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di Serena Ferrara.
Che l”informazione on line abiliti una sorta di memoria collettiva risulta particolarmente evidente quando le notizie diventate obsolete sui media tradizionali, continuano a rimbalzare da una pagina all”altra, rendendo possibili ulteriori e utili approfondimenti. I social network, in particolare, funzionano come una cassa di risonanza che facilita una forma di approfondimento collaborativo[1] la cui importanza è evidente nella prospettiva di realizzare una democrazia partecipativa matura e consapevole. In questi ultimi giorni, ciò mi è apparso particolarmente evidente grazie ad una “notizia” postata sulla mia pagina di Facebook che rimandava ad un”intervista del Movimento a 5 Stelle di Bologna all”ex-magistrato Giuseppe Ayala.
L”intervista, visibile su YouTube, si ispira alla lettera aperta di Salvatore Borsellino Le domande che non avrei voluto fare, che contiene numerosi riferimenti ai fatti che nel corso degli anni hanno portato l”autore a maturare una serie di domande nei confronti di Ayala.
Domande che sono rimaste a lungo senza risposta, fatta eccezione per una lettera aperta di una certa Sign.ra Giulia Alterini, pubblicata e commentata dallo stesso Borsellino sul sito www.19luglio1992.com.
Fino all”intervista del Movimento a 5 stelle. Le domande sono sostanzialmente due.
Primo. Com”è possibile che l”agenda rossa di Paolo Borsellino – che, secondo il racconto della moglie Agnese egli aveva riposto dentro la borsa prima di andare incontro alla morte – sia scomparsa nonostante Ayala fosse presente al momento dell”estrazione della borsa dall”auto?
Secondo. Com”è possibile che, nel corso degli anni, un magistrato con l”esperienza di Ayala non sia stato in grado di restituire un racconto coerente del momento preciso in cui la borsa fu portata via dal luogo dell”esplosione?
Di fronte a tali quesiti, Ayala si limita a rivendicare il “diritto di non ricordare” e lancia una lunga serie di strali all”autore delle domande definendolo “caso umano”, “persona che soffre di gravi problemi mentali”, “Caino”.
Com”è facile intuire dal suo editoriale del 7 dicembre, l”appellativo che ha ferito maggiormente Salvatore Borsellino è proprio quest”ultimo, poiché «se ne deduce, dato che ovviamente Paolo non può essere altri che Abele, che io sarei evidentemente paragonabile a Caino, cioè all”assassino di suo fratello».
Come molti giovani della mia generazione, pur avendo un ricordo lontano di quegli anni, ho sempre nutrito una naturale fiducia negli uomini che, a vario titolo, parteciparono a quella stagione di dura lotta alla mafia a fianco di Falcone e Borsellino. Inoltre, essendo poco incline a condannare qualcuno prima di avere sufficienti prove della sua malafede (dove per prove intendo le sole di cui possano disporre i comuni cittadini, e cioè le pubbliche affermazioni e i pubblici comportamenti), ho aperto il video dell”intervista con una certa perplessità . E anche dopo averla ascoltata più volte, ciò che mi ha colpito maggiormente è stato non proprio la violenza verbale di Ayala, quanto la dinamica dell”intervista e un certo tipo di dialettica alla quale siamo talmente abituati da non coglierne più gli effetti perversi sulla vita democratica di questo Paese.
Dipingere Salvatore Borsellino come fratricida è, in effetti, un”argomentazione oltraggiosa quanto poco utile a chiarire la propria posizione perché, di fronte a una tale affermazione, chi ascolta rimane altrettanto perplesso che di fronte alle domande appena poste.
Tuttavia, è anche un”affermazione ad effetto, di quelle che riescono a calamitare l”attenzione di chi ascolta, annullando il senso generale di un discorso e – al pari di una battuta – a renderne poco credibile qualsiasi interpretazione. Insomma, un artificio retorico ormai “consumato”. Ma evidentemente non abbastanza da evitare che giornalisti e politici professionisti continuino a cadere nella trappola.
Figuriamoci una giovane che, in quanto tale, “non conosce i fatti”, “non ne ha memoria storica”.
E così, la povera sprovveduta, sulla falsariga della lettera originale, finisce per tirar fuori l”argomentazione più scivolosa e meno importante: l”esibizione a teatro, il costo del biglietto, la mercificazione del ricordo. Nel giro di un secondo, un fatto di enorme portata storica e politica viene totalmente banalizzato a vantaggio di una più facile e immediata personalizzazione del conflitto.
Così si direbbe che Ayala stia speculando sull”amicizia di Borsellino non molto di più di quanto Salvatore Borsellino non stia speculando sulla parentela. Ed entrambi speculano al pari di Saviano e Fazio sulla causa della lotta alla mafia. Il risultato di questa equazione, alla fine, è che non viene messa in discussione la buona o la cattiva fede di chi racconta, quanto il fatto stesso di mettere in scena un racconto (specie se a pagamento).
Per questa via, però, l”espressione di qualsiasi punto di vista sulla realtà assume i contorni di un farneticare confuso, o comunque di parte, al quale è possibile se non necessario replicare immediatamente. La verità si fa sempre meno evidente e finisce per diluirsi in una composizione confusa di posizioni più o meno contrastanti.
Per contro, Caino e Abele non sono singoli attori su un palcoscenico, ma la metafora di quanto bene e male possano avere la stessa origine, la medesima apparenza. È questa l”argomentazione centrale, quella su cui sempre più subdolamente si cerca di fondare il dibattito pubblico italiano: che non esistano uomini buoni e uomini malvagi, uomini onesti e uomini corrotti, ma un”unica corruzione fisiologica, un potere che corrompe sempre e comunque, un egoismo che ci rende tutti uguali di fronte al denaro o alla paura di essere ammazzati.
Insomma, non esiste e non è mai esistita una superiorità morale. Ebbene, oggi è fondamentale dimostrare il contrario e riuscire a non cadere in questa trappola retorica. Valga come esempio l”impostazione di un programma come Report, nel quale Milena Gabanelli e i suoi colleghi si sforzano di documentare ogni singola parola, ogni singola affermazione e – alla fine di ogni puntata – dimostrano che c”è sempre qualcuno in grado di dire no, di opporsi a un sistema che la maggioranza delle persone accettano come dato.
L”agenda rossa è, di per sé, un “fatto mancato”, ma la sua potenza simbolica consiste proprio nella possibilità di racchiudere in questa mancanza il senso di una rivendicazione, una domanda di verità e di giustizia. Le domande di Salvatore Borsellino circa i fatti che ne hanno determinato la scomparsa sono fondamentali nella misura in cui non costituiscono un fatto personale ma un”istanza politica, un”esigenza collettiva, un fatto di cittadinanza. Un”istanza che, peraltro, si è fatta sempre più pressante negli ultimi anni, insieme alla richiesta esplicita di gettare una luce sui retroscena delle stragi di mafia, come su quelle del terrorismo.
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Giunge in questo contesto l”annuncio del Presidente del Senato Renato Schifani, relativo alla digitalizzazione dell”archivio della Commissione parlamentare sulle stragi – e, quindi, alla sua apertura al pubblico.
Eppure la notizia è stata accolta da un silenzio quasi straniante: silenzio da parte dei media, silenzio da parte delle associazioni che da anni rivendicano questo atto, silenzio da parte della politica.
E, d”altra parte, come non restare a corto di parole di fronte all”affermazione “che la trasparenza è la prima condizione irrinunciabile della democrazia”. Come mai, allora, gli archivi di Stato vengono aperti a ben trent”anni di distanza dalle stragi? Dev”essere una democrazia quantomeno distratta la nostra. Viene da chiedersi quale sia stato il fattore che ha determinato questo improvviso cambio di rotta.
Le risposte potrebbero essere molte (compresa la recente scomparsa di uno dei più agguerriti custodi dei segreti di stato). Ma probabilmente la più convincente è anche quella più banale. Il successo editoriale delle opere di Mario Calabresi (2007) e di Benedetta Tobagi (2009) e la loro ripetuta partecipazione ai programmi televisivi di Raitre hanno contribuito a risvegliare l”attenzione dell”opinione pubblica, forse troppo sopita, sull”esigenza di trovare i mandanti delle stragi e consegnarli alla giustizia. E non solo perché ciò aiuterebbe la vita democratica, ma soprattutto perché si tratta di un dovere dello Stato nei confronti dei parenti delle vittime. Fino alla puntata finale di Vieni via con me, grazie alla quale l”elenco dei ricordi di Benedetta Tobagi ha finalmente raggiunto in un colpo solo milioni di persone.
L”effetto è duplice. Da una parte, di fronte a figure come quella di Tobagi, la retorica di Caino e Abele non regge più. Dall”altra, è possibile sfruttare la carica emotiva che deriva dalla personalizzazione del fenomeno per privarlo della sua storicità e intercettare intorno ad esso il consenso generale. Verrebbe da concludere che mentre la tv commerciale (e quella parte di tv pubblica che è impegnata a inseguirne l”audience) continua a svolgere la propria funzione di educazione del “popolino” propinando il voyeurismo (in versione sentimentale nei reality show e noir nella cronaca), la tv pubblica più impegnata serve da lente di ingrandimento per individuare i temi su cui costruire il consenso. Però, mentre la Sinistra continua a lasciare alla società civile (associazioni, movimenti, attori, scrittori, comici) l”onere di portare avanti da sé le proprie battaglie (utilizzando a tal fine tanto la piazza, quanto la televisione), la Destra continua a intercettarne le istanze per farle proprie al momento opportuno.[2]
Sennonché le dichiarazioni del Presidente del Senato suggeriscono alcune domande elementari. Come si concilia questo slancio verso la trasparenza come pilastro della democrazia, con un linguaggio politico che, quotidianamente, mira a screditare il potere giudiziario e il giornalismo italiani. E poi, se questa maggioranza ha la verità e la trasparenza tra i propri valori fondamentali, perché non pretendere che la persona che è alla guida del governo si presenti in tribunale a rispondere alle accuse che da anni gli vengono rivolte dalla magistratura? È solo un”argomentazione di sinistra o, piuttosto, non è anche questo un aspetto fondamentale della vita democratica del nostro paese? Lo dimostra il fatto che anche una parte della destra e del centro hanno cominciato a costruirci intorno il proprio consenso. E non ci stupirebbe se, una volta intercettata tale istanza come dominante, anche Berlusconi trovasse il modo di sfruttarla a proprio vantaggio. Ma forse, a pensarci bene, il modo lo ha già trovato costruendo negli anni un unico, semplice concetto da opporvi: “antiberlusconismo”.
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Al di là delle considerazioni di tipo politico, ciò che se ne ricava è che tanto nell”ambito di una breve intervista, come quella fatta al giudice Ayala, quanto a livello di dialettica politica tout court, il peso del linguaggio e della comunicazione diventa sempre più evidente. Non è un caso che nel paese che ha fatto della democrazia la propria bandiera e nel quale il bipolarismo è un dato di fatto, gli uffici stampa rappresentino l”anima della competizione politica, i veri custodi dei valori di ciascun partito. E non è un caso che negli Stati Uniti, tali valori siano da sempre perfettamente chiari tanto ai candidati, quanto agli elettori. In Italia, invece, ci accontentiamo che ci vengano letti sotto forma di elenco in televisione. Ma il potere, la forza attrattiva, la credibilità di questi valori, l”elemento di differenza che dovrebbe condurre a identificarsi con l”uno o con l”altro elenco sono forse perduti per sempre. Dissolti nella retorica del qui e ora. E poco importa ormai se a parlare sia Caino o Abele.
[1] Serena Ferrara, Il giornalismo nell”era digitale. Integrazione dei supporti e approfondimento collaborativo, Pol.is – Nuova serie – anno 2 – n. 3 – luglio/agosto 2009 (rivista di cultura politica registrata presso il tribunale di Milano col n. 94/2007).
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[2] Serena Ferrara, Marco Biagi era di sinistra. Riflessioni sul precariato e sulla crisi di una certa politica, 28 Settembre 2010, Megachip.info.
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