Marco Biagi era di sinistra. Riflessioni sul precariato e sulla crisi di una certa politica | Megachip
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Marco Biagi era di sinistra. Riflessioni sul precariato e sulla crisi di una certa politica

Marco Biagi era di sinistra. Riflessioni sul precariato e sulla crisi di una certa politica
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28 Settembre 2010 - 22.14


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trabalho_precariodi Serena Ferrara.

Accade – viaggiando – di afferrare elementi di paesaggio: manciate di forme e di colori unici, irripetibili, potenti. È il linguaggio con cui i luoghi parlano al viandante: è un saluto sommesso quando va via, un abbraccio al suo ritorno. Noi figli della globalizzazione, che viviamo il viaggio come una necessità storica, un imperativo culturale, ci portiamo dietro decine di questi paesaggi, come cartoline nella tasca della giacca. Ci sono però dei luoghi che non puoi dire di aver conosciuto veramente se non ne hai apprezzato i suoni. La musica di questo paese, che attraverso almeno una volta al mese per raggiungere la mia famiglia, sono i dialetti.

A volte, se sono fortunata, parlate diverse si intersecano in una stessa conversazione come rette passanti per lo stesso punto. Ed è proprio allora, quando i discorsi si impregnano della spontaneità delle calate dialettali, che si ha la percezione nitida di quanto l”identità e la cultura del popolo italiano siano frammentate, incompiute, come la personalità di un adolescente.

I due giovani seduti accanto a me, sull”altro lato del treno, stanno parlando della propria condizione di precari. Dal loro accento direi che sono entrambi meridionali, ma lui – un po” più adulto e disincantato – ha nel viso e nella voce la proverbiale amarezza di chi è dovuto partire suo malgrado. Dalla loro conversazione deduco che sono in viaggio per lavoro. Sono entusiasti e appassionati, ma lui lamenta di essere stato trattenuto, la sera precedente, per un tempo molto più lungo di quello che, per contratto, sarebbe tenuto a stare in ufficio. La sua giovane collega riconosce che i ritmi di lavoro cui sono sottoposti sono palesemente eccessivi se commisurati alla loro posizione, ma ritiene che le collaborazioni a progetto non siano in assoluto un fatto negativo.

gr_contratoSeguo il loro ragionamento e colgo le contraddizioni profonde di una condizione che è anche la mia. Per noi lavoratori della conoscenza, non ci sono vincoli di tempo. In linea teorica, tutto dipende dalla nostra capacità di gestire autonomamente il tempo, finalizzandolo al raggiungimento degli obiettivi. In queste condizioni, non esistono “straordinari”. Un”ora di lavoro in più ha un valore aggiunto che va ben oltre la banale esigenza di arrotondare lo stipendio. Il nostro compenso, infatti, non è esclusivamente economico ma consiste in un insieme astratto di benefici che si possono riassumere nel termine “esperienza”: saperi, conoscenze e relazioni “spendibili” in una carriera di cui non ci è dato conoscere in anticipo le tappe, né coloro ai quali è affidato il compito implicito di “aprirci le porte”.

Così scompaiono dal nostro vocabolario concetti come quello di orario di lavoro, di ferie, di mansione e, come robot a cui sia sufficiente modificare di volta in volta il software, continuiamo a studiare e impariamo come passare agevolmente da un compito all”altro, programmiamo incontri di lavoro anche durante le ferie per ottimizzare gli spostamenti, approfittiamo di quella speciale ispirazione che la notte porta con sé per produrre un documento che durante il giorno, tra telefonate e riunioni, ci ha tenuto incollati davanti a una pagina bianca di word, per ore.

Con il corpo, la mente, il tono di voce, il sorriso ben controllati e sempre tesi alla realizzazione del “dialogo brillante” inseguiamo il nostro quotidiano successo, facciamo della nostra “creatività” una bandiera e ci facciamo beffa dei nostri coetanei che lamentano la propria condizione di “precari”.

Per noi, infatti, non si tratta di firmare contratti, ma di cogliere occasioni che possano indirizzarci verso nuove strade, sempre più dritte e lunghe, che sfuggano al possesso dello sguardo, ma dalla cui bellezza siamo abbagliati, da sempre. Forti di questa consapevolezza, abbiamo deciso che non avremmo mai fatto lo stesso lavoro dei nostri genitori e abbiamo scelto corsi di laurea avveniristici dove parole come conoscenza, comunicazione, formazione, ricerca, cooperazione, strategie (individuali e collettive; economiche, politiche e cultuali), attraversavano le pagine e le aule come parole d”ordine per affrontare il futuro. Una sorta di creolo nato dalla mescolanza di saperi e discipline, e di questi con i linguaggi della politica e dell”informazione. E, tuttavia, è una lingua che padroneggiamo a fatica: in Italia, come nel resto d”Europa.

Sennonché, a un certo punto, tutti i nodi vengono al pettine. In tempi di crisi economica e di disoccupazione, il precariato torna a essere un problema e ricomincia a fare notizia.

Anche perché nel frattempo, noi giovani – sprezzanti di tutto ciò che abbiamo considerato vecchio e superato (la politica tra le altre cose), abituati a pensare che le generazioni precedenti avessero un grande debito nei nostri confronti che avremmo riscosso silenziosamente rinviando il più a lungo possibile il tempo in cui ci saremmo riconosciuti adulti – noi giovani, dunque, alla fine siamo irrimediabilmente cresciuti. Nel frattempo, i vecchi ci hanno chiamati “bamboccioni”, utilizzando il termine con la stessa autorevolezza di una categoria sociologica. Noi, consapevoli della calunnia e sogghignando impassibili, abbiamo continuato a inseguire la meta, esultando a ogni quotidiano successo, come se fosse un mattone di un grande edificio che piano piano prende forma (poco importa se nel cemento finisce anche una storia d”amore, il desiderio di avere un figlio, il progetto di una casa. tutto questo può aspettare o, al limite, può anche non accadere purché si realizzi il comandamento per eccellenza: “realizzare se stessi”).

picadora_copiaMa quando l”incertezza diventa una condizione stabile, essa smette di essere un”opportunità e si rivela per ciò che è: uno svantaggio.

A quel punto, si cercano delle sicurezze, ci si stringe agli altri e si ricomincia a desiderare solo il minimo indispensabile: una casa, una famiglia, una serenità anonima che poco ha a che fare con l”ansia di successo. Allora ci identifichiamo con i nostri coetanei “precari”, da sempre alla ricerca di un lavoro normale, di una vita normale. La nostra “carriera” non ci appare più tanto scontata, né tanto diversa dalla loro “gavetta”; i nostri momenti di gloria non hanno più senso delle loro routine e i nostri bisogni non sono poi così diversi dai loro.

Il precariato è uno squarcio nelle trame del mito che, nel tempo, ci ha insegnato a immaginare il lavoro come un fine, anzi il fine. I “precari”, la cui visione della vita prima ci appariva simile a una “lunghissima linea grigia” nella quale la realizzazione di infinite possibilità cede il passo al bisogno di rifugiarsi nella rassicurante banalità del “posto fisso”, oggi sono dei privilegiati. Perché per primi hanno smascherato l”inganno. Allo stesso modo, tutti noi, non siamo tanto diversi da quanti stanno perdendo il proprio lavoro. Siamo nella stessa barca, eppure ci sentiamo distanti, come appartenenti a mondi diversi. Per il semplice fatto che nel loro modo di vedere le cose, la perdita del lavoro è un”anomalia, un trauma; per noi è una condizione del contratto. Così andiamo avanti, ciascuno per conto proprio, ciascuno con la propria battaglia.

Penso a tutto questo mentre, nel frattempo, la conversazione si è fatta più animata, coinvolgendo le persone sedute nei posti vicini. Due anziani signori, dal portamento distinto e autorevole, hanno appena smesso di sfogliare il loro mucchio di quotidiani e si sono inseriti prepotentemente nella conversazione, che adesso ha assunto i toni di un vero e proprio dibattito. Con loro, viaggia un uomo sulla cinquantina, testimonianza vivente di come, appena qualche decennio fa, fosse ancora possibile costruirsi una posizione rispettabile in tempi ragionevoli. Intuisco immediatamente che mi trovo davanti a uno spaccato della Roma fiera e supponente dalla quale mi sforzo di prendere le distanze: quella dei centri di potere; delle migliaia di stanzette in cui la parola lavoro è solo un pretesto; la Roma della miriade di convegni e di seminari e buffet nei cui cerimoniali si sostanzia il livello del dibattito politico, economico e scientifico italiano.

Ascolto affascinata le loro opinioni, ricche di sfumature come i colori sulle ruote dei pavoni. Eppure questi uomini non stanno corteggiando nessuno. Dimostrano qualcosa a se stessi, si confermano nel proprio ruolo, nelle proprie posizioni di privilegio: è la cosa più importante che hanno, quella per cui hanno vissuto (i più anziani), quella a cui aspirano ardentemente da ormai 10, 20 anni (i più giovani).

I primi hanno convinzioni solide e parole collaudate. Forti di tale prestigio, annuiscono compiaciuti o smontano le tesi dei giovani. In mezzo a loro, la ragazza sembra una bambina impertinente che pretende di intrufolarsi nei discorsi dei “grandi”. A un certo punto, le viene chiesto provocatoriamente qual è il suo titolo di studio. Viene fuori che ha una laurea in Scienze della Comunicazione, per giunta conseguita a Palermo (almeno avesse studiato alla Sapienza o alla Luiss)! La sicurezza esibita fino a un attimo prima si è dissolta in un lampo: lo deduco dal modo in cui mi guarda, in silenzio, come a volersi giustificare per aver già abbandonato il ring.

Nel frattempo, i due anziani oratori – da giovani devono entrambi aver militato in politica – hanno abilmente spostato il discorso sulla crisi della Sinistra italiana. Si interrogano sul perché questa abbia perduto l”occasione di trasformarsi in uno schieramento all”altezza della competizione in un sistema bipolare, permettendo infine alla Lega di occupare le regioni a tradizione comunista.

Il loro collega argomenta che il successo della Lega è probabilmente intrinseco al suo carattere localistico: un elemento sicuramente rassicurante in un”epoca di grandi sconvolgimenti. I due anziani sentenziano che è una spiegazione ingenua. Lo stesso accade quando il giovane meridionale cita un sociologo per spiegare che, probabilmente, la crisi della sinistra è derivata dalla trasformazione profonda delle strutture sociali e dal venir meno degli strati sociali che, storicamente, ne hanno costituito la base elettorale.

Per i due anziani anche questa è una banalità: la sociologia non viene prima della politica. E la politica è progetto. Dunque, l”unica verità è che la Sinistra manca di un progetto, anzi di un”identità (per un attimo, i due restano sospesi sulla questione filosofica dell”uovo e della gallina, cercando di stabilire se l”identità sia propedeutica al progetto, o viceversa). È persino divertente.

Di tanto in tanto, i quattro mi lanciano un”occhiata interrogativa. Sono consapevole che, restando fuori dal dibattito, sto contribuendo a confermare lo stereotipo della giovane che non capisce nulla di politica; per non parlare dell”autogol che sto infliggendo al mio percorso professionale: ho forse dimenticato che qualsiasi tipo di relazione, anche la più fuggevole, può tradursi in un”opportunità?

precariatoNo. La verità è che ho un pensiero fisso, quasi crudele.

Solo la metà delle persone, su questo pezzo di treno – e io sono una di loro – sono giovani nel senso anagrafico del termine. Siamo gli unici, dunque, per i quali abbia senso parlare di futuro.

Siamo gli unici per i quali “precariato” non è soltanto un argomento di conversazione.

In generale, facciamo parte di coloro i quali pagano il prezzo – e probabilmente lo pagheranno per tutta la vita – degli scempi commessi da una classe dirigente che si concede ancora il lusso di rimpiangere pubblicamente se stessa.

Siamo gli unici, dunque, ad avere il diritto di indignarsi. Gli altri sono tutti in qualche modo colpevoli.

A proposito, bando ai sofismi, qualcuno sa dirmi in che forma lo Stato ci restituirà i soldi con cui stiamo pagando – “contributo” è una parola subdola – le pensioni di una generazione che talvolta ha smesso di lavorare a cinquant”anni, tal”altra occupa tuttora posti di lavoro di prestigio e ben retribuiti, con la scusa del lavoro come “ragione di vita”?

Da dove viene la crisi della Sinistra? Sarei tentata di uscirmene con un “ma chi se ne frega delle vostre dietrologie”, eppure mi sorprendo ad avere la risposta. Chiara. Lampante.

Forse perché la mia generazione non ha vincoli di sorta con le ideologie e i partiti del passato. Forse perché la mia accezione della politica non ha più niente a che fare né con i compromessi storici né con l”apologia della libertà. Forse per tutte queste ragioni, non mi occorre né un”identità, né un progetto, né un leader con cui identificarmi. Quel che mi serve è una visione del mondo, un modello di società alternativo a quello esistente, che sia credibile e convincente.

Ripenso a un saggio sul futuro della Sinistra inglese, che ho letto qualche tempo fa:

«Si sono dissolte le condizioni che consentivano ai governi laburisti di convincere l”elettorato di poter tenere in vita l”economia capitalistica e di riuscire a provvedere alle aree sociali (.). Il nuovo realismo è una vera e propria resa alla credenza che, in fin dei conti, la realtà economica sia indiscutibilmente quella del mercato (.). Siamo intrappolati tra l”avversione per la disoccupazione e la paura dell”inflazione. Il thatcherismo ha racchiuso tutte le alternative economiche nei termini di questo brutale “aut-aut”. (.) Altro che erosione del Welfare State, cosa peraltro non del tutto estranea ai governi laburisti: si tratta anche di “spezzare l”incantesimo del Welfare State” confutando ideologicamente il valore di costante punto di riferimento e dato inevitabile della scena politica. (.) Paradossalmente, la Thatcher è riuscita a risollevare un po” i cuori e le menti, perché – per quanto spregevole, corrotta, orribile sia la sua visione del futuro – almeno sappiamo cos”è. Possiamo immaginare come sarebbe la vita secondo il vangelo della libera impresa, della rispettabilità patriarcale e dell”ordine autoritario. (.) È un futuro alternativo, una filosofia di vita. Nessuno sa cosa sia, per il Partito laburista, uno stile di vita alternativo, poiché per ora non ha alcuna idea del futuro e non offre alcuna immagine della vita sotto il socialismo».

(da Stuart Hall, Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, Il Saggiatore, 2006.)

Non si può fare a meno di ritrovarvi molti elementi della realtà italiana.

In tanti ritengono che, in Italia, la causa principale della crisi della Sinistra sia stata l”incapacità di portare a compimento il processo di revisione democratica che avrebbe dovuto condurre alla nascita di uno schieramento di sinistra interno alla socialdemocrazia europea.

Io invece penso che tale crisi derivi molto più semplicemente dal costante processo di demolizione del patrimonio culturale e ideologico della Sinistra, ossia della sua “visione alternativa del mondo”. Un processo di demolizione endogeno, fondato sulla pretesa di costringere il pensiero di sinistra nello spazio angusto del “riformismo”. Sennonché il riformismo non costituisce una visione del mondo “alternativa” a quella capitalistica, ma è piuttosto “interna” o “complementare” ad essa. Il riformismo non è né di destra, né di sinistra, o perlomeno può essere entrambe le cose.

Non è affatto scontato, quindi, che fosse questa la migliore strategia da opporre al nuovo racconto proposto da Silvio Berlusconi (non è un caso, peraltro, che molti riformisti oggi occupino le fila del suo partito): il racconto di una società finalmente in grado di aggirare i propri tabù e di conciliare il cattolicesimo con il consumismo, il perbenismo con la visione di tette e culi in televisione. Il racconto di un uomo che, dal nulla, conquista un patrimonio immenso, in un paese finalmente liberato da inutili pretese di austerità economica e morale. Soprattutto, un nuovo linguaggio della politica, svincolato dalle identità partitiche, e fondato sulla possibilità di manipolare l”immaginario collettivo.

La strategia riformista, all”opposto, lungi dal permettere alla Sinistra di ridefinire se stessa, ha finito per agevolare il progetto ideologico della Destra, mirante a demolire i concetti cardine del discorso politico di sinistra, per poi appropriarsene in termini populistici.

«Chi ha il controllo delle definizioni, ha il controllo della credibilità». Non è banale richiamare l”attenzione sull”uso smodato del termine “comunista”, utilizzato in televisione come un”ingiuria da rivolgere a politici e giornalisti che esprimano una qualsiasi posizione genericamente di sinistra, o persino alle alte cariche istituzionali, dai magistrati al Presidente della Repubblica.

E non è banale, parlando di lavoro, richiamare l”attenzione su come la destra passi con incauta leggerezza dalla pretesa di cancellare l”art.18, ai proclami sul diritto dei giovani italiani ad avere un posto fisso e poi, di fatto, al taglio di migliaia di posti di lavoro nella scuola. E così via, in un susseguirsi di affermazioni costantemente negate dai fatti. È come se fossimo immersi in una sorta di sistema orwelliano in cui la memoria di tutto ciò che viene detto o fatto sia quotidianamente rimossa, distrutta.

veltroni_dalemaxIn questo contesto, la sinistra italiana può essere accusata, alternativamente, di avere favorito l”ascesa economica e politica di Berlusconi, ma anche di essere ingenuamente e perennemente antiberlusconiana; di avere avviato il processo delle privatizzazioni, di aver portato l”Italia in Europa e di avere imposto l”Euro agli italiani; di avere introdotto tasse, ma anche di avere inventato la flessibilità; di essere stata moderata, ma anche intransigente e poco aperta al cambiamento. Insomma, Marco Biagi era di sinistra (qualcuno direbbe “comunista”), non diversamente dal terrorismo che lo ha ucciso e dai precari che oggi scendono in piazza.

Sono queste le aporie in cui la sinistra è intrappolata. Essa pretende ancora di parlare il complesso linguaggio della politica, ma è vittima delle semplificazioni. Nel frattempo, la Lega vince perché non teme di affermare il localismo come modello alternativo all”economia di mercato globalizzata. Cosicché la Destra italiana incorpora, in un”unica compagine politica, l”affermazione dell”ideologia capitalistica e la sua stessa negazione. Una maggioranza e la sua stessa opposizione.

Penso a tutte queste cose e non mi sento libera di dirle. Perché le mie parole finirebbero per suonare eccessivamente “ideologiche” o “nostalgiche”. Potrei persino trovarmi invischiata in una lezione di storia sulla caduta del muro di Berlino e sul fallimento storico del socialismo reale (perché è più facile combattere contro i mostri del passato che contro la rabbia di oggi). Non è neppure il caso di polemizzare su orari di lavoro e contratti a progetto, perché rischierei di scontrarmi con due posizioni ugualmente odiose. Quella di chi condanna una visione eccessivamente burocratica del lavoro (come se non ci fosse un abisso di senso tra precariato e flessibilità) e quella, ancora più miope e oltraggiosa, di chi dice con aria compassionevole: “almeno noi abbiamo fatto il sessantotto”.

Intanto, la mia fermata si avvicina. Guardo fuori dal finestrino, la terra corre là fuori e tra un attimo anch”io sarò libera.

Prima di scendere strizzo l”occhio alla ragazza, augurandole buon viaggio.

 

 

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