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Italia ed Europa, 2018-2019

Ho l'impressione che con il "caso-Italia" l'Europa si troverà un po' costretta a decidere cosa fare da grande. [Alessandro Gilioli]

Italia ed Europa, 2018-2019

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3 Aprile 2018 - 11.47


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di Alessandro Gilioli

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Avrete notato, credo, i segnali con cui le istituzioni europee e la Troika stanno reagendo al dopo-elezioni italiano. Forse vale la pena di soffermarsi sul tema, perché per il futuro di questo Paese la questione è un po’ più rilevante dell’autobus di Fico o della spartizione dei questori parlamentari.

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Pierre Moscovici (commissario Ue all’economia) ha detto che a Bruxelles sono «estremamente calmi, prudenti e rispettosi del ritmo democratico italiano» ma «è importante che l’Italia resti quel grande Paese che è in Europa e impegnato nell’Eurozona, rispettando pienamente le regole».

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Jean-Claude Junker da una settimana tace, dopo essersi tuttavia lasciato sfuggire una frase sibillina e minacciosa: «L’Italia è l’Italia. È una vecchia democrazia e altri decisori troveranno una soluzione per quella che non è ancora una crisi».

La Bce ha messo in guardia da qualsiasi ipotesi di mitigare la legge Fornero: anzi, chiede un’ulteriore stretta sulla reversibilità e per gli autonomi.

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Lagarde (Fmi) ha proposto un fondo anti crisi, che in teoria dovrebbe aiutare i paesi Ue più fragili, quelli in cui la ripresa balbetta come il nostro.

Si è rifatto vivo perfino Monti – anche se dubito fosse mancato molto in giro.

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Non credo che tutti questi cosiddetti “poteri forti” siano una paurosa Spectre onnipotente, ma qualcosa (parecchio) contano; e qualsiasi governo si stabilisca in Italia dovrà farci i conti.

È vero però anche l’opposto: per la prima volta Bruxelles, Francoforte, Berlino e il Fmi dovranno fare i conti non con Paesi marginali come Grecia e Portogallo, ma con una delle prime tre economie dell’Eurozona, nonché con uno dei Paesi fondatori dell’Unione.

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Con Tsipras sappiamo com’è andata: un braccio di ferro lungo alcuni mesi, poi Atene ha dovuto adeguarsi. La Grecia era (è) poca cosa, economicamente, piegarla non è stata difficile. E tutti gli altri l’hanno lasciata sola.

Con il Portogallo non c’è stato neppure bisogno di un braccio di ferro: un governo di sinistra ma meno radicale di quello greco ha cercato fin dall’inizio un compromesso – proprio dopo aver visto cos’era successo in Grecia – trovando mediazioni che finora sembrano funzionare.

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Adesso però c’è l’Italia, che appunto conta molto di più, anche se noi ne abbiamo poca contezza per la storica carenza di autostima che ci caratterizza.

A urne ancora calde, gli osservatori più vicini a Bruxelles hanno sperato in una partecipazione del Pd a un governo Cinque Stelle o anche a un governo di destra (Fi-Lega). Il motivo è semplice: in quei salotti e in quei centri studi si pensa che la presenza del Pd darebbe maggiore stabilità all’esecutivo, ma soprattutto attenuerebbe le richieste italiane e i conflitti con Roma.

L’idea è insomma “tsiprasizzare” Di Maio o Salvini: rendere cioè il futuro governo più pragmatico, realistico, flessibile.

Allo stato delle cose, lo scenario in questione non sembra tuttavia di facile praticabilità.

Per quanto riguarda una possibile alleanza Pd-M5S (magari con dentro anche Leu), Renzi controlla quasi fisicamente un numero di senatori piddini sufficiente da renderla quasi impossibile.

Un po’ più ipotizzabile è forse una maggioranza che invece tenga dentro tutti escludendo solo M5S, Fratelli d’Italia e Leu. Sarebbe numericamente stabile, ma politicamente fragile: la Lega dovrebbe giustificare con i suoi elettori l’accordo con l’odiato Pd, il Pd dovrebbe spiegare ai suoi un’alleanza innaturale come quella con la Lega, mai osata neppure negli accordi larghi delle scorse legislature.

È tuttavia possibile che Mattarella ci provi, nei prossimi giorni. Provi cioè a fare uscire il Pd dal suo attuale isolamento, a coinvolgerlo in una qualche maggioranza, anche perché questa sarebbe appunto la soluzione più gradita alle cancellerie europee, alla Bce, alla Troika, a Berlino.

Un intervento del Quirinale ha sempre il suo peso, nel Pd c’è già qualcuno che lo aspetta come un assist, insomma vedremo.

Resta comunque – e non solo in Italia – la questione di fondo. Cioè un’Europa che si mette di traverso ai criticabili ma legittimi desiderata delle democrazie, dei cittadini che votano.

Si è visto – e con quale violenza – in Grecia.

Si potrebbe vedere anche adesso in Italia: dove la maggioranza dei cittadini ha votato forze che chiedono una mitigazione (almeno) della legge Fornero e qualche forma molto ampia di reddito per la valanga di esseri umani ai quali è preclusa la possibilità di un’occupazione decente e continuativa.

Questo implica una redistribuzione molto radicale della spesa pubblica e, secondo alcuni, anche un suo aumento a debito, secondo teorie economiche che possono non piacere ma non sono improvvisate, anzi hanno almeno un secolo di storia.

Entrambe le cose – redistribuzione e aumento della spesa pubblica – hanno trovato finora nelle istituzioni europee un muro. Questo muro è quello che ha provocato per reazione i contro-muri: sovranismi, neonazionalismi, antieuropeismi.

Ecco, ho l’impressione che con il “caso-Italia” l’Europa si troverà un po’ costretta a decidere cosa fare da grande. Cioè se mettere in discussione quel muro o destinarsi all’estinzione, all’implosione.

Ah, a proposito: per l’Europa tra un anno si vota.

Mi auguro che si capisca fin d’ora che quel voto – tra un anno – per la prima volta può risultare più importante di quello per le elezioni nazionali che l’ha appena preceduto.

(29 marzo 2018)

 

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