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L'homo ludens ieri e oggi

Dal 1976 ai primi lustri del terzo millennio si è esaurita la spinta propulsiva della società dei consumi, del tempo libero e dell’homo ludens? Nient’affatto. [P. Paolinelli]

L'homo ludens ieri e oggi
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25 Luglio 2015 - 10.15


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di Patrizio Paolinelli.


Alcuni economisti hanno definito “Trenta gloriosi” gli anni della crescita economica che vanno dal 1945 al 1975. Durante quegli anni diversi analisti sociali ipotizzavano la nascita di una civiltà dei loisirs in cui il lavoro avrebbe occupato una quota sempre meno significativa dell’esistenza umana. Per onestà intellettuale va detto che gli studiosi più attenti, come ad esempio Joffre Dumazedier, erano cauti nel tratteggiare scenari troppo ottimistici, pur osservando sotto i loro occhi il tumultuoso sviluppo di una società dei consumi dove la proliferazione di beni di comfort e di svago sembrava inarrestabile e soprattutto strettamente correlata all’aumento costante del tempo libero. Per di più la vulgata giornalistica faceva sognare al grande pubblico un futuro in cui il mondo sarebbe diventato prima o poi un immenso Club Méditerranée e buona parte delle riflessioni si soffermavano sulle caratteristiche di una figura sociale emergente: l’homo ludens. Queste letture della società e della soggettività consideravano solo parzialmente le dinamiche del capitalismo. Infatti Jean Baudrillard, già nel 1976, parlava del tempo libero come una forma di “lavoro complesso” e del lavoro in senso stretto (quello che produce un reddito) ipotizzava che è dappertutto proprio perché non c’è più. Sembra che lo studioso francese abbia avuto la vista lunga: dopo i “Trenta gloriosi” il mondo ha conosciuto un’ininterrotta serie di crisi economiche che durano ancora oggi con la grande recessione europea e il conseguente dramma occupazionale.

Da questa dinamica si dovrebbe dedurre che dal 1976 ai primi lustri del terzo millennio si è esaurita la spinta propulsiva della società dei consumi, del tempo libero e dell’homo ludens? Nient’affatto. Il capitalismo (oggi chiamato neoliberismo in modo che sembri una novità) ha piegato consumi, tempo libero e giochi ai propri fini politici. Certo, a parte l’élite al potere, pochi o nessuno sono oggi ottimisti rispetto al futuro così come lo si poteva essere negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso; ma, seppur senza aspettarci molto dal domani, continuiamo a consumare, divertirci e giocare più di prima. Cos’è cambiato allora? Il senso di queste attività. Cambiamento di senso presente in nuce ben prima dei “Trenta gloriosi”. Sin dal 1939, nel suo celebre libro, “Homo ludens”, Johan Huizinga, osservando lo sviluppo dello sport, annotava che il gioco viene preso sempre più sul serio: “Ebbene, con la sempre crescente sistemazione e col disciplinamento del gioco, va perduto alla lunga qualche cosa della pura attività ludica. Il che si vede nella distinzione tra professionisti e amatori. […] L’atteggiamento del giocatore per professione non è più un vero e proprio atteggiamento ludico, la spontaneità e l’idea di passatempo non valgono più per lui”. Che cosa già allora si stava perdendo? Il rapporto tra gioco e gratuità.

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Come notava Roger Caillos in un libro diventato un classico, “I giochi e gli uomini”, il gioco “non produce alcunché: né beni né opere. A ogni nuova partita, giocassero pure tutta la vita, i giocatori si ritrovano a zero e nelle stesse condizioni che all’inizio. I giochi a base di denaro, scommesse o lotterie, non fanno eccezione: non creano ricchezze, le spostano soltanto” L’homo ludens di oggi non conosce più questo tipo di gratuità e apprezza soprattutto quella che passa attraverso gli annunci commerciali. Ovviamente la cesura non investe il gioco come grandezza perché il gioco è un trascendente storico, ossia è una caratteristica della natura umana. E, giusto per fare un esempio, ieri come oggi gli amanti dei giochi di parole possono soddisfare il loro palato. Per restare nel presente l’autore televisivo e paroliere Davide Tortorella, relatore a un’edizione del “Festival della mente”, in un tascabile dedicato all’evento si cimenta proprio con la parola “Gioco”. In che maniera? Con un arguto gioco di parole in cui l’intelligenza del lettore è messa a dura prova (100 parole per la mente, a cura di G. Cogoli, Laterza, Roma-Bari, 2013).

Solo apparentemente i giochi di parole rappresentano una continuità tra passato e presente. Il mutamento investe la vita mentale, ossia il modo in cui l’attività ludica è collettivamente vissuta. Come ieri e più di ieri il gioco è un’occasione per la formazione di gruppi umani facilmente integrabili con riti collettivi. Basti pensare al turismo, alla moda e alla musica pop. Vacanze, passerelle e concerti hanno tra i loro ingredienti principali il gioco: di esibizione, di seduzione, di prestazione. Tuttavia, nonostante apparenti continuità il significato di gioco dell’homo ludens di oggi non è più quello del recente passato. Da sospensione del tempo ordinario il gioco è oggi sempre più integrato col tempo del mercato, ossia col tempo della produzione e del consumo. Il gioco diventa così un lavoro altamente qualificato – e talvolta retribuito in maniera strabiliante – per chi ne fa la propria professione. Miraggio che da parecchi anni ha dato il via alla corsa agli impieghi nello spettacolo e nella comunicazione. Corsa che, sia detto di sfuggita, abbandona a un destino precario la maggioranza dei suoi partecipanti. Il gioco diventa un lavoro anche per chi lo pratica senza volerne fare una professione. Si pensi solo alla proliferazione delle slot machine. Un lavoro persino penoso perché oltre a essere legato alla speranza – quasi sempre delusa – di fare un po’ di soldi per sbarcare il lunario, genera spesso una forte dipendenza psicologica con risvolti umani e sociali drammatici. In altre parole, lo Stato si traveste da biscazziere per introdurre di soppiatto nuove tasse nei confronti di chi è già in bolletta. Gioco d’astuzia che una democrazia degna di questo nome non dovrebbe permettere.

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Prima di rivelarsi una favola ben orchestrata con la pressoché totale complicità dei mass-media, la new-economy ha vagheggiato in qualche occasione il lavoro come gioco. Che si fa alla Silicon Valley? Si lavora e ci si diverte. O, viceversa, ci si diverte lavorando. Caduti i confini tra serio e faceto ecco comparire sulla scena i nomadi digitali che girano il mondo perennemente connessi on-line. Nomadi che svolgono attività piacevoli, ben pagate e in sintonia con la propria vocazione. Una favola appunto, tranne che per un’esigua minoranza che serve da specchietto per le allodole nei confronti della massa di schiavi digitali e per l’élite imprenditoriale, quella che con la perennità della crisi economica diventa sempre più ricca. Una favola – anzi, per usare un vocabolario adatto alla contemporaneità – una story che indica un altro elemento di discontinuità tra l’homo ludens di ieri e di oggi. L’homo ludens di oggi è quasi sempre in gioco. Ad esempio, i giochi di ruolo on-line non finiscono mai. E se un gioco non ha un tempo determinato è un’altra cosa. Al momento non abbiamo ancora una parola precisa per definirla, ma senza un limite temporale precedentemente concordato tra arbitri e giocatori quell’attività, per quanto ludica sia, non è un gioco. Cos’è allora? Un lavoro differito. D’altra parte, Baudrillard lo aveva ben sottolineato: il capitalismo trasforma ogni aspetto della vita umana in forza produttiva. In un’economia del genere l’homo ludens è utilizzato per formare gruppi (di consumo, di ascolto, di partecipazione), ma del gioco non conserva più le sue qualità essenziali: il disinteresse e il dono. In estrema sintesi: l’homo oeconomicus ha fagocitato l’homo ludens. Prevalenza che contribuisce a spiegare due fenomeni: il dilagare dell’affarismo nel mondo dello sport e le degenerazioni del tifo. Alcune conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’annichilimento di sport popolari come il ciclismo, la riduzione del calcio a mero business, l’uso politico-elettorale delle tifoserie.

Tra le funzioni del gioco c’è quella di portarci in altri mondi. Ma quando giochiamo continuamente, quando cioè siamo troppo spesso in altri mondi (in una poker room on-line o su Second Life e nel passaggio dall’una all’altro facciamo una partita a Candy Crush) che ne è del gioco? E soprattutto: dove ci troviamo? In una sorta di Matrix? Lasciamo quest’ultima domanda in sospeso e registriamo un altro effetto che separa l’homo ludens del passato e quello del presente: la progressiva perdita dei limiti spaziali del gioco. Certo, gli stadi esistono ancora. Ma tablet e smartphone ci calano in arene digitali che permettono di giocare pressoché dappertutto e di giocare con partecipanti sparsi in ogni angolo del mondo. Partecipanti che con tutta probabilità non incontreremo mai de visu e per quanto in contatto virtuale ognuno di noi è fisicamente solo. Il che presenta anche dei vantaggi. Se in treno ci vogliamo estraniare dal prossimo basta tirare fuori dalla tasca o dalla borsa un dispositivo portatile qualsiasi e il nostro gioco solitario è rispettato dagli altri passeggeri. Disturbare qualcuno chino sul proprio tablet mentre è impegnato ad accumulare punti in una lotta senza quartiere contro il cronometro di un videogioco è fuori dalle regole della buona educazione. Sempre in treno si può notare invece che il diritto alla solitudine di chi legge un libro raramente è rispettato. Ed è comprensibile: quel passeggero non sta giocando.

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“Per giocare veramente l’uomo, quando gioca, deve ritornare bambino”. Così affermava Huizinga mentre osservava che per i giocatori di professione scompare il senso di eternità di ogni disposizione ludica perché prevale la ragione utilitaria. Ma non c’è bisogno di diventare dei giocatori professionisti per notare che se la disposizione ludica non scompare proprio del tutto l’homo ludens di oggi non somiglia affatto all’eterno bambino di ieri. Eppure la nostra società produce adulti-bambini in grande quantità. E’ il loro modo di giocare che li distingue dall’homo ludens del passato. Per comprendere tale distinzione è possibile utilizzare una categoria introdotta da Huizinga: “puerilismo”. Una parola che coniuga “infantilismo e spirito monellesco”; e, precisa Huizinga, “dire infantilismo e dire gioco non è la stessa cosa”. Il puerilismo è una chiave di lettura adattabile al modo di divertirsi oggi dominante e che, per uscire dall’astratto, possiamo riassumere nelle figure del bad boy e della bad girl. Chi non sogna di imitarli almeno per un giorno? Meglio: per una notte? Che cosa caratterizza il loro modo di divertirsi? La perdita di due delle qualità principali del gioco: l’autocontrollo e il rispetto delle regole. Gran parte della cultura di massa spinge in questa direzione; spinge verso giochi senza regole i cui partecipanti recitano a fare questo o quel personaggio cine-televisivo e divertirsi equivale a stordirsi: con la disco music a tutto volume, l’abuso di alcol, l’utilizzo di droghe, il sesso occasionale. Insomma la vita esagerata con cui divi del piccolo/grande schermo e pop-star incitano giovani e meno giovani a mobilitarsi in cerca di avventure. Avventure che mutano di segno la componente di rischio insita in diversi giochi e che a un’analisi appena approfondita si rivelano programmate da un’industria culturale integrata con la produzione di beni e servizi. Avventure che il più delle volte consistono in notti trascorse in discoteca, vacanze trasgressive e nel maniacale culto del corpo.

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Avventure ormai parte della vita reale e pur con tutti i loro preoccupanti risvolti (incidenti stradali del sabato sera, gravidanze indesiderate, contrazione di debiti e così via) non sono annoverabili come gioco proprio perché non interrompono la quotidianità: i rischi che si corrono conducendo una regolare vita spericolata non hanno nulla che fare con la libertà del gioco – libertà che si esprime all’interno di regole precise – e altro non sono che una forma soft di controllo sociale. Si è andato così istituzionalizzando un modello di divertimento gridato e apparentemente emancipato. Movida e notti bianche – con i loro strascichi di inquinamento acustico e talvolta di violenza – sono tipi di feste in cui l’homo ludens agisce conformandosi a quel che ha appreso dai mass-media e si comporta come se fosse su un set. Anche questo è un gioco. Ma un gioco fittizio in cui non si realizza il mondo perfetto del gioco regolato con i suoi tempi definiti e uguaglianza tra giocatori. Soprattutto la movida deresponsabilizza i partecipanti nei confronti della società e divertirsi equivale a rinunciare al senso civico. Sleale verso gli altri e verso se stesso il puerile homo ludens di oggi si trasforma sempre più in homo demens.

Patrizio Paolinelli, via Po, inserto culturale del quotidiano Conquiste del Lavoro, 11 luglio 2015.

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