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Chi tocca Ustica muore... o vive storie ai confini della realtà

Svelai in un articolo di come le forze armate avessero fatto sparire prove decisive sulla strage di Ustica. Da allora entrai in un film di James Bond. [F.Fracassi]

Chi tocca Ustica muore... o vive storie ai confini della realtà
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28 Giugno 2015 - 20.00


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di Franco Fracassi.


Chi tocca Ustica muore. Per anni è stato così. Prima ottantuno persone precipitate a bordo dell’aereo Itavia, poi dodici testimoni morti con modalità stravaganti tra il 1981 e il 1992. A metà degli anni Novanta la situazione non era migliorata. Per un giornalista scrivere un articolo sulla strage o sui depistaggi dava molta visibilità, ma esponeva al tempo stesso a grossi rischi personali, perfino tra le mura della propria casa. Fu il mio caso. Anzi, il mio caso fu doppio. Per me è risultato pericoloso anche salire su un motorino.

In seguito alla dritta di un ufficiale dei servizi segreti militari, iniziai una minuziosa indagine su una galassia di società che apparentemente non avevano nulla a che vedere con il disastro aereo. Si trattava di un’indagine poco appariscente, più da topo di biblioteca che da investigatore. Bisognava leggere centinaia di resoconti di riunioni di consigli d’amministrazione, di annotarsi i capitali sociali e la lista dei membri dei vari cda. Poi si dovevano incrociare tutti i dati e, infine, tirare conclusioni logiche da questa galassia di numeri, nomi e fatti. Una routine noiosa che si illuminava quando un nome ricorreva troppe volte o quando si scopriva un piccolo evento anomalo. Un po’ come la prima guerra mondiale, quando le battaglie erano tutte ripetitive e la conquista di una sola trincea nemica determinava il successo dello scontro.

La mia trincea si chiamava Mediterranean Survey and Services (Mss), un’azienda che faceva prospezioni marine. Un’azienda che risultò essere società di comodo dei servizi segreti nonché braccio operativo dei vertici delle forze armate e dei servizi segreti, tutti rigorosamente iscritti alla segreta ed illegale loggia massonica Propaganda Due, meglio conosciuta come Loggia P2.

I resti del Dc9 Itavia nel museo di Ustica a Bologna. Come si può vedere solo una parte dell’aereo è stato recuperato in fondo al mare. Tante, troppe parti del velivolo sono state trafugate prima del recupero ufficiale.

Ma la notizia più clamorosa, che legava la Mss alla strage era un’altra. Scrissi in una articolo del luglio 1993: «Pochi giorni dopo la strage, il 17 luglio, venne fondata la Mss (l’atto notarile riporta la data 24 giugno 1980, come a voler dimostrare che la società esisteva già prima della tragedia di Ustica). Nel bilancio del 1980 si legge: “La Vostra società (ci si rivolge agli azionisti) ha acquisito un’importante e particolarmente interessante e prestigiosa commessa da parte della Sanim spa (gruppo Eni), per la ricerca di sedimenti minerari sui fondali vulcanici dei monti Palinuro e Lametini, nel Tirreno meridionale. Le operazioni in mare si sono sviluppate tra giugno e i primi di settembre, impegnando al massimo la Vostra società, che ha operato in veste di general contractor, avvalendosi dei migliori operatori nazionali, francesi e del Regno Unito”. E nel bilancio dell’anno successivo: “La terza campagna (di ricerca), per quanto funestata da incidenti meccanici, ha ugualmente sortito risultati particolarmente interessanti, malgrado si sia operato anche a profondità superiori ai tremila metri”. Dunque, la Mss faceva ricerche sui fondali proprio dove si era inabissato il Dc9».

Una notizia del genere comportava una serie di conclusioni: nel 1980 la tecnologia permetteva di scandagliare fondali profondi tremila metri (le nostre autorità spergiurarono per anni che non fosse possibile), che la tecnologia in questione era in possesso di un’azienda italiana (il sottomarino che recuperò i resti dell’aereo era francese), che qualcuno inviò un sottomarino a recuperare qualcosa nell’unica fossa di tremila metri del mar Tirreno (dove era affondato anche l’Itavia), che era forse per questo motivo che circa la metà dei resti dell’aereo non sono mai stati ritrovati (causando gravi danni alle indagini), che quel qualcuno che aveva ordinato e operato il furto era ai vertici delle forze armate e al tempo stesso appartenente a un’organizzazione eversiva come la P2.

Non era tutto. A quella società era legato un banchiere che era stato il principale riciclatore di denaro emerso dallo scandalo di Tangentopoli. Un personaggio legato alla politica, come all’imprenditoria e ai servizi segreti.

La pubblicazione dell’articolo sul settimanale “Avvenimenti”, per il quale lavoravo, comportò un gran trambusto mediatico, e anche qualcos’altro.

Il numero contenente l’articolo era in edicola da due giorni. In quel periodo tornavo a casa anche dopo mezzanotte. L’inchiesta su Ustica era impegnativa e succhiava più energie del dovuto. Quattro chilometri separavano la redazione da casa. In motorino a quell’ora ci mettevo sette-otto minuti.

Quella sera ero molto stanco, quindi non mi accorsi dell’auto che sul lungotevere sopraggiungeva dietro di me a tutta velocità. Il rumore dell’impatto del suo paraurti contro il cestello posteriore del motorino mi fece trasalire. Quell’auto stava cercando di speronarmi. Ma per fortuna non caddi.

Quando si avverte un pericolo serio il corpo può reagire in due modi: paralizzarsi oppure caricarsi come una molla e reagire e prendere decisioni infinitamente più rapide del solito. Per mia fortuna a me accadde la seconda opzione.

Accelerai. Ma l’auto non mollava. Ero certo che un secondo impatto mi avrebbe sbalzato via dal sellino. Non dovevo farmi colpire di nuovo. L’inseguimento durò una settantina di secondi e più di un chilometro. Si concluse perché intravidi sulla destra una stradina che era in parte chiusa da basse e tozze colonnine di pietra, abbastanza distanti tra loro per permettere al motorino di passare, abbastanza stretti da impedire all’auto di fare lo stesso. Quelle piccole e tozze colonnine mi avevano salvato la vita.

28 agosto 1988. Due aerei delle frecce tricolore si scontrano in volo durante un’esibizione a Ramstein, in Germania. Alla guida dei due F104 i colonnelli Mario Naldini e Ivo Nutarelli. Entrambi avrebbero dovuto testimoniare due giorni dopo davanti al giudice istruttore Rosario Priore. Lo scontro provocò la morte di 67 spettatori e il ferimento di altri 347.

I giorni e le settimane successive passarono con grande vigilanza da parte mia e con nessun fatto di rilevante pericolosità da segnalare. Poi accadde una cosa strana, assurda, surreale.

La notte in questione avevo dormito a casa da solo. Mia moglie stava lavorando fuori città. Mi svegliai la mattina molto presto, quasi di soprassalto. L’alba era appena sorta e tutto intorno a me era calmo e silenzioso.

Il letto si trovava su un soppalco. Aprendo gli occhi notai un vaso quadrato di media dimensione, che di solito si trovava al piano di sotto, appoggiato proprio accanto al letto. «L’avrò portato su ieri sera per qualche ragione e poi me ne sarò scordato», pensai.

Scesi le scale. Sul tavolino da pranzo c’era uno yogurt consumato con dentro ancora il cucchiaino. Anche di quello yogurt non mi ricordavo nulla rispetto alla sera precedente. Ma quando arrivai nello stanzone d’ingresso mi resi conto che le stranezze maggiori sarebbero ancora dovute arrivare.

Le ante del grande armadio a muro in fondo alla stanza erano aperte, e poggiati perfettamente al centro delle aperture c’erano diversi vasi, sempre quadrati, tutti ordinatamente poggiati, come a formare una composizione geometrica. Infine, le tre serrature interne della porta blindata: in ciascuna toppa c’era infilata una mia chiave di casa, una sotto l’altra, tre chiavi copia perfetta del mio mazzo di chiavi (che qualcuno si era preso la briga di fare).

Mentre ero seduto sul divano pensando all’assurdità di quanto mi era accaduto quella notte, senza che mi accorgessi di nulla, peraltro, squillò il telefono di casa. Erano le sei meno un quarto di mattina. «Pronto?». «Lei è Franco Fracassi?». «Sì». «Dentro la mia officina ho trovato una borsa con dentro il biglietto da visita di sua moglie. Se la venga a prendere».

Sempre più assurdo. Chi è che va apre un’officina di carrozziere alle sei meno un quarto di mattina? Come aveva fatto a finire quella notte stessa una borsa di mia moglie dentro quella carrozzeria? Come faceva il carrozziere a sapere che quella era mia moglie, visto che i nostri cognomi erano diversi?

Mi precipitai all’officina, dietro alla sede della Banca d’Italia di via Nazionale.

L’uomo era sulla cinquantina. In maniera rude mi mise in mano la borsa. Si rifiutò di rispondere alle mie domande («non ho tempo da perdere, la borsa l’ha riavuta, no?»). In più dentro l’officina c’erano due tizi appoggiati in silenzio a una colonna, entrambi vestiti come se fossero Men in Black.

Tornato sempre più confuso a casa, controllai se per caso mi fosse stato rubato qualcosa. I soldi all’ingresso c’erano tutti, così come tante altre cose di valore. Iniziai ad aprire i cassetti. Fu allora che scoprii che all’appello mancavano il portatile, decine di dischetti del computer, le macchine fotografiche e i registratori. Tutto il mio materiale di lavoro. Tutto trafugato senza mettere in disordine, sapendo esattamente dove cercare.

Quella mattina capii due cose: che con il mio articolo avevo centrato nel segno, che da quel momento ogni mia mossa era monitorata da Chissachì. Per questo non mi sorpresi per nulla quando poco tempo dopo il mio telefono di casa iniziò a funzionare solo dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 18 e il sabato dalle 8 alle 14 e iniziarono ad arrivare decine di chiamate al giorno di persone che credevano di telefonare alla Fao o all’Enel.



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