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Creare e tutelare il sapere gratuito

Quel che oggi è in palio, nello scontro tra sapere e potere, è la capacità di controllo consapevole e proiettato in avanti delle traiettorie esistenziali che aprono mondi di vita per ciascuno e per tutti. [Salvo Vaccaro]

Creare e tutelare il sapere gratuito
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19 Febbraio 2016 - 10.26


ATF
di Salvo Vaccaro*

Per lunghi, troppi, secoli il sapere si è caratterizzato per la sua rarefatta elitarietà. (…) Oggi la pluralità delle sfere del

sapere è un fatto insormontabile che non pone più in questione la gestione di un’unità ormai infranta, effetto mimetico di

un’unità trascendentale di stampo divino, secolarizzata in una metamorfosi che annoda saperi frammentati e poteri

decentrati senza contraddizione. Tuttavia la posta si è estesa: dall’antica lotta per l’acquisizione di disponibilità a saperi

elitari, dal moderno conflitto intorno al soggetto di gestione del nesso sapere-potere, a partire dal 1968 (data emblematica

e convenzionale insieme) avanza una battaglia sulla produzione autonoma di sapere e potere, con l’elaborazione di

differenti ipotesi di intreccio reciproco che dà luogo a configurazioni orizzontali, e non più verticali, di tale nesso cruciale.

L’allargamento pubblico dei canali di accesso, coniugato con la miniaturizzazione delle tecnologie di sapere e un relativo

benessere che sposta le matrici consumistiche di spesa anche verso il genere culturale, ha disseminato in alcune aree del

pianeta toccate da quei processi il modo di produzione, aprendo l’orizzonte a inediti approcci di declinare sapere libero e

potere di sottrazione al già-dato, al conforme, all’uni-forme. (…)

Il nesso sapere-potere del 1968 assumeva il sapore libertario della fantasia creativa ed eretica al potere, facendo della

frammentazione dei saperi una virtù, piuttosto che un limite da ricondurre a unità. La disseminazione del sapere e del

potere rendeva possibile l’emergenza di diversi soggetti, ugualmente legittimati a ritagliarsi le forme-di-vita loro disponibili,

tanto nel conflitto quanto nella convivenza plurale di differenti (un debito rintracciabile sia nell’irruzione della prospettiva di

genere, sia nell’esodo volontario verso nuove eu-utopie).

La produzione di profili esistenziali liberati e liberatori estendeva a dismisura la trama di sapere e potere, riannodando ogni

volta un ordito differenziato che si sottraeva a ogni pretesa egemonica tanto del sapere disciplinare, quanto del potere

regolamentare. La schiusura di orizzonti superava la contrapposizione tra unità e frammentazione, liberava energie prima

intrappolate al centro della dialettica tra Stato e società o marginalizzate con violenza negli interstizi di miseria – al pari

delle periferie del pianeta ove dominava la povertà e l’ingiustizia in ogni ordine – e infine offriva l’opportunità di produrre

saperi e poteri al di fuori dei regimi discorsivi e degli apparati istituzionali, pervasi dall’ansia di controllo all’unità, sia pure

nelle articolazioni decentrate offerte dalle liberal-democrazie vigenti.

È la stagione felice delle sperimentazioni extra-istituzionali, della fantasia al potere, dell’esplorazione di altri mondi interiori,

della costruzione edificante di comunità alternative, della fuoriuscita di innumerevoli saperi dalla gabbia delle discipline

istituite e codificate accademicamente, della formazione dal basso di nuove conoscenze diffuse attraverso nuovi strumenti

che ricombinavano creativamente oralità e scrittura, pathos e ratio, eros e Kultur, gesto e parola, segno e significazione,

visualità e cifra.

La «gaia scienza» di Nietzsche sembrava realizzarsi nella giocosa anarchia del sapere e del potere a ogni livello, sia

conflittuale nello scontro quotidiano, sia parallelo nella progettualità di mondi-di-vita da inventarsi nel singolare plurale che

contraddistingueva un’epoca sovversiva all’ennesima potenza. Anche le istituzioni e gli apparati costruiti progressivamente

nel tempo da mano e mente liberali venivano scardinate e rovesciate dall’interno e dall’esterno, secondo una duplice

mossa a tenaglia di scavo e incavo che recuperava quanto di integrabile nella nuova trama di sapere-potere, mentre

rigettava senza appello ciò che si rendeva percepibile nella sua intollerabilità assoluta. La disseminazione incitava alla

pluralità irrappresentabile, che pure trovava saldo aggancio nella vita quotidiana restituita per la prima volta al vissuto non

più irretito in un unico e unitario significato dispotico. Mao, con i suoi cento fiori, e l’anti-Edipo hanno segnato, nel bene e

nel male, nella fedeltà e nell’incoerenza di tale promessa di felicità non più dilazionabile, i confini di spazio e di tempo di

tale formidabile stagione di attacco sottraente al poteresapere. Così il 1968 intendeva prendere sul serio l’emancipazione

dalla minorità incitata sin dai Lumi kantiani…

La disseminazione dei saperi sfuggiva al controllo del potere dialettico di unità-frammentazione: il contrattacco non mira a

ripristinare regressivamente una disposizione ormai dissolta, bensì punta alla frantumazione (definitiva?) delle condizioni

contestuali grazie alle quali è stato possibile assaltare il cielo senza aver chiesto prima il permesso. Sono rintracciabili

almeno tre direttrici di questo contrattacco: lo svilimento della pubblicità dell’apparato istituzionale di massa di cui ormai

registrare il fallimento nel disciplinamento degli orientamenti di sapere; la precarizzazione delle forme di autonomia anche

reddituale che fungono da presupposto di tempo liberato da dedicare alla cura (culturale) di sé; la trasformazione del

regime discorsivo del sapere di cui negare singolarità specifica – la gratuità infunzionale – per legarlo strettamente a un

illusorio détour professionale.

I processi emancipativi di alfabetizzazione estesa hanno trovato nell’istituzione scolastica di ogni ordine e grado un

contenitore a imbuto che regolamentava la pubblicizzazione ormai acquisita nella parte ricca del pianeta lungo tutto il xx

secolo, senza tuttavia rinunciare alla funzione disciplinare: la selezione dei contenuti di sapere, spesso normati in via

accentrata, il predominio statuale delle porte di accesso alla professione, l’orientamento statuale impresso alle forme di vita

scolarizzate, persino sin nelle forme architettoniche, la sottile discriminazione censoria avvertibile nei luoghi di marginalità e

nelle figure espulse con modalità latenti e informali, il ruolo di palestra all’obbedienza conformistica tanto all’autorità centrale

della figura dell’insegnante, quanto alla delega corporativa nella pseudo-democrazia dei processi deliberativi interni,

facevano dell’istituzione scolastica un apparato disciplinare di Stato quanto mai potente per la riproduzione dei meccanismi

di formazione e funzionamento della società statualmente regolamentata, esattamente come i processi produttivi con

l’emergenza delle nuove forme di lavoro erano funzionali alla riproduzione allargata del capitalismo regolato statualmente.

Una volta colmato il gap di alfabetizzazione collettiva, la messa-in-formazione così disciplinata scatenava il conflitto dei

saperi autonomi tanto dentro quanto fuori dell’istituzione, che si è trovata al centro di epici scossoni data la delicatezza

della sua funzione politica, finendo con lo smarrire il proprio ruolo per sovraccarico di tensioni. Proprio l’onere eccessivo

ha progressivamente svilito la sua ragion d’essere, sia in quanto occlusiva di reale autonomia, sia in quanto inidonea

all’obiettivo disciplinare. La sua frantumazione passa paradossalmente attraverso la difesa indifendibile di un segno

pubblico ormai da tempo sussunto e svuotato di ogni fattore dissonante: l’istituzione di pubblico mantiene solo gli standard

negativi, rinviando ad altri luoghi elitari il deposito e l’elaborazione di quei saperi per pochi, protesi all’ingresso nella

posizione privilegiata dei gestori e amministratori dello status quo, mentre si lascia sfuggire il nesso tra contenuti di sapere

e forme di vita quotidiane che attengono sia ai beneficiari, indifferenti e insofferenti allo stile istituzionalizzato della

formazione e trasmissione di saperi formali, sia all’insieme della società nel suo complesso, che in quello spazio

disciplinare chiuso non riesce più a trovare le chiavi di decifrazione e comprensione attiva del proprio stare al mondo

come individuo e come comunità interagenti in spazi globali.

L’acquisizione di autonomia culturale passa, come è ovvio, da un certo livello di benessere economico e di tempo

liberato, frutto di quel compromesso fordista e socialdemocratico che secondo Marco Revelli ha caratterizzato, nella

seconda metà del «secolo breve», i conflitti nelle aree industriali della terra. Soldi sottratti alla valorizzazione diretta e

indiretta del capitale, nonché tempo libero da dedicare al pensiero senza necessità di collegarlo a un’esigenza pesante e

ingiuntiva di un qualche risultato concreto da raggiungere (pensiero della reificazione strumentale, secondo Horkheimer),

che rappresentano una miscela sovversiva su cui si concentra il contrattacco: la frantumazione di tale condizione passa

attraverso la finanziarizzazione dell’economia produttiva e la precarizzazione della posizione soggettiva entro i processi

produttivi, eliminando autonomia reddituale e tempo liberato per altro che non si sottoponga alle ingiunzioni della

valorizzazione capitalistica. La nuova economia riduce le risorse disponibili a funzioni di bisogni ricreati opportunamente

come salda base ipotecaria da cui non potersi svincolare, pena l’espulsione dal recinto sacro lavorativo, la

marginalizzazione violenta e la perdita totale di ogni autonomia. I crescenti livelli di disoccupazione, ricondotti

moralisticamente a volizioni oziose da redimere o a congiunture ostative di un mercato non compiutamente liberalizzato,

rivelano invece il reale volto sterminatore del mercato capitalistico che affida al cuore duro della ragion di Stato la gestione

di un problema relegato alla stregua di ordine pubblico, minandone la legittimità data la non corresponsione dei termini

contrattuali: cedere libertà senza ottenere sicurezza (in senso lato).

Infine, muta pretestuosamente il regime discorsivo del sapere, la cui gratuità – ossia non l’essere intenzionato

finalisticamente verso alcunché ma disporsi all’attitudine critica (quindi non speculativa nel senso di rispecchiante, né

contemplativa nel senso dell’ammirazione e adorazione verso il presente così come esso è) – viene elisa a favore di un

nesso vincolante alla formazione di professionalità immediatamente spendibili su un mercato del lavoro, che tuttavia è

alieno da recepire in massa nuove figure in quanto, almeno in questa parte del pianeta iper-industrializzato, la

segmentazione globale del processo produttivo, già surclassato dalla produzione di ricchezza monetaria a mezzo di

denaro liquido (cioè l’egemonia della dimensione finanziaria immateriale e virtuale su quella materiale), rende strutturale la

inoccupazione di massa, ponendo il problema dell’integrazione pacifica di masse istruite professionalmente in bacini

ristretti di occupazione di forza-lavoro, laddove la deculturazione progressiva e incalzante pone il problema analogo di

un’integrazione socio-culturale che solo contesti violenti – vedasi la guerra permanente – possono ricondurre a unità

collante al tessuto sociale statualmente controllato.

Quel che oggi è in palio, nello scontro tra sapere e potere, è la capacità di controllo consapevole e proiettato in avanti

delle traiettorie esistenziali che aprono mondi di vita per ciascuno e per tutti. Autonomia e forza plasmante di sé, per

parafrasare l’ultimo Foucault, resistono alla frantumazione sottraendosi al ricatto che obbliga alla mera resistenza passiva

come ultima frontiera disponibile.

La polarità antagonista, erede del dominio dialettico esercitato sul mondo a scapito dell’immensa maggioranza del pianeta,

dovrà disgregarsi nella diffusione di sperimentazioni collettive negli interstizi ove il possibile-altro si annida senza, per ora,

prendere radici, ma anzi disperdendosi in un’elusione continua alla cattura pervicace di quel che un tempo si sarebbe

chiamato «sistema», ma che in ultima analisi è la ferrea e micidiale (letteralmente) griglia del sapere e del potere, da cui

chiamarsi fuori per sentieri extra-istituiti da aprire momento dopo momento, spazio dopo spazio, allenandosi a un auto-

governo di sé e della comunità che sappia fare a meno di tale griglia e della sua pesante necessità (anche logica),

innovando pertanto i flussi dei saperi e le modalità relazionali di potere senza condensarli in forme e vettori gerarchici.

(17 febbraio 2016)

* Salvo Vaccaro: docente e filosofo italiano, i suoi ambiti di ricerca si orientano sulla teoria critica (soprattutto Adorno e

Benjamin) e sulla decostruzione post-strutturalista francese (Foucault e Deleuze). In questa pagina, ampi stralci del capitolo

“Sapere gratuito e sottrazione al potere” raccolto in [url”Anarchist studies. Una critica degli assiomi culturali”]http://www.eleuthera.it/scheda_libro.php?idlib=402[/url], edito da elèuthera

(144 pagg., 13 euro).

[url”Link articolo”]http://comune-info.net/2016/02/sapere-gratuito/[/url] © Salvo Vaccaro © Comune-info

Infografica: Bibliosol, la biblioteca autogestita nell’acampada dal movimento 15M (Madrid, 2011).

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