di Pierluigi Fagan.
Spifferi, chissà come motivati e da chi soffiati, affermano che esisterebbe una parte “esoterica” (ovvero non rivolta all’esterno) del recente piano New National Security Strategy statunitense, di cui sia noi sia altri abbiamo parlato di recente.
L’amministrazione Trump ha più volte utilizzato il metodo di far uscire elementi “unofficial” per testarene gli effetti e, magari, pre-abituare l’opinione pubblica a nuove iniziative politiche. Non abbiamo però elementi per dire che questo sia il caso. Resta il fatto che il sito Defense One, ripreso da Politico (di solito serio e ben informato), afferma che alla Casa Bianca starebbe circolando una nuova idea di “tavolo” per le relazioni mondiali.
Si tratterebbe della presa d’atto definitiva di almeno tre fatti.
1) Il G7 rappresenta oggi circa il 15% della popolazione mondiale ed è ormai una minoranza anche in termini di potere economico e militare, destinata a ulteriore declino. Il G20, al contrario, è troppo grande: in venti soggetti — alcuni dei quali complessi al loro interno, come l’UE — si finisce per non decidere nulla, mediando all’infinito interessi inconciliabili. Da tempo si discute inoltre della riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove è sempre meno chiaro cosa ci facciano Francia e Regno Unito mentre manca il più grande Paese democratico del mondo, quarta economia globale (presto terza) e potenza nucleare: l’India.
2) In termini più generali, è finita l’epoca dell’idealismo, cioè del governo del paradigma liberale nelle relazioni internazionali. Disciplina che, paradossalmente, nacque realista negli Stati Uniti, grazie a studiosi europei emigrati (Morgenthau, Carr) e sviluppata poi lungo una linea che da Waltz e Gilpin arriva a Mearsheimer e Walt. Il realismo invita a non far interferire gli assunti ideologici con l’analisi: non nega l’esistenza di idee o ideologie, ma chiede di separarle dall’oggetto di studio. Tra il mondo come vorremmo che fosse e il mondo come realmente è, c’è una differenza.
3) Il punto forse più importante è prendere atto — per quanto l’avverbio sia impegnativo — che il mondo del 2025 non è più quello dei decenni precedenti, e non lo sarà almeno per i prossimi vent’anni. Gli ultimi sette-otto decenni hanno prodotto, per quantità e qualità, una trasformazione radicale. Il contesto, in senso adattivo, fa legge.
Da qui l’idea — reale o fatta circolare ad arte a Washington — di istituire un nuovo formato per la “riunione di condominio mondiale”, partendo dai condomini più rilevanti: un Core 5, o C5, cinque come le dita di una mano chiamata a reggere il mondo.
I cinque sarebbero USA, Russia, Cina, India e Giappone, con gli Stati Uniti nel ruolo di “pollice opponibile”, cioè indispensabile al funzionamento della mano.
USA, Cina, Giappone e India sono oggi le prime quattro economie mondiali per PIL; Cina, USA, India e Giappone lo sono per PIL a parità di potere d’acquisto. La Russia non conta tanto per peso economico — sebbene sia cruciale per le forniture energetiche — quanto come potenza militare. In uno scontro tra grandi potenze, ciò che conta è la capacità nucleare: anche partendo da conflitti convenzionali, la logica dell’escalation conduce lì, e su quel piano USA e Russia sono sostanzialmente equivalenti.
In cinque si può ragionare. India e Giappone, pur asiatici, hanno solide ragioni di bilanciamento per non essere egemonizzati dal “buco nero” cinese. Complessivamente, il C5 rappresenterebbe poco meno del 50% della popolazione mondiale.
La Russia rientrerebbe così nel salotto che conta, tornando a partecipare al “gioco di tutti i giochi”, anche attraverso nuove collaborazioni petro-gasifere con quella élite carbonifera che da sempre sostiene Trump. La Cina vi entrerebbe di diritto, come riconoscimento del suo status, e lo stesso varrebbe per l’India.
Il Giappone potrebbe riarmarsi (acquistando made in USA) e dotarsi persino di armi nucleari, diventando un gendarme filostatunitense nella prima fascia di isole del Mar Cinese, alleggerendo Washington da costi e impegni diretti. L’India, a sua volta, sarebbe incentivata ad aumentare la spesa militare per adeguarsi al nuovo ruolo, continuando a rifornirsi sia dalla Russia sia dagli Stati Uniti.
Gli USA, come recita la NSS e come emerge dalla visione del mondo di Trump, sarebbero impegnati nella digestione egemonica completa del Centro e Sud America (Monroe 2.0) e dell’Europa, utilizzando Austria, Polonia, Italia e Ungheria per frantumare una UE già precaria, liberando spazio al dollaro sotto pressione come valuta-mondo. Un’Europa spinta a riarmarsi rapidamente, comprando soprattutto dagli Stati Uniti, mentre questi si alleggeriscono degli oneri NATO.
Funzionerebbe? Realisticamente sì, sotto i principali profili. Piaccia o meno, il mondo è e sarà multipolare, e alternative praticabili nel breve periodo non se ne vedono.
L’élite europea — Francia, Germania e Regno Unito ormai retrocessi a vassalli — aborre questa prospettiva. Rifugiandosi in un delirio idealistico, invocherà la separazione tra presunte “democrazie” e “autocrazie”, alimentando la narrazione del Grande Nemico Russo e spingendo verso la guerra anziché la diplomazia.
Anche perché, con indici di consenso disastrosi (Merz-Macron-Starmer), non sanno come giustificare alle proprie opinioni pubbliche l’aumento della spesa militare dopo il disimpegno americano. Serve dunque un Nemico imminente, pronto a invadere, nonostante quattro anni di guerra in Ucraina non abbiano portato neppure al pieno controllo del Donbass.
L’unica speranza degli orfani di Biden & Co. è tirarla lunga e pregare per una sconfitta di Trump alle mid-term o per la fine del mandato nel 2028, calcolo fragile anche per l’intenzione del suo gruppo di potere di andare avanti con o senza parvenze democratiche.
Non è un mondo per ex-ricchi, piccoli e timorosi anziani abbandonati dalla badante, terrorizzati dall’improbabile Terza guerra mondiale (sindrome del “dopo di noi il diluvio”).
Meno male che c’è Mark Rutte ad arringare le eurofolle con l’orgoglio virile del ritorno alla vis bellica dei nonni e bisnonni. Un uomo che, fino a poco tempo fa, viveva con la mamma. Del resto, lo slittamento semantico da euro a neuro sembra ormai destino. Dispiace.