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Omaggio alla Catalogna

Riportiamo due opposte letture dell'indipendentismo catalano, frutto del vissuto di due donne cresciute nella Repubblica Italiana. Non una sintesi ma un prisma per capire la crisi iberica

Omaggio alla Catalogna
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24 Settembre 2017 - 23.52


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Riportiamo qui due opposte letture dell’indipendentismo catalano, frutto del vissuto di due donne che sono cresciute nella Repubblica Italiana e che hanno fatto esperienze significative a Barcellona, da loro raccontate nelle loro pagine Facebook. Non giungiamo a una sintesi, ma cogliamo che l’attuale vicenda iberica è un prisma con molte facce. La parola a Lia Haramlik De Feo (insegnante e blogger) e a Claudia Aru (cantante e attivista).
 
La mia posizione sulla Catalogna
 
 
Per uno strano caso del destino, i miei molti anni in Spagna, paese dove sono cresciuta e che posso considerare più dell’Italia il paese della mia formazione, li ho trascorsi tutti in zone “di frontiera”: le isole Canarie, la frangia tra la Rioja e il Paese Basco e, appunto, la Catalogna. 
In quest’ultima ho conosciuto catalani di tutti i tipi: nostalgici del franchismo, che allora tifavano tutti per l’Espanyol in contrapposizione al Barça che si identificava con l’autonomismo; gente normale che difendeva con passione la propria, recente, autonomia e che comunque si sentiva sia catalana che spagnola, pochissimi indipendentisti e tantissimi gitani e immigrati andalusi che se ne battevano i coglioni. Tutto il flamenco che ho ascoltato e ballato nella vita, l’ho ballato in Catalogna.
In Catalogna, oltre che sul flamenco, venni alfabetizzata sulle importanti e complesse sottigliezze che distinguevano i concetti di autonomia, indipendenza, nazione, stato, autodeterminazione e via dicendo: differenze lessicali che corrispondevano ad altrettanti posizionamenti politici, che alla fine si traducevano sostanzialmente nel cosa fare con la lingua catalana e con le tasse.
Quelli dell’immancabile mantra della “nazione oppressa” erano potenti, te ne accorgevi. Avevano posizioni consolidate nelle università e nella stampa, e da ancora prima che morisse Franco. Creavano un mondo chiuso di “catalanità pura” e di fatto costituivano una cerchia che difendeva propri, tangibili interessi di gruppo. Una Catalogna ricca e respingente, storica e accentratrice, che politicamente si rifletteva in Convergència i Unió, partito di coalizione capitanato da quel padre del catalanismo che è stato Jordi Pujol e che ha governato in Catalogna per trenta dei trentasette anni di governo democratico. Sia chiaro: erano gente di destra. E cattolici. E liberisti. E la loro retorica nazionalista, col folklore, il sentimentalismo e così via, aveva come classi di riferimento la piccola e media borghesia locale, assieme ad alcuni piccoli gruppi ecologisti, pacificisti etc.
In quegli stessi anni a Madrid esplodeva la Movida, con Almodóvar, i gruppi musicali e tutto il resto. Io avevo vent’anni. Abbiate pazienza se non mi applicai più di tanto, ma Alaska y los Pegamoides mi piacevano più della Sardana.
Io, tra l’altro, ero napoletana. Come tale, e memore del razzismo del nord Italia, avevo molto fiuto per quanto riguardava le operazioni politiche di esclusione. Imparai che l’equivalente di “terrone”, lì, era “charnego”, e si usava in abbondanza verso gli immigrati andalusi. E sebbene il nazionalismo catalano non avesse tutti quegli elementi etnici e razziali tipici di quello basco, comunque riuscivano a essere assai poco carini anche loro: Vicenç Navarro ricorda che Pujol arrivò a sostenere che gli immigrati andalusi avevano un quoziente intellettivo più basso dei lavoratori catalani, e spesso li ha definiti “talpe”. 
Per quanto questi scivoloni fossero comunque, il più delle volte, coperti dallo stile rispettabile e beneducato locale, che la nostra Lega non ha saputo copiare, io il razzismo lo sentivo chiaro e forte. Non verso di me che ero italiana (e all’epoca noi italiani eravamo ammirati, là) ma verso i miei amici spagnoli non catalani. E non mi piaceva, che vi devo dire. Avevo anche una figlia di pochi mesi nata a Siviglia e di sangue castigliano, non avevo voglia di ‘ste stronzate.
Stronzate che comunque, nella mia esperienza, sono state marginali. La stragrande maggioranza della gente che ho frequentato e a cui ho voluto bene era catalana ed era normale. La pressione di queste cose, nei tempi in cui ero lì, si sentiva evidentemente molto meno di oggi.
Più di tutto, però, io ero straniera, e il mio sguardo era quello di una straniera. E – pure Cadalso lo insegna – spesso gli stranieri vedono cose che i locali non vedono.
Quello che vedevo io era che la Catalogna e il resto della Spagna avevano una montagna di cose in comune. Che se mi avessero trasportato bendata e con le orecchie tappate in un qualsiasi bar, discoteca, luogo di incontro di Barcellona, al togliermi la benda non avrei saputo distinguerlo da uno di Madrid o di Valencia, ma avrei capito perfettamente di trovarmi in territorio spagnolo e non francese o italiano. Che le cose che li univano, insomma, erano infinitamente di più di quelle che li separavano.
Peccato che tutti si concentrassero su quello che li separava, invece.
Del resto è una questione di senso comune: possiamo frugare nella storia per cercare il momento del Medio Evo in cui c’era la Contea di Barcellona, o parlare del re Borbone che nel 1714 volle imporre in Spagna il modello di monarchia francese e impiantò il centralismo, con grande dolore dei catalani. Ma rimane il fatto che, nella storia della Catalogna, il tempo in cui questa ha fatto parte della Spagna in modo consenziente, condividendone politiche e obiettivi, è di gran lunga superiore.
Non esiste un determinismo storico per cui, se nel Medio Evo sei stato Contea, Contea devi essere mille anni dopo. Ma, se pure esistesse, giocherebbe a favore dell’unità. Perché dal matrimonio tra Fernando e Isabella a oggi, il tempo della condivisione è stato di gran lunga superiore ai tempi di dissidio o di frattura.
E si vede: nelle abitudini, nel modo di mangiare o di divertirsi, nello stile del loro cattolicesimo, nel senso dello spirito, nella gestualità e in un lungo, lungo eccetera.
Poi, oh: se le differenze – che pure esistono, certo: anche io sono diversa da un trentino – sono più importanti (ma lo sarebbero di meno se la crisi economica non giocasse il ruolo spiegato nei link che ho postato qui sotto), che dire: contenti loro. Però io rivendico il mio diritto di considerarla una stronzata.
Leggo che nelle scuole catalane non si studia la letteratura spagnola ma quella catalana. Dignitosissima, certo, e con alcuni momenti di grande pregio, ma forse dal respiro universale un po’ minore. Leggo che si privilegia l’inglese allo spagnolo: a me questi pseudocosmopolitismi d’accatto fanno un po’ senso, ma tant’è.
Per qualcuno gli avvenimenti catalani racchiudono una promessa di futuro degna di essere seguita, anzi, sognata.
Io, di futuro inteso come progresso, non ce ne vedo molto. Combattere il nazionalismo sostituendolo con un altro nazionalismo? Combattere l’idea di Stato costruendo un altro Stato?
Non vedo la logica, sul serio.
Quello che vedo è che la Catalogna, che ha una tradizione democratica, aperta e libertaria, pare ansiosa da anni di racchiudersi in una autocontemplazione sterile, autocompiaciuta, provinciale. Ecco: provinciale.
Mi dispiace.
E trovo che tutto questo sia una stronzata, sostanzialmente. Ma dagli effetti potenzialmente disastrosi per loro e per la Spagna tutta. E la Spagna è un gran paese che non merita questo: i governi si possono cambiare senza distruggere gli Stati.
 
 
 
Comprendere nel profondo la ‘questione catalana’ per non sentirsi, da sarda, straniera a Barcellona
Sono arrivata a Barcellona nel lontano 2003 per ragioni di studio, ero molto giovane e la mia coscienza politica era insicura e più che altro ribelle; con un padre ex tesserato MSI, era inevitabile indossare la kefia e ascoltare i Modena city Ramblers, ma ero ben lontana dal capirci qualcosa. La questione sarda non esisteva affatto, mi vergognavo dell’accento sardo in TV, scappavo da manifestazioni in cui c’era la “schifosissima”musica sarda e quelli “vestiti in dialetto”.
Insomma, ero molto giovane e inconsapevole.
In Catalogna ho trovato un ambiente molto ostile, ben lontano dalla Barcellona della movida e delle feste, in realtà c’erano , ma solo con stranieri e nessun autoctono. 
Per di più sono finita nell’università più schierata politicamente che sembrava una presa in giro, “Universitat Autonoma, Sardanyola (che si legge proprio “sardagnola”) 
Lì ho vissuto cosa si prova a non essere accettati, stavamo solo tra stranieri, i catalani ci odiavano, i miei compagni di classe non mi rivolgevano la parola e, fuori dalla classe, mi ignoravano. 
Questa cosa mi faceva malissimo e mi lamentavo con i miei compagni stranieri di un trattamento così ostile.
Ricordo la nostra preoccupazione a lezione, quando ancora lo spagnolo non lo parlavamo e le lezioni erano rigorosamente in catalano; che poi io ero pure quella fortunata, tra sardo e italiano almeno capivo l’argomento.
I tedeschi erano disperati.
Quando con coraggio chiesi al Professore di parlare in spagnolo almeno il primo mese per darci il tempo di capire la differenza tra le due lingue, lui mi rispose, ovviamente in catalano “Se vuoi parlare spagnolo, vai a Madrid!”.
Parecchi ragazzi, esasperati, tornarono mestamente a casa e gettarono la spugna, era davvero difficile.
Io avevo tre scelte 
1) Schierarmi con gli stranieri e quindi contro i catalani, alimentare una guerriglia insopportabile e vivere altri 8 mesi d’inferno;
2) capire perché i catalani erano così duri e provare a farmi accettare;
3) andarmene.
Ovviamente ho scelto la seconda.
E non vi dico quanto sono stata male ripercorrendo la storia catalana e studiando quanto questo popolo ha sofferto e ha lottato per la sua libertà. 
Quindi provo a fare chiarezza: 
L’unione, per matrimonio, tra la Catalogna e l’Aragona risale al XII secolo. Nel XV, conservando le proprie istituzioni, si integra nella Spagna dei Re Cattolici. Il nazionalismo catalano nasce nel secolo XVII, cogliendo l’occasione delle rivalità franco-spagnole. Nella prima metà del XVII, nonostante tutti i suoi sforzi, la monarchia non riesce a ottenere l’unità politica, economica e militare della penisola iberica. I Països Catalans, grazie alla loro autonomia, si sottraggono alla forte inflazione monetaria castigliana. Questa opposizione da economica diventa politica, preludio a un tentativo violento di separazione. Nel 1640 inizia quella che passerà alla storia come “Guerra dels Segadors” (ascoltate il famoso inno catalano), rivolta sociale e nazionale contro il regime feudale e contro la monarchia assoluta e centralista. Si costituisce una repubblica catalana sotto la protezione di Luigi XIII di Francia.
Da qui nasce l’eterna lotta dei Catalani per il riconoscimento del loro Stato, vi evito la cronistoria ma non posso saltare il dramma che hanno vissuto sotto Franco. 
Franco, dopo il ‘39, distrusse con ferocia e con la forza delle armi ogni istituzione locale dei catalani. Lo stesso trattamento venne riservato alla cultura, alla lingua, all’economia (nel 1960 la Catalogna produceva il 21,4% del reddito nazionale e non partecipava al budget dello Stato spagnolo che per il 7%). Incalcolabile poi il numero delle vittime delle sacas, le esecuzioni sommarie di massa che per anni e anni decimarono quelle classi popolari catalane che maggiormente si erano rese protagoniste della lotta al franchismo e all’ordine sociale esistente (gran parte dei giustiziati erano membri della CNT). Barcellona ancora ne porta i segni, nel quartiere del Borne i miei amici catalani mi hanno fatto vedere i segni ben chiari delle pallottole sui muri delle esecuzioni, ma questa è una “B side” di Barcellona che pochi conoscono. 
Durante i primi anni del regime franchista, l’opposizione catalana fu soprattutto simbolica. I grandi leaders politici erano morti o in esilio e così i capi del movimento sindacale. Da ricordare in particolare Lluis Companys (dirigente dell’Esquerra Republicana de Catalunya, fondata nel 1931) rifugiato in Francia, che venne consegnato a Franco dalla Gestapo e fucilato nell’ottobre del 1940. Solo durante gli anni cinquanta l’opposizione prese a manifestarsi apertamente attraverso varie forme di resistenza civile, come il boicottaggio di massa dei trasporti pubblici a Barcellona nel 1951. Si cominciò anche a riaffermare l’identità culturale catalana.
Come hanno reagito i catalani? 
Lavorando come dannati, creando ricchezza e benessere e diventando la nazione più ricca della Spagna a fronte di un sud arretrato, sostanzialmente ignorante e attaccato all’assistenzialismo statale. 
Tornando alla mia presa di coscienza, una volta che ho cominciato a studiare, ho provato, con immenso sforzo a entrare nella cultura e a imparare il catalano.
Ricordo benissimo come cambiava il loro volto anche se solo li salutavo in catalano… quel viso corrucciato e sempre sulla difensiva, si distendeva magicamente e la loro proverbiale diffidenza e chiusura, diventava un abbraccio vero e accogliente.
Ovviamente ci sono gli estremi che non mi piacciono, ovvero le loro prese di posizione estreme e spesso sorde o il loro volersi riprendere anche “Alghero”( non avete idea di quanto li abbia smerdati dicendo ” se non siamo italiani, non siamo neanche catalani, andate fuori dalla palle, ma… pesantemente eh!) 
Ma quello è normale, dentro ogni gruppo ci sono le persone intelligenti e gli ottusi.
Per concludere, in Catalunya ho capito che mi stavo perdendo qualcosa di meraviglioso, ovvero la mia identità culturale.
E ho passato brillantemente 9 esami rigorosamente in catalano.
Mi hanno invogliata a studiare la mia storia e la mia lingua… ed eccomi qui.
Ho studiato, ho capito e alla fine ho condiviso… 
Loro ci odiavano perché noi sbeffeggiavamo, minimizzavamo e non comprendevamo la loro cultura, a casa loro.
Avevano ragione, cazzo. 
Ho provato il brivido nel cantare il loro inno insieme a loro, ho mangiato il loro cibo, vissuto le loro feste e ascoltato la loro musica, e quella pelle d’oca, quel senso di appartenenza quegli occhi lucidi hanno risvegliato in me la voglia di conoscere la mia cultura e volerne fare parte davvero. 
Riprenderla, studiarla, ascoltarla, come non avevo fatto mai. 
Svelata la ragione per cui una ragazza che ha viaggiato tanto, che non ha mai parlato sardo in casa, a un certo punto studia sardo, canta in sardo e difende la cultura e l’identità della sua terra.
Devo tantissimo alla Catalunya e al suo popolo e fremo nel leggere cosa sta accadendo nella “mia Barcellona” .
Sarò in Belgio per delle date la settimana prossima, ma non escludo un colpo di testa, ora loro hanno bisogno di aiuto, soprattutto dagli stranieri. 
Anche se loro sanno benissimo che sono con loro.
Ricordo nelle riunioni indipendentiste, quando poi sono diventata attivista qui, che i catalani spiegavano ai corsi e ai baschi, che la violenza non portava a nulla, che era solo controproducente… quindi vedere quello che sta succedendo ora mi fa male e non lo accetto… già una volta ho fatto l’osservatore internazionale durante uno dei referendum locali che hanno portato a questo grande risultato del primo ottobre, ricordo che fu una festa grande, una grande lezione di civiltà.
Per això, Estic a prop del poble català, 
Estàs preparat, germans meus, per la llibertat!
Fins Aviat!

Tratto da: http://tottusinpari.blog.tiscali.it/2017/09/21/comprendere-nel-profondo-%E2%80%9Cla-questione-catalana%E2%80%9D-per-non-sentirsi-da-sarda-straniera-a-barcellona/.

 

 

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