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Scuola, non tutto è da buttare

Scuola, non tutto è da buttare
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11 Ottobre 2011 - 19.54


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pitecschool

di Ettore Macchieraldo e Romano Calvo – Megachip.

Chi non avesse l”abitudine a frequentare le aule scolastiche italiane e quindi non avesse la possibilità di toccare con mano la débâcle della scuola pubblica, farebbe bene a considerare questi dati: gli “early school leavers” cioè coloro che si sono congedati troppo presto dalla scuola, in Italia, nel 2008 erano quasi 900 mila: ragazzi di età compresa fra i 18 e i 24 anni – oltre il 20 per cento del totale di quella fascia – in possesso della sola licenza media e che non partecipano a nessuna forma di educazione o formazione. Sono oltre 500 mila gli alunni italiani che ogni anno interrompono gli studi o vanno incontro ad una bocciatura.

La conferma è arrivata da viale Trastevere che ha pubblicato il dossier dal titolo “La dispersione scolastica: indicatori di base per l”analisi del fenomeno”. Un fenomeno che al Paese costa 3 miliardi di euro l”anno di costi diretti e una cifra non quantificabile di costi indiretti che possono essere molto pesanti.

Nel 2010 la probabilità di diplomarsi, per uno studente iscritto al primo anno della scuola secondaria di secondo grado cinque anni prima, è pari al 70%. Significa che il 30% di chi si iscrive in prima superiore, al diploma non ci arriverà mai!

In tema di lotta alla dispersione scolastica i dati Ocse degli anni novanta ci davano al 3° posto (su 15), mentre nel 2010 siamo scesi al 13° posto.

Ma i dati statistici non sono sufficienti a spiegare il fenomeno strisciante che molta letteratura recente ha saputo mettere in evidenza. Per molti studenti della scuola secondaria, la scuola è essenzialmente noia, tempo sprecato. Un parcheggio verso non si sa dove. Un recinto per contenere i “mostri”. Un tempo morto che offre veramente poco nello sviluppo di conoscenze e capacità critiche.

Da decenni migliaia di esperti si sono avvicendati al capezzale di questo moribondo. E non c”è un solo tentativo di riforma messo in atto, dagli anni novanta in poi, che abbia segnato un qualche percettibile miglioramento. Possiamo affermare, anzi, che la regressione è progressiva.

Vorremmo provare a fare qualche passo indietro quando, sull”onda della contestazione, vi furono interessanti tentativi di cambiamento. Sperimentazioni il cui fallimento dovrebbe fare riflettere, ma non per rimuoverle dalla discussione.

“La lettera a una professoressa” della Scuola di Barbiana è stata presa dai contestatori del Sessantotto come strumento di critica. Soprattutto le pagine dedicate ai “Pierini” e contro la selezione di classe. Questo movimento ha prodotto effetti interessanti, così che nelle scuole di base (materne, primarie e medie) fino agli anni novanta si sono limitate le bocciature e si è assicurato un discreto livello di qualità educativa. I ”Pierini” erano i figli dei ricchi, facilitati, grazie all”ambiente sociale di provenienza, nel successo scolastico e, successivamente, nella società. Il fenomeno nell”ultimo decennio si è accentuato. Riconosciamo, però, che a questo progressivo impoverimento economico e culturale dei meno abbienti non è corrisposta la formazione di una futura classe dirigente preparata. Questo è doppiamente grave.

Non crediamo che a questa involuzione si possa rispondere tornando alla ”scuola dei Pierini”. Siamo convinti che ci voglia più partecipazione nella scuola per salvarla e farne luogo strategico per la Transizione.

Degli strumenti ci sono e altri dobbiamo inventarli.

I Decreti Delegati degli anni 70 hanno sancito l”entrata nella scuola della comunità educante: genitori, cittadini, amministrazioni. Ma ciò non si è realizzato. Ha vinto la burocrazia ed il potere autoreferenziale degli addetti scolastici. Il filo del discorso va ripreso proprio da lì, riappropriandosi degli strumenti svuotati. Nella dimensione territoriale, che riteniamo sia quella ottimale per acquistare sovranità popolare, è fondamentale che la scuola diventi il luogo dove coalizzare interessi diversi e categorie sociali frammentate. Certo comporta dei rischi, soprattutto di disomogeneità dei servizi. A questo dovrebbe porre rimedio un oculata gestione centrale, che sia in grado di intervenire, dove è necessario, ma anche di farsi da parte dove non lo è.

Negli anni 70 gli scritti di Ivan Illich sulla necessità di “descolarizzare la società“, sembravano folle utopia, eppure 40 anni dopo abbiamo davanti agli occhi tutte le evidenze dei disastri provocati sul sapere dalla ministerializzazione della scuola.

Il sapere affidato ad un ceto di burocrati ed impiegati ministeriali, si è trasformato in banalità, in formule da imparare a memoria, fino a ridursi alla totale irrilevanza. L”educazione è stata affidata ad un organismo centralizzato e burocratico che non è capace nemmeno di controllare la tenuta del tetto che ha sulla testa.

Questo processo è stato accentuato dalla aziendalizzazione dell”istituzione scolastica. Sappiamo che negli organi decisionali degli Istituti di ogni ordine e grado ci si occupa quasi esclusivamente dei magri bilanci e poco, pochissimo, di programmi e didattica.

Proprio per questo dobbiamo rendere incisiva la partecipazione che, intorno ai tagli alla Scuola pubblica, ha in questi anni portato a dialogare insegnanti, genitori e studenti.

Ed occorre permettere che questo dialogo apra la possibilità di rivoluzionare dal basso i programmi e la didattica, mettendo in discussione tutto: la scansione oraria, lo spazio fisico, il frazionamento delle materie, le specializzazioni dei docenti, le forme del loro reclutamento e le carriere.

Non possiamo in questa sede entrare nel merito, ci preme però riabilitare un altro pezzo delle esperienze critiche che attraversarono questo Paese, vivacizzandolo, nel decennio dei ”70. E sono quelle persone e gruppi che, fuori e dentro le istituzioni, hanno messo in discussione le gerarchie dei saperi.

C”è un filone intellettuale, non del tutto organico al movimento del ”68 , che si basa sull”«intelligenza della mano». Riprendere questo pensiero e queste pratiche aiuterebbe a ridare il giusto spazio alla cultura “alta” (filosofia, matematica.) mettendola in relazione dialettica con i saperi tecnici, professionali e pratici.

La funzione della scuola non si riduce alla formazione professionale. Ma non esiste sapere che non si sviluppi a partire dall”esperienza. Per questo è necessario riportare l”esperienza al centro dell”apprendimento. Consigliamo la lettura di Enzo Mari, “Progetto e passione”, 2001.

Pensiamo sia una trasformazione culturale importante, soprattutto se inserita nella prospettiva della decrescita, o conversione ecologica o che dir si voglia. Avremo bisogno, noi e i nostri figli, di essere capaci di costruirci merci e servizi ”ben fatti”, consapevoli sia dei contenuti intellettuali che di quelli pratici che questi oggetti e funzioni hanno in sé.

Se vogliamo porre mano alla Scuola e metterla al centro della trasformazione delle crisi in corso, dobbiamo eliminare questa scissione.


Leggi anche:

1)   La proposta di riforma del “Gruppo Scuola e Università” di Alternativa

2)  Michele Maggino, Scuola, non edonismo

 

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