di vista dell”inserimento nel mondo del lavoro) e di equa distribuzione del reddito, senza alcuna strumentalizzazione politica per soddisfare esigenze di potere.

Affinché l”integrazione dell”alterità all”interno della società divenga un fatto concreto e realizzabile occorre abbandonare atteggiamenti di ipocrisia o di accettazione per mezzo semplicemente di slogan o di parole.

Occorre anche iniziare a educare e ad educarsi alla reale tolleranza, affinché questa non rappresenti soltanto un mero fatto ideologico, il che poi spesso porta i singoli a scagliarsi duramente contro le istituzioni quando queste privilegiano, ad esempio, l”inserimento di un bambino di altra nazionalità in un asilo perché appartenente a una famiglia in condizioni economiche svantaggiate.

Emerge forte la necessità di discutere dell”importanza della nostra comune appartenenza al genere umano, un argomento su cui le scuole, le università, i media, la filosofia, la religione, lo spettacolo possono interpretare un ruolo decisivo.

In Danimarca la gran parte degli immigrati non si trova in condizioni di clandestinità, ma è generalmente accolta con rispetto, ad essi vengono garantiti gli stessi diritti che ai cittadini danesi: un lavoro, una casa, una sanità pubblica, l”accesso al credito, la possibilità di seguire un proprio culto religioso e di formare una famiglia ecc.

Certo questo è il risultato di riflessioni socio-politiche ben precise e di una seria programmazione, ma anche di una cultura dell”accettazione e del confronto su basi di uguaglianza.

Gli attuali ed i futuri vertici della sinistra italiana, in particolare quelli del Partito Democratico, dovrebbero ricostituirsi – senza alcuna ambiguità – attorno a questi valori per conquistare nuovamente la fiducia e l”appoggio della società civile.

Non è un caso che in una regione come la Puglia Vendola abbia ottenuto un così netto successo alle primarie per le prossime elezioni regionali, in quanto rappresenta forse l”unica alternativa credibile a Berlusconi che l”attuale sistema abbia saputo esprimere, soprattutto su temi cruciali come quelli ambientali. Che poi le scelte del sistema non sempre rappresentino il meglio (o, semplicemente, la volontà della gran parte dei cittadini) quello è un altro discorso che richiederebbe ulteriori ed approfondite analisi.

Serve un”apertura ad analisi e pensieri inediti, senza rinunciare a collaudate ispirazioni derivanti dal concreto divenire della storia, come nel caso della socialdemocrazia scandinava e certe sue buone prassi

Forse i tempi sono maturi per auspicare – anche in questa parte di mondo ben più a sud di Copenhagen – un cambiamento se non delle coscienze e della consapevolezza collettiva, almeno del tipo di rappresentanze popolari che decideranno delle vite delle generazioni future.

E perché non illudersi, ad esempio, di poter vedere tra qualche anno delle personalità nuove e più mature, anche sotto il profilo umano, alla guida politica del nostro paese? Ad esempio figure non appartenenti alle logiche elitistiche e massoniche del passato – e dell”attuale presente – quanto, piuttosto, soggetti provenienti da diversi strati sociali, dotati di senso del bene comune e che non perseguano fini personali o corporativi, individui mossi da un vero sentimento di umiltà (che non ha nulla a che vedere con il falso buonismo), che sappiano esprimere autorevolezza e non necessariamente autorità.

Come sostiene infine Sen, la principale speranza di armonia nel nostro tormentato mondo risiede nella pluralità delle nostre identità, le altre identità che gli individui possiedono e giudicano importanti, l”universo di classificazioni plurali e variegate che caratterizza il mondo in cui viviamo realmente. La storia e il background non sono l”unica maniera di vedere noi stessi e i gruppi ai quali apparteniamo. Esiste una gran quantità di categorie diverse a cui apparteniamo simultaneamente e che ci possono influenzare e coinvolgere.

 

Fonti:

Native

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