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Parigi e il seme

Democrazia e territorio: se il “centro” muore i margini fioriscono. [Abughida]

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15 Gennaio 2015 - 10.36


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di Abughida

Il 7 gennaio mi trovavo in una località di montagna, senza TV, Internet e telefono. Al mio ritorno mi sono trovato immerso, come tutti, nel dramma delle stragi di Parigi, di cui mi era arrivata solo l”eco. Scrivo queste righe controvoglia, avendo fatto in pochi giorni il pieno di orrore, ma soprattutto di bugie e melensaggini propinate dai nostri media e non so se sentirmi più disgustato o spaventato. Dunque scrivo. In realtà questa mia reazione nasce da un [url”articolo”]http://gloriaoriggi.blogspot.it/2015/01/charlie-hebdo-e-vivo.html[/url] di una persona solitamente intelligente e acuta, una studiosa italiana che vive a Parigi e che scrive per “Il Sole 24 Ore”.

Ho così scritto una replica sul suo blog – anonima come questo articolo – perché vi dico la verità: dopo aver osservato il comportamento della politica e dei media comincio seriamente ad aver paura di dire che cosa penso. E non lo farò nemmeno qui. Vi propongo però un breve ragionamento su Charlie Hebdo e a mo’ di contrappasso una riflessione apparentemente scollegata sui progetti di agricoltura indigena, difesa della diversità bioculturale, ecc. Tesi e antitesi? Malattia e cura? Non saprei.

Scelgo un contrasto perché il chiasso e le lacrime di coccodrillo che accompagnano ogni evento tragico in occidente come in oriente non fanno che sottolineare, a mio parere, la distanza fra il vecchio e il nuovo, fra chi sperimenta e chi si oppone al cambiamento, fra chi visibilmente uccide i diritti (oltre che le persone) e chi invisibilmente crea una nuova base per le relazioni fra uomini e fra l”uomo e la natura. Proprio perché siamo sopraffatti dalla paura, abbiamo bisogno di esperienze coraggiose. Ma riflettiamo anche sulle cifre e sulle misure, per favore, non per disprezzare il lutto, ma per capire la direzione (se non la dimensione) del problema.

Onestamente da un’epistemologa come Gloria Origgi mi aspettavo una riflessione un po” più profonda e articolata, che andasse al di là degli ovvi sdegno, dolore e solidarietà. Wolinski, Tignous ecc. erano artisti geniali e non si può che piangere per la scomparsa anche solo di uno di loro. Ma questo non vuol dire che la loro (nostra?) idea di democrazia fosse attuale, come l’articolo sembra far credere.

Oggi la democrazia non si può fondare sulla laicità e nemmeno sulla libertà di espressione. La democrazia di chi, la libertà di espressione di quali settori della popolazione, attraverso quali mezzi, scuole, università e giornali? Anche l’impianto della gloriosa satira novecentesca, libertaria e anticlericale, sembra ormai il riflesso di un privilegio di pochi e per pochi. Charlie Hebdo vendeva 70.000 copie. Quanti sono i magrebini a Parigi? Il milione e più di francesi in piazza sono il simbolo di un fallimento e di un allarme rosso, non di una ritrovata convivenza.

La “democrazia” ha perso perché nella banlieue gli immigrati non sono interessati alla libertà di espressione (certamente non un fattore neutro, slegato dalle condizioni sociali, culturali, ecc.), ma al loro futuro. E di una satira raffinata non sanno che farsene. Questo disinteresse, lo sappiamo bene, non è una caratteristica degli immigrati, ma di gran parte dei giovani e dei meno giovani. Il mondo è profondamente cambiato, questo ci dice il massacro di Parigi. Difendere la libertà di opinione è il minimo (anche se non tutte le opinioni sono uguali), ma dopo Guantánamo, dopo Abu Grhaib, chi difende chi, che cosa, come? La legittimità delle nostre democrazie è svanita. Noi viviamo in un occidente che ha calpestato ogni diritto, ogni giustizia, ogni speranza. Il sorriso durbans e il pollice alzato della soldatessa americana accanto al cadavere carbonizzato di un iracheno è stato uno dei simboli che, almeno nella mia memoria, hanno scavato il baratro di incomprensione e svelato ogni illusione.

La satira ha svolto nel Novecento un ruolo fondamentale: denunciare e smascherare il potere. Charlie Hebdo, come molti altri giornali di satira (che in Italia hanno chiuso per mancanza di lettori), aveva da anni perduto questo ruolo, perché il potere non è più nella politica e nei palazzi e nemmeno nell’industria. Il potere è altrove e la satira faceva e fa fatica a identificarlo, perché i suoi strumenti hanno bisogno di bersagli facilmente raggiungibili. Ricordiamo e onoriamo i geniali disegnatori e artisti che hanno fatto sorridere o arrabbiare generazioni di studenti, intellettuali e politici, ma al tempo del datagate e davvero ingenuo pensare di essere in grado di difendere i “valori” della democrazia attraverso un giornale, per quanto intelligente, libero… ma in fondo innocuo.

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Mi pare che oggi sia sempre più chiaro che la democrazia possa essere praticata (oltre che “difesa”, argomento usato più spesso per smantellare che per difendere i diritti) solo a partire dal territorio. La diversità bioculturale è legata ai territori e al consolidarsi delle esperienze “marginali”. Dove margine qui sta per libertà di sperimentazione, a rischio della invisibilità (che è però anche protezione e salvaguardia).

Ciò di cui abbiamo bisogno è un rovesciamento della nostra visione del rapporto centro-periferia, dando al margine, e soprattutto alla variabilità dei soggetti e delle pratiche (oltre che delle lingue e delle culture che li sostengono) un valore che si stenta a riconoscere: quello di motore dell’innovazione e del cambiamento. Gli studi e le ricerche sulla diversità bioculturale possono fornire un modello plausibile e applicabile delle “differenze”. Il cuore del problema. E dunque ciò di cui i media né oggi né domani parleranno.

Non è un caso che le aree di maggiore concentrazione della diversità bioculturale siano il bacino dell’Amazzonia, l’Africa centrale e l’arcipelago indonesiano: tutte terre ancora refrattarie alla globalizzazione e ai suoi effetti livellanti. Dunque chi più è indietro è più avanti? Il paradosso non è più tale, se il Pentagono [url”ridisegna la geografia globale”]http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Map_of_the_Pentagon%27s_War_on_Terrorism_strategy_2010.jpg[/url], definendo “functioning core” i mondi sotto controllo e “non-integrating Gap” tutto il resto, ovvero le aree citate sopra!

La robustezza e la variabilità degli esseri viventi e quella dei processi culturali sono strettamente interdipendenti e la difesa di entrambi passa anche per un radicale cambiamento dei modelli occidentali. Epistemologici, prima che politici. Cognitivi, prima che economici.

Esistono molte realtà e voci nel mondo (anche in Italia), ma qui voglio citare l’esempio dall’indigenous farming, ovvero quelle pratiche di preservazione della diversità biologica locale e coltivazione con metodi naturali, spesso accompagnate dall’uso condiviso delle risorse agricole. Cito due esempi, entrambi provenienti dall’Orissa, una delle regioni considerate “meno sviluppate” dell’India (!):

1) Il centro di ricerca e azienda agricola realizzati dal biologo Dab Debal ([url”http://cintdis.org”]http://cintdis.org[/url]), recentemente invitato in Italia per numerose conferenze;

2) il [url”progetto”]http://www.greengrants.org/our-grants/grantee-highlights/meet-natabar-sarangi-indian-seed-farmer[/url] di Natabar Sarangi.

Entrambi i progetti si concentrano sulla preservazione delle varietà autoctone di riso (principale fonte di sostentamento in India). Fino agli anni Cinquanta-Sessanta esistevano in India fra le 90.000 e le 110.000 varietà di riso. La varietà garantiva la resistenza ai diversi contesti climatici, dunque la possibilità di continuare a nutrirsi quando una varietà era attaccata dai parassiti, dalla mancanza d’acqua, dalla salinizzazione della terra, ecc. Oggi le varietà di riso sono ridotte a poche centinaia.

Natabar, un ex insegnante di scuola di 82 anni, con l’aiuto di un finanziamento di 3600 dollari (più o meno il costo di tre iPhone 6…) ne ha recuperate 350 e li ridistribuisce ai contadini locali per combattere la diffusione dei semi industriali, che hanno rese minori, distruggono la biodiversità e li rendono economicamente dipendenti. Fino alle estreme conseguenze: [url”secondo il National Crime Records Bureau indiano”]http://devinder-sharma.blogspot.it/2014/12/farmer-suicides-more-than-what-ib-can.html[/url] negli ultimi 17 anni vi sono stati fra i contadini circa 300.000 suicidi, di cui 11.722 solo nel 2013.

Molto noto è anche il caso del cotone, uno dei simboli della politica socialmente ed economicamente devastatrice della cosiddetta “OGM industry” (le multinazionali del seme geneticamente modificato). Su questo tema una regista italiana ha realizzato uno stupendo e scioccante documentario: [url”http://www.behindthelabel.it/”]http://www.behindthelabel.it/[/url].

In modo simile a Vandana Shiva, Debal afferma:

“biopiracy is simply stealing the intellectual property rights of indigenous people, and the genetic material which were developed and kept in custody by these… ”folk scientists”, I’d say.”

Se dopo la paura e la tristezza di questi giorni avete ancora voglia di sorridere e sperare, guardate alcuni di questi video, realizzati da The Source Project ([url”http://www.thesourcefilm.org”]http://www.thesourcefilm.org[/url]) e vi renderete conto che mentre il “centro” muore implodendo su stesso, i margini fioriscono.

(13 gennaio 2015) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]

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