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Il cadavere della rivoluzione non va in onda. Istanbul. Passione, Gioia, Furore

Uno sguardo originale sull’urbanistica, o meglio ciò che l’ha sostituita, cioè un ipersviluppo edilizio baudrillardiano, famelico...

Il cadavere della rivoluzione non va in onda. Istanbul. Passione, Gioia, Furore
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11 Maggio 2016 - 21.27


ATF

di
Sara Bissen, Mauro Quagliati, Stefano Serafini
.

La mostra Istanbul.
Passione, Gioia, Furore
inaugurata lo scorso 11 dicembre 2015 al MAXXI di
Roma e da poco conclusa non ha purtroppo goduto dell’attenzione del pubblico e
dei media.  

Male, soprattutto in considerazione degli
avvenimenti che stanno scuotendo le fondamenta civili e culturali della Turchia,
con ripercussioni drammatiche non soltanto sulla sua regione d’influenza
mediorientale, ma sull’intera geometria del potere globale dal quale il Paese è
emerso come falda freatica dalla quale vomita ogni giorno maggiore e
sistematico anti-umanismo. Stragi, torture, repressioni, relazioni con l’ISIS e
atti di guerra della Turchia ci riguardano, perché i recenti accordi per
deportarvi i rifugiati che non vogliamo vedere fra noi, infrangendo l’ipocrisia
della narrativa ufficiale della UE, dimostrano che l’aperto neofascismo di Erdoğan
delinea l’ombra sinistra di ciò che la stessissima Europa è divenuta negli
ultimi anni.

Certamente la mostra pecca di banalità, che in
parte vorremmo attribuire all’occidentalismo pseudo-progressista (non più
perdonabile, nemmeno come adolescenziale) del gruppo di artisti istanbulioti in
essa rappresentati, e in parte alla fretta dei curatori (Hou Hanru, Ceren
Erdem, Elena Motisi e Donatella Saroli) che si son trovati a rincorrere eventi
più veloci di loro nel tentativo di offrire una prospettica serie di eventi
“mediorientali” che giustappongono realtà distanti come Turchia, Iran e  Libano. Eppure vien da pensare che nonostante
ciò l’importanza dell’evento sarebbe stata rimarcata solo qualche lustro fa da
un contesto culturale italiano meno sciatto e lontano dalla realtà. Tutto
quello che abbiamo avuto è stato invece il vuoto spinto del comunicato di
presentazione di Giovanna Melandri (anelito di libertà e democrazia del popolo
turco, ecc.) e il suo triste taglia-incolla da parte di cronisti sottopagati.

Noi abbiamo invece trovato la mostra
interessante anche per la sua attenzione a un argomento chiave della fase
capitalistica che stiamo attraversando nella corsa accelerata verso lo sfacelo:
l’urbanistica, o meglio ciò che l’ha sostituita, cioè un ipersviluppo edilizio
baudrillardiano, famelico, la cui prima attività consiste nel dare la caccia a
occasioni di dismissioni e abbattimenti – solitamente edifici e interi
quartieri storici – per poter moltiplicare lo spazio del costruibile con lo
scopo dichiarato di creare numeri economici.

Diversi i lavori esposti che rappresentano il
significato dell’incredibile esplosione edilizia di Istanbul, una inurbazione per
certi versi simile a quella del primo industrialismo europeo e americano, ma
essenzialmente diversa, poiché le masse rurali che la megalopoli richiama e
tenta di ordinare hanno scala regional-globale e carattere post-industriale. 300.000
immigrati all’anno rifugiati da zone di guerra e tormento generate come onde
dalla geopolitica a radice finanziaria che muove da Washington, Riad, Berlino e
Shanghai – siriani, curdi, iracheni – sono una realtà impensabile per qualunque
altra città, anche se enorme come Istanbul con i suoi 12 milioni di abitanti. Il
movimento migratorio viene intercettato, gestito, usato dalla politica di Recep
Tayyip Erdoğan e del suo progetto di uno sviluppo che porti la Turchia alla
decima posizione fra le economie mondiali nell’anno fatidico che segnerà i 100
anni della fondazione della Repubblica, il 2023, con un bigottismo e un feticismo
per il simbolo numerico che fanno intravedere come l’economia finanziaria sia l’ultima
superstizione totemica.[1]

Da qui la parossistica accelerazione nello
sviluppo edilizio sotto forma dei grandi progetti dell”iniziativa
statale-capitalista (TOKI – Toplu Konut
Idaresi
, Amministrazione per lo Sviluppo Abitativo) e una delle forme di
utilità del processo migratorio per il sistema neoliberista che vede paesi
depauperati ad hoc esportare a basso
costo la loro ultima materia prima: gli schiavi, del lavoro prima, del consumo poi.

I giovani artisti turchi hanno anche compreso
che il meccanismo auto-alimentantesi della crescita economica continua incontra
sacche di resistenza nei margini e negli interstizi della società e degli spazi
urbanizzati, pur se non un vero movimento politicamente organizzato di critica
dell”assetto economico globalizzato. Questa considerazione acquista maggiore significato
nella città che per antonomasia rappresenta un ponte tra Oriente e Occidente,
Islam e laicismo, già centro del mondo e oggi frontiera della neo-guerra
mondiale, capitale culturale inquieta di un Paese che afferma di desiderare di
far parte dell’Unione Europea ma anche di volersene distanziare, mentre  pratica la pulizia etnica discendendo
paradossalmente gli scalini della propria decadenza rispetto al suo passato
imperiale quanto più intende mimarlo con la violenza.

L”autentica natura sociale della civiltà
islamica intesa come “abbellimento del mondo” e che come tale, nel sogno di Mimar
Sinan, “l’architetto saggio”, voleva le città costruite in legno affinché ogni
generazione potesse avere la libertà di ricostruire a propria immagine
l’ambiente in cui vivere sopravvive dunque, paradossalmente, non grazie al
pugno di ferro del dominante, né al progressismo occidentale della democrazia
dello sviluppo “sostenibile”, ma alla resistenza dei non-turchi, dei
disprezzati neo-rurali, degli “innestati” d’Istanbul che rappresentano, ad
ondate, i nuovi abitanti dei quartieri abbandonati, delle case vecchie, degli slum auto-costruiti [2]. Peccato però che una
mostra così turca non abbia avuto il coraggio di dare spazio alla questione
curda, se non in termini molto annacquati ed astratti. Distrazione?

Purtroppo la maliziosa narrativa mediatica
globale col suo distanziamento romanticheggiante che ha dipinto le proteste di
Gezi Park come una prima presa di coscienza di nuove identità culturali, ha
infiltrato gli stessi protagonisti della rivolta. Lo si vede dalla nostalgica
sezione ad esse dedicata. Nate dal rifiuto locale per il progetto edilizio che
stava per stravolgere apertamente la fisionomia del cuore della città, a cosa
si sono ridotte? A un’esperienza velleitaria da social network dove i ruderi
delle barricate si trasformano in pezzi d”arte di strada, puntualmente rivomitate
nell’esibizione romana, occasione di autocelebrazione emotiva di una
generazione che si considera rivoluzionaria, mentre al governo cresce il
fascismo.

L”ambizioso progetto di pianificazione
sostenibile dei nuovi quartieri che porterà Istanbul a contare 22 milioni di
abitanti entro il 2023 pubblicizza un”attenta distribuzione degli spazi
urbanizzati, delle aree verdi, delle infrastrutture (il terzo ponte sullo
stretto), che realizzerebbe sia una vivibilità dell”abitato, che la
salvaguardia delle aree agricole, con l”ottimizzazione del bilancio delle
risorse idriche di ogni distretto tra la parte urbana e rurale.  La migliore retorica della sinistra urbana ed
ecologista mutuata dalla scaltrezza dei professionisti del design – un’ovvia
menzogna – si fa sorridente e paternalistico processo di impossessamento di tutto
lo spazio e di tutti i possibili antagonismi.

Ad es. ciò che il sistema presenta come
riqualificazione urbana, risanamento delle periferie baraccate e delle aree
depresse si legge come mortifera distruzione di tessuti sociali vivi, simboli,
memorie, funzioni. Deportazioni, gentrificazione e mono-dimensionalità (anche
economica, è soltanto questione di tempo) ne sono gli effetti. Laddove oggi
abitano, in situazioni stratificate da decenni, minoranze etniche e ceti
sociali emarginati, in ambienti urbani fisicamente degradati che comunque
consentono vivacità esistenziale e fratellanza, un domani sorgeranno centri
residenziali a cui avrà accesso una classe borghese senza più anima né
solidarietà – l’aridità della reductio ad
unum
del denaro con l’orrore delle pulizie etnico-sociali che rimandano al
passato della Turchia moderna e alle odierne atrocità di Cizre e Diyarbakir.

Il video progetto di Halil Altındere, Wonderland, vede cantare il gruppo
hip-hop Tahribad-ı İsyan e il rapper Fuat Eregin: “il cadavere del mio
quartiere davanti a me da cinque anni”. Si riferiscono al quartiere storico di Sulukule,
uno dei rari esempi di ininterrotta residenza e cultura stabile Rom dai tempi
dell’Impero d’Oriente, destinato a essere raso al suolo dallo Stato come sta
avvenendo peraltro nella vicina Yedikule alle mura e agli orti urbani bizantini [3]. “Invece di rinstaurare il
passato, TOKI, dovresti aggiustare il cervello dello stato. Hai creato un
deserto, lo chiamano pace, demolisci gli edifici, ma non ci sono più le
persone”.

I Rom che pestano il poliziotto che osa
avventurarsi a Sulukule sono consapevoli di quanto sta accadendo, a differenza
della maggioranza dei cittadini “istruiti” e integrati. Gli emarginati vedono
la realtà che a noi sfugge, non seguono le strade di cemento ed asfalto del
sistema che sono anche vie cognitive preformate, propaganda fatta struttura
urbana.

Lo hanno appreso gli artisti Sinan Logie e
Yoann Morvan che hanno dedicato l’estate 2013 a percorrere a piedi 300 km nella
periferia di Istanbul, da ovest verso est, e hanno presentato nel loro Out of Istanbul? La testimonianza di
prima mano della trasformazione radicale che sta avvenendo nella nuova
periferia, e della quale pochissimi sono pienamente consapevoli. Vi è un
conflitto che sta evidentemente portando le periferie al centro di un nuovo
sistema di potere e sfruttamento fino al punto da far domandare ai due autori:
“Come si fa a uscire da Istanbul?”. Il paradiso propagandato e perseguito dal
sistema sembra una prigione in crescita infinita dalla quale è impossibile
fuggire, come il capitalismo e la sua logica illuministica che tutto
metabolizza, anche le opposizioni.

Istanze di uguaglianza sociale, domanda di
democrazia e di sviluppo economico, non sono perciò che slogan di finta
resistenza nel teatro del potere, mentre si va incrinando anche il tradizionale
conflitto-equilibrio fra laicità e Islam che da un secolo caratterizza la
Turchia.

Qui ci domandiamo ancora una volta perché
nella mostra non sia stato dedicato spazio alla presenza interstiziale per
eccellenza della società turca, cioè all’immigrazione in maggioranza rurale, e
dunque non-urbana e non-sistemica, del popolo curdo, come anche dei profughi
siriani. Se la resistenza vera è quella irriducibile, quella che non segue le
strade di asfalto e non pronuncia retoriche ribaltabili, che abita le crepe, i
margini, sono gli ultimi del mondo – silenziosi, dimenticati, fuori dalla scena
– che negli interstizi del mondo continuano a incarnare nei loro cadaveri e
corpi sofferenti di migranti, oppressi, emarginati, torturati le nostre ultime
speranze umane.

A loro bisogna chiedere, a loro dare la
parola.

NOTE


[1]
Yoann Morvan, Sinan Logie, Istanbul 2023.
Paris:  B2,
2014.

[2] Sara Bissen, “Take”. In: Aslıhan Demirtaş, Grafting. Istanbul: SALT, 2016.

[3] Figen
Kıvılcım Çorakbaş, Asu Aksoy and Alessandra Ricci,
A Report of
Concern on the Conservation Issues of the Istanbul Land Walls World Heritage
Site With a
Special Focus on the Historic Yedikule Vegetable
Gardens
(Yedikule
Bostanları)
. Oxford
University Byzantine Society, January 2014. 

https://oxfordbyzantinesociety.files.wordpress.com/2014/02/report_land_walls_whs.pdf

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