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Dal tramonto all'alba: quale futuro per l'Occidente?

Dal tramonto all’alba: quale futuro per l’Occidente? Intervista a Stefania Consigliere. [Paolo Bartolini]

Dal tramonto all'alba: quale futuro per l'Occidente?
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4 Marzo 2015 - 10.46


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(a cura) di Paolo Bartolini

C’è il rischio, ben noto, di confondere l’antipatia per i vincitori con l’apologia dei perdenti. Ma se si riesce a evitare la nostalgia del «nulla è più come non è mai stato», nelle pieghe della storia si trova qualcosa di cruciale per noi e per il nostro tempo: l’esistenza di una molteplicità di mondi e di percorsi umani rende possibile tornare a pensare ad “alternative”. (Stefania Consigliere)

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L’indagine antropologica, quando ha il coraggio di abbandonare l’asimmetria che per molto tempo ha ridotto le popolazioni non occidentali a gruppi umani “primitivi” o in ritardo sulla via dello sviluppo, scopre la presenza di un’alterità nascosta fin dentro le radici dello stesso Occidente. In altre parole: le origini della nostra storia non sono affatto trasparenti e alla luce del sole; piuttosto ricordano il rizoma delle piante che si espande sotto la superficie visibile del mondo. Che scoperte ci riserva il rizoma dell’Occidente se accettiamo di mettere in discussione le raffigurazioni della nostra cultura dettate dal senso comune e dalla narrazione semplificatrice dei media?

A scavare sotto la storia dei vincitori emerge un panorama di molteplicità inaspettate, modi differenti di costruire mondi umani e di costituirsi come abitanti di quei mondi, che nel corso tempo sono stati incessantemente squalificati, “ridotti a”, eliminati – fin quasi a perderne la memoria. Questa operazione di scavo è analoga a quella che fa Marx nel primo libro del Capitale, quando ricostruisce la preistoria del capitalismo contro le favolette edificanti degli economisti classici: una volta decostruito l’immaginario dei vincitori, l’enigma dell’accumulazione primitiva si rivela come violenza dispiegata: contro ogni precedente modo della sussistenza e contro i saperi a essi connessi; contro il corpo maschile, trasformato in manodopera per fabbriche ed eserciti, e contro quello femminile, trasformato in manodopera ricreativa e riproduttiva; contro ogni “mondo nuovo” incontrato sulla strada verso il progresso.

La violenza della modernità è tanto materiale quanto simbolica. Non solo le alterità sono state eliminate, ma anche sistematicamente squalificate: demonizzate (come nella “streghizzazione” che investe tanto le levatrici tradizionali quanto gli indios delle Americhe), ridicolizzate (com’è accaduto, ad esempio, alle forme non scientifiche della conoscenza), oppure ridotte a meri antecedenti di ciò che noi siamo. Pensiamo, ad esempio, alla Grecia classica, periodo “radicale” su cui tendiamo a proiettare tutte le nostre sclerosi culturali (logicismo, razionalismo, individualismo ecc.), e che invece, oltre ad ammettere tutt’altre chiavi di lettura, era abbastanza multiplo da ricomprendere in sé, accanto all’Essere di Parmenide, anche Eleusi, Delfi, la mantica e le visioni sacre. Un’altra zona sorprendente è il cristianesimo delle origini, quel “Gesù prima di Cristo” che, più avanti, scomparirà dietro l’icona della dottrina cristiana. O ancora, si può pensare alle eresie medievali come modi radicalmente altri di costruire e inverare un pensiero teologico: non per nulla, la seconda crociata non fu condotta contro barbuti infedeli levantini, ma contro i cristianissimi albigesi che popolavano le terre d’Oc. E via dicendo.

C’è il rischio, ben noto, di confondere l’antipatia per i vincitori con l’apologia dei perdenti. Ma se si riesce a evitare la nostalgia del «nulla è più come non è mai stato», nelle pieghe della storia si trova qualcosa di cruciale per noi e per il nostro tempo: l’esistenza di una molteplicità di mondi e di percorsi umani rende possibile tornare a pensare ad alternative.

Lei ha scritto sul piacere e sul dolore registrando una diffusa mancanza di felicità nell’odierna società dei consumi. A cosa possiamo attribuire questo smarrimento, questa carenza di gioia in un’epoca paradossalmente centrata sul godimento come precondizione per la circolazione delle merci?

Appunto perché il godimento ha poco a che fare con la felicità e molto con la coazione. Sta qui il grande trucco dell’immaginario contemporaneo: prima ci fa credere che l’individuo sia l’alfa e l’omega di tutto ciò che esiste; poi ci dice che lo scopo ultimo di ciascuno è la massimizzazione della felicità individuale; e infine, come un imbonitore da luna park, ci induce a rinunciare a qualsiasi inter-esse (etimologicamente, ciò che sta tra: tra me e il mondo, tra me e gli altri, tra me e quel che non c’è ancora) in cambio dell’accesso illimitato alla scarica fisiologica del godimento, al sempre-uguale del consumo – poco importa che si tratti di oggetti, di merci immateriali, di stili di vita o della relazione con altri umani.

E in effetti se ci viviamo come individui monadici, autodeterminati, egoisti, non soggetti a metamorfosi e che entrano col mondo in relazioni solo esteriori, finiamo col comporre un panorama antropologico noiosissimo, in cui davvero non resta altro che andare a caccia del godimento, di un palliativo qualunque sia. Ma esistono sul pianeta, e sono esistiti, ben altri modi di essere soggetto e di essere attraversati, e trasformati, dalle relazioni con ciò che ci circonda.

C’è un rapporto sottile, delicato, fra la “forma” che dobbiamo assumere per abitare il mondo storico che ci è toccato in sorte e ciò che la antecede: la potenza, l’apeiron di Anassimandro, il preindividuale di Simondon. Qualsiasi divenire individuale prevede il contatto, intrinsecamente pericoloso, con questa dimensione indeterminata e quasi tutte le culture umane dispongono di piste rodate che mantengono fluido il rapporto fra forma e potenza, fra individuale e collettivo, fra ciò che già è e ciò che si vuole far essere. Dispositivi estatici, potremmo chiamarli: le danze, la trance, l’incontro con sostanze, il contatto coi non-umani, ma anche la musica, l’erotismo come trascendimento della soggettività o il carnevale come sospensione dell’ordine – fenomeni che prevedono andate e ritorni ritualmente regolati, di cui il godimento coatto nel consumo non è che la parodia spettrale. Quando una cultura perde la capacità collettiva di rendere disponibili, e praticabili, questi passaggi, s’instaura una sorta di schizofrenia: da un lato, priva del contatto col preindividuale la forma dei soggetti sclerotizza, si fa orizzonte invalicabile e, pertanto, ansiogeno e soffocante (è quanto si vede, ad esempio, nella diffusione di forme nuove di disagio psichico); dall’altro, ogni apertura della forma tenderà a manifestarsi come traumatica, e sarà perciò quasi impossibile integrare l’esperienza extra-ordinaria nella quotidianità (è quanto si vede, fra l’altro, nelle dipendenze).

Per contro, in un contesto in cui la relazione è costitutiva dei soggetti, felice sarà il passaggio riuscito, quello che apre, o riapre, il divenire soggettivo. Basta guardare i bambini: non sono mai così seriamente felici come quando accedono a qualcosa che non avevano ancora mai fatto. L’esperienza è proprio questo: un sapere incarnato, vivo, che richiede la capacità di uscire da una forma già data (e dai suoi ripetitivi godimenti) verso nuovi piaceri, e più alti. È significativo, allora, che un carattere saliente dell’epoca che viviamo sia proprio la scomparsa dell’esperienza e, con essa, la riduzione della politica da “arte di rendere possibile l’impossibile” a parodia “governamentale”.

La globalizzazione economica, con tutte le sue enormi contraddizioni, ha ormai messo in contatto culture e popolazioni estremamente diverse tra loro, costringendo l’Occidente a riconoscersi “etnia” proprio come le altre (sebbene in molti si dimostrino recalcitranti rispetto a questa consapevolezza emergente). Sul piano filosofico crede che l’idea occidentale di Verità possa attraversare indenne la relativizzazione imposta da questo nuovo stato di cose?

La risposta andrebbe argomentata su diversi livelli. Partiamo da qui: se ammettiamo che gli umani, nella loro traiettoria sul pianeta, abbiano costruito una varietà di mondi ontologicamente, eticamente ed epistemologicamente diversi; e se siamo disposti a dismettere la presunzione di superiorità del nostro mondo (e quindi anche del nostro modo di viverlo e di conoscerlo), allora la Verità con la maiuscola, intesa come descrizione di uno stato di cose assoluto, unico, universale, valido per tutti e in tutti i tempi, è senz’altre destinata a scomparire. Ma con la sua dipartita si aprono, per la verità con la minuscola, possibilità inaspettate.

Il grande fatto che emerge dalla crisi dell’Occidente è che la separazione dei fatti e dei valori, su cui la modernità si è costruita, non tiene più: non c’è un solo mondo vero (che la scienza, unica fra tutte le forme umane di conoscenza, coglierebbe nella sua oggettività), ma ci sono più mondi, esito di differenti traiettorie storiche e basati su presupposti diversissimi. Allo stesso modo, non c’è una sola verità (la nostra) da difendere contro un’infinità di opinioni più o meno erronee, ma ci sono molte verità, tutte altrettanto valide nell’ambito della loro vigenza. Ontologia, verità ed etica formano un nesso inseparabile: la verità sarà allora, entro ciascun mondo umano, l’insieme delle nozioni che permettono di abitarlo in modo affidabile, o di migliorarlo.

È qualcosa che Feyerabend aveva già intravisto. L’epistemologo più tradito della storia non ha mai detto che “tutto è scienza, tutto funziona” (anything goes) – una stupidaggine degna solo dei suoi traditori; ma che “è scienza qualsiasi cosa che funzioni” (anything that goes). La costruzione relativa permette di non cadere nelle sciocchezze di un certo relativismo, quello che guarda alla molteplicità dei mondi come a qualcosa di cui godere, senza impegno, al riparo della nostra fortezza. Se è scienza qualsiasi cosa che funzioni, allora bisogna capire, volta per volta, a quale mondo quella verità appartiene; quali sono le condizioni che la rendono operante in quel mondo; cosa permette di fare nel contesto in cui è stata proposta; che cosa presuppone e che cosa implica. Senza immaginare che tutti i mondi si basino sugli stessi presupposti, che abbiano le medesime aspirazioni o che costruiscano i propri enti, e la loro conoscenza, nella stessa maniera in cui li costruiamo noi.

Il quadro che si profila è vagamente psichedelico, ma anche profondamente etico. Nell’ambito epistemologico, in particolare, sarà interessante andare a vedere non solo quali verità sono state prodotte da altri collettivi umani, ma anche i modi della conoscenza che questi hanno sviluppato. C’è chi, come noi, pratica la razionalità deduttiva e chi chiede informazioni alle piante-maestro; chi cattura il territorio entro un reticolo cartesiano e chi con un canto; chi guarisce usando una molecola e chi tramite un rituale. La conoscenza logico-razionale, su cui si fondano tanto la nostra filosofia quanto le nostre scienze, è solo un modo di avvinarsi al mondo e di produrre verità; altri modi sono (e sono stati) praticati, che oggi finalmente cominciamo a cogliere nella loro enorme complessità. Quale democrazia fra questi mondi? Quali tracciati diplomatici, quali parlamenti comuni? L’alternativa è il dominio dell’uno sui molti – e ne abbiamo avuto abbastanza.

Chi ancora sogna una rivoluzione culturale e un superamento del capitalismo come sistema impersonale di dominio, cosa può imparare dai modi di vivere, di produrre e di curare dei cosiddetti Altri?

Lo stesso che s’impara dalla molteplicità del rizoma occidentale: la percezione acuta del nostro essere storici, determinati, specifici; e, insieme a questa, uno sguardo ironico e non rassegnato sulla contemporaneità. Con la differenza che, in questo caso, la molteplicità dei mondi non è ancora del tutto sparita sotto i colpi dei vincitori e, anzi, la partita è più che mai aperta. Qui vale la pena di aggiungere qualcosa di essenziale, e ancora poco articolabile: in questa “partita aperta” non si tratta affatto di parteggiare per la vittoria dell’uno o dell’altro combattente fra quelli in campo, quanto semmai di capire come non vogliamo più vincere e come non vogliamo più perdere. Uscire, quindi, dall’ideologia bellica che promette, e permette, al vincitore di riscrivere la storia con la violenza, e trattare condizioni di convivenza – di “pace non pacificata” – accettabili per tutti. Questo comporta l’abbandono dell’Uno, dell’Essere unico, del Bene supremo, della Verità assoluta (che, guarda caso, coincidono sempre coi nostri) e l’accettazione di una molteplicità intenzionata a restare tale. Vediamo un paio di esempi.

Nell’analizzare i movimenti che, nel tempo, si sono opposti al capitalismo, si è parlato di resistenze “alla Marx” (quelle che si sviluppano dove l’economia del plusvalore è già pienamente operante) e “alla Polanyi” (quelle che si danno nei luoghi dove la rivoluzione antropologica ed economica del capitalismo sta cercando di espandersi). Nel marxismo classico le resistenze “alla Polanyi” erano squalificate come sopravvivenze, residui di mondi destinati a essere comunque spazzati via. È significativo, allora, che proprio in questi anni alcuni eredi del marxismo abbiano cominciato un lungo dialogo – tutt’altro che semplice – coi rappresentanti dell’indigenismo e dei movimenti campesinos, allontanandosi da quella violenza dell’universale che ha caratterizzato l’intera modernità, incluso il marxismo, in direzione di alleanze che non prevedono più, neanche implicitamente, l’annessione a sé degli alleati.

Il secondo esempio viene dall’Africa subsahariana, dove gli stregoni – figure oscure, temibili e da evitare quanto più possibile – vengono caratterizzati come individui che badano solo al proprio vantaggio; che impiegano le loro conoscenze per mettere al lavoro gli altri, prelevando poi i frutti della loro fatica; che accumulano ricchezze a scapito della comunità; e che si muovono nel mondo solo in ottica competitiva. Descrizione icastica che dovrebbe metterci sul chi vive, perché individua anche, con esattezza chirurgica, uno dei criteri più elementari e scontati del nostro modo occidentale di stare al mondo: il meccanismo-base della creazione di plusvalore. Prendere gli altri sul serio significa accettare la parte di verità contenuta in confronti di questo tipo.

In uno scritto elaborato alla metà degli anni Novanta, Isabelle Stengers si è occupata della medicina occidentale e delle sue pretese di obiettività discutendo il rapporto, in bilico tra irriducibile opposizione e segreta complicità, che esiste nell’Occidente moderno tra medici e ciarlatani. Oggi che il mondo della cura si rivela ricco di proposte differenti, spesso anche in contraddizione tra loro, quali criteri può impiegare il cittadino per orientarsi tra i numerosi “esperti” che affrontano la salute e la malattia secondo principi di intervento decisamente plurali? Cosa può aiutarlo a non cadere nei tranelli di abili manipolatori senza per questo aderire passivamente all’ideologia di una scienza ufficiale che spesso sembra solo capace di lanciare anatemi contro i percorsi di cura e guarigione meno convenzionali?

I primi ad affrontare questo problema furono, negli ultimi decenni del secolo scorso, i medici e gli antropologi che, dopo averne constatato l’efficacia, cercarono di validare le competenze terapeutiche di popolazioni non occidentali. Era l’epoca in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità lavorava a un progetto assai ambizioso, chiamato “Salute per tutti nell’anno 2000”, che doveva realizzarsi grazie anche all’articolazione fra biomedicina e sistemi locali di cura.

Partirono dall’idea più ovvia, quella di sottoporre le terapie locali al medesimo processo di verifica scientifica delle terapie biomediche. Fu un fallimento, ma fertile. Mostrò che i criteri nostrani di validazione, lungi dall’essere universali, sono estremamente etnospecifici: funzionano nel quadro della cosmovisione meccanicista, che prevede la separazione di corpo e mente e interpreta la malattia come disfunzionamento interno al singolo individuo, ma sono inapplicabili in contesti dove, ad esempio, la malattia sia interpretata come crisi del gruppo intero, o come sintomo di un più grave e fondamentale disfunzionamento relazionale, o ancora come attacco spiritico. Insomma, fuori dai nostri confini non solo non è facile capire cosa funziona e cosa no, ma le stesse definizioni di “salute”, “malattia”, “cura” e “medicina” si fanno problematiche.

Era un bel dilemma: i nostri criteri non potevano essere impiegati proprio in quei contesti dove – avendo poca o nulla dimestichezza con le terapie e coi loro presupposti – più ne avremmo avuto bisogno. Alla fine, l’unica soluzione praticabile fu di chiedere agli esperti: a coloro che abitano il mondo in cui quelle terapie sono state sviluppate e ne conoscono quindi i presupposti impliciti. Solo i “nativi” erano in grado di valutare cosa funziona e cosa no, di discernere fra un terapeuta esperto e un cialtrone, così come fra un buono e un cattivo terapeuta – ovvero, fra chi usa le conoscenze a cui ha avuto accesso per il bene della comunità e chi le usa a proprio esclusivo vantaggio (lo “stregone”, appunto).

Lo stesso criterio può servire da bussola nel mare magnum delle cosiddette “terapie tradizionali, alternative e complementari”. Ammesso, ma non concesso, che da noi non ci siano stregoni, saranno affidabili quei terapeuti che abbiano fatto tutto il percorso tecnico e, per così dire, iniziatico previsto dalla tradizione cui appartengono, e che siano quindi riconosciuti ufficialmente dai loro maestri. Si tratta, in tutti i casi, di apprendistati lunghi ed estremamente rigorosi: se servono sei anni di università e quattro di specializzazione per formare un medico, altrettanti (e spesso anche molti di più) ne servono per formare un medico di Medicina Tradizionale Cinese, un medico Ayurvedico o uno sciamano Achuar. Senza dimenticare che queste tradizioni sapienti meritano lo stesso rispetto che attribuiamo alla nostra: non sono prodotti usa-e-getta, da consumare come caramelle, ma percorsi che prevedono, oltre alla serietà del terapeuta, anche quella del paziente.

(2 marzo 2015)

Nota bio-bibliografica. Stefania Consigliere (1969) è ricercatore in antropologia (s.s.d. BIO/08) presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, dove insegna [b]Antropologia dei sistemi di conoscenza[/b] e dove ha organizzato due edizioni del master di secondo livello in Etnomedicina ed etnopsichiatria. Le sue principali linee di ricerca scientifica s’incentrano sulla questione della “natura umana” e i processi di antropopoiesi, ovvero i modi in cui gli esseri umani sono prodotti dalle – e a loro volta producono le – culture cui appartengono; e sulle questioni epistemologiche, ontologiche ed etiche che si aprono quando il precetto di “prender gli altri sul serio” viene, a sua volta, preso sul serio. È autrice di oltre 150 pubblicazioni, fra cui Sul piacere e sul dolore. Sintomi della mancanza di felicità (DeriveApprodi, 2004), Il disagio dell’inciviltà (Colibrì 2008; con P. Coppo e S. Paravagna), Antropo-logiche. Mondi e modi dell’umano (Colibrì 2014) e i primi due volumi della serie Mondi multipli (Kainos 2014). Altre informazioni bio-bibliografiche sono disponibili sul sito [url”www.stefaniaconsigliere.it”]www.stefaniaconsigliere.it[/url].

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