‘di Anna Lami
L’ha detto e ribadito in ogni occasione utile Angela Merkel, a partire da un’intervista concessa al Financial Times nel 2013:
L’Europa rappresenta poco più del 7% della popolazione mondiale, genera il 25% del PIL globale ma finanzia il 50% delle spese sociali.
Grafici alla mano, le classi dominanti europee non possono più permettersi un welfare tanto significativo, se vogliono continuare a competere con il resto del mondo. Dietro la politica di austerità europea c”è, infatti, la proiezione dell”imperialismo UE nella competizione mondiale.
La riforma del lavoro che il governo Renzi si appresta a varare può essere compresa solo in quest’ottica.
Pur nelle note differenze di vedute tra BCE e la Germania su molte questioni di primo piano, non c’è dubbio che la necessità di ridimensionare i salari ed i diritti dei lavoratori europei rappresenti un punto di convergenza comune.
Ovviamente la competizione globale non si gioca solo sul fronte dei salari, ma un rapido riassetto delle politiche salariali per il capitale europeo è imprescindibile. Se pensiamo che la Cina ha iniziato a delocalizzare in alcuni paesi africani dove la manodopera è ancor meno costosa, ci rendiamo conto di quanto sia importante ridimensionare nettamente diritti, welfare e salari affinché il polo imperialista europeo non perda ulteriori posizioni di mercato.
Mario Draghi, lo scorso 22 agosto, a Jackson Hole, in occasione del simposio che annualmente riunisce i banchieri centrali di tutto il mondo, l’ha ribadito:
agire sul fronte della competitività salariale è condizione necessaria ma non sufficiente affinché l’eurozona stia al passo con il ritmo dei paesi emergenti, il nostro vantaggio comparato deve venire dalla combinazione della competitività dei costi con la specializzazione in attività ad alto valore aggiunto – un modello di business che paesi come la Germania hanno dimostrato essere di successo.
Pur tuttavia, le politiche che occorre adottare nell’eurozona per ridimensionare gli elevati livelli di disoccupazione comprendono innanzi tutto la facilitazione della contrattazione aziendale, per fare in modo che i salari riflettano meglio le condizioni del mercato del lavoro e l”andamento della produttività con la possibilità di una maggiore differenziazione salariale tra i lavoratori e tra i settori; in secondo luogo interventi che riducano le rigidità nella regolazione dell”occupazione.
Il presidente della BCE ha esplicitamente citato l”Italia come esempio di paese che paga in termini di bassa crescita e di disoccupazione la mancanza di riforme strutturali sul lavoro.
Quale strada dovesse prendere il Jobs Act era, insomma, chiaro anche prima delle polemiche di questi giorni sull’articolo 18.
Non è un caso che solo nove giorni prima del summit di Jackson Hole il premier italiano si sia recato con un elicottero della Presidenza del Consiglio nella residenza di Mario Draghi a Città della Pieve. Che l’argomento trattato nelle due ore e mezza di “colloquio informale†fosse “la necessità di una flessibilizzazione ed innovazione del mercato del lavoro nazionale†lo ha rivelato il Sole24Ore in un articolo del 18 settembre scorso a firma di Davide Colombo.
L’articolista del quotidiano confindustriale sottolineava, inoltre, che “l’atteso passo in avanti del governo sulla regulation dei contratti e la flessibilità in uscita†è pienamente “in linea con la posizione di Mario Draghiâ€.
La risposta di Renzi alle richieste del presidente della BCE è stata dunque perentoria: “obbedisco!â€. Ed ecco che è partita l’offensiva governativa per distruggere quel che resta dei diritti dei lavoratori.
Ovviamente, in questo contesto, non potevano mancare i moniti di Napolitano, il garante italiano delle élite europee che, pochi giorni fa, durante la cerimonia per l’inaugurazione dell’anno scolastico, ha spronato il governo a “concretizzare gli impegni presiâ€, e con toni polemici inconsueti per un Presidente della Repubblica (ma ormai abituali per il Nostro), ha dichiarato che è inutile “sbraitare contro la UEâ€, definendo “conservatori e corporativi†gli oppositori dell’abolizione dell’articolo 18. “Sul lavoro serve coraggio†ha concluso l’inquilino del Quirinale, in un discorso che ha legato direttamente riforma del lavoro e importanza del rafforzamento dell’Unione Europea.
Insomma, all’interno del progetto delle classi dominanti europee di costituirsi in polo imperialista denominato Unione Europea non c’è spazio per i diritti dei lavoratori. Sarebbe bene che le forze che si battono per fermare il Jobs Act e salvare l’articolo 18 ne fossero pienamente consapevoli.
(25 settembre 2014) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]‘