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Il lavoro come trasformazione

Il lavoro come trasformazione
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3 Luglio 2012 - 12.37


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scec 20120703di Ettore Macchieraldo* e Alberto Gallo**

Riteniamo che il lavoro sia un valore in sé per realizzare il pieno sviluppo della persona umana e l”effettiva partecipazione di tutti all”organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Il più grande impedimento a questa realizzazione è la mancanza di cultura del lavoro. Intendiamo che la suddivisione in mansioni e specializzazioni, perdendo la dimensione globale delle attività, rendono questa fondamentale condizione umana come degradante, alienante. Ovvero il frutto del lavoro di ciascuno di noi, ma anche il processo per realizzarlo, ci viene sottratto.

Questo impedisce di poter realizzare il principio della nostra Costituzione. Riferendoci al lavoro, non ci limitiamo a quello salariato, bensì a tutte le modalità per realizzarlo, comprese quelle del volontariato e del lavoro domestico. In questa fase della civiltà si fatica a distinguerle, proprio per la trasformazione in merce di qualunque attività umana.

Dagli anni ”70 è cresciuto un rifiuto individuale del lavoro alienante che ha prodotto le scelte verso forme di realizzazione personale più autonome, apparentemente slegate dal modello produttivo e di gestione pubblica del fordismo (ovvero di quella fase dello sviluppo industriale caratterizzato dalla grande fabbrica e dallo Stato come erogatore di servizi).

Molti non si sono resi conto che questo si accompagnava a dei cambiamenti strutturali del sistema che si stava trasformando, anche grazie alle innovazioni tecnologiche.

Nel nostro contesto ciò ha aumentato la quota di lavoro della piccola impresa che, però, dagli albori della società industriale, ha caratterizzato il sistema italiano. Si è realizzata così una modifica reale e, fino ad ora, poco percepita dello status giuridico della maggior parte dei lavoratori italiani. Ovvero i principi costituzionali e lo Statuto dei lavoratori sono pressoché inesigibili da tutto il settore dei dipendenti della piccola impresa, dal lavoro autonomo, dalle esternalizzazioni del privato e del pubblico. È un fenomeno che trascende gli apparati legislativi che lo hanno normato (Legge Treu e Biagi) e che, per molti, hanno significato l”anticipazione della perdita di diritti generalizzata. E infatti ha generato una sempre maggiore quota di lavoro nero.

Il nostro problema, come cittadini e lavoratori, e quello di come ridefinire un contesto di diritti universali partendo da questa trasformazione delle forme di lavoro, e dalle sfide che le crisi in corso ci pongono.

Non vediamo altra via che prendere in mano le fasi del processo produttivo e legarlo a doppio filo con il riconoscimento delle forme non salariate del lavoro (volontariato e domestico).

Quando alcuni autori scrivono e descrivono la conversione ecologica o la decrescita che vorrebbero si riferiscono proprio a questo.

Esistono già da tempo delle minoranze che si sono poste questi problemi. Le possiamo catalogare nel commercio equo, nelle reti dei gruppi d”acquisto solidale, nell”economia solidale (parte del terzo settore).

Nacquero sull”onda di quella scelta compiuta da molti individui nei paesi cosiddetti avanzati che più sopra ho cercato di definire. Nacquero per porre rimedio alle ingiustizie che i mercati internazionali causano nella redistribuzione del lavoro e della ricchezza. Il principio è quello di partire da un giusto prezzo della merce del contadino del paese lontano, per costruire una rete indipendente e etica di distribuzione e commercio. A prescindere dalla minorità di tale pratica, dobbiamo riconoscere che il problema del giusto prezzo non è più solo del contadino guatemalteco, ma anche di quello nostrano, oltre che di tutte le forme di piccola produzione e offerta di servizi.

Anche il prezzo del kiwi che producono in Piemonte è definito dalle borse e la sua erogazione avviene dopo mesi in cui viene deciso il prezzo finale in base alle fluttuazioni di mercato. E che dire del mercato del grano, il cui prezzo è determinato dai futures contrattati a Chicago, da oscuri   personaggi che difficilmente sanno di agricoltura o meteorologia ad un anno di distanza (più simile alla chiromanzia, ad onor del vero). Questo eccesso di finanziarizzazione (virtualizzazione) dell”economia porta la piccola impresa agricola (ma il meccanismo è riscontrabile in molti altri settori) al paradosso di lavorare per perdere soldi, o comunque ridurre di molto il guadagno. A questo si aggiunge che, per adeguarsi alle normative sulla sicurezza, è stato necessario fare ricorso al credito, o assumersi il rischio di un controllo. I più scaltri hanno scelto questa seconda strada, mentre quelli che sono ricorsi alle banche sono oggi con le braghe calate.

L”accesso al credito dopo il 2008 è sempre meno facile. Perché si creino dei circuiti economici sarebbe necessario riattivarlo; però, se questo viene fatto in mancanza di una progettazione che definisca quanto, cosa e per chi produrre, sarebbe di nuovo cedere alle sirene della finanza e dell”indebitamento.

Quale può essere questo progetto che ridia dignità al lavoro?

Crediamo che sia un”alleanza tra il mutualismo, la piccola impresa e lo Stato. Per riprenderci in mano il processo e definire la sua sostenibilità dobbiamo ridurre la scala di distribuzione della maggior parte delle merci. Solo così sarà possibile controllarne prezzi, qualità e distribuzione. Per farlo bisogna che le esperienze del commercio equo escano dalla logica terzomondista, che i gas non siano più una culla del consumo di nicchia e che le cooperative sociali (come già fanno quelle che stanno gestendo i beni confiscati alla mafia) si pongano dei problemi di indirizzo politico delle proprie attività.

Non bisognerà limitarsi a fare che queste realtà si occupino di prodotti che vengono da lontano, ma devono svolgere un ruolo di promozione della piccola impresa del proprio territorio. Questa dovrà riconsiderare il mito del self made man, e scoprire una dimensione, magari meno redditizia in termini economici, ma socialmente più giusta, ed appagante.

In tutto questo lo Stato avrà un ruolo decisivo. In primo luogo perché percorrere questa strada è una scelta politica di cambio di sistema, quindi non possiamo non porci il problema dei decisori. In secondo perché avrà un ruolo fondamentale di indirizzo e di controllo di questi micro sistemi di attivazione di circuiti economici. E in terzo perché dovrà gestire nuovamente la questione della disoccupazione (in specie quella giovanile).

Chi è senza lavoro sa che gli unici canali oggi funzionali alla ricerca di posti di lavoro sono internet e in specifico le agenzie interinali (oltre alle amicizie e al familismo, che però, ai livelli più bassi possono sempre meno). Bisogna partire da questo sistema per riconvertirlo. E questo lo potrà fare solo lo stato, riprendendo in mano delle serie politiche del lavoro. Dovrà investire dei soldi per creare dell”occupazione da destinare a questo processo di conversione ecologica. Quindi non rifiuteremmo in toto la proposta di Gallino, specie dove propone la ristrutturazione degli edifici pubblici (scuole in primis) non tanto intendendolo come volano keynesiano, ma proprio come forme di investimento sul risparmio energetico.

In questo quadro non sottovalutiamo la funzione delle monete locali. In Italia non sono proponibili, ma un sistema come quello di Arcipelago Scec è coerente con le proposte che abbiamo formulato. Arcipelago Scec crea dei buoni sconto spendibili in un circuito di economia locale tra piccola imprese, servizi e distribuzione, e associato a questo strumento di transizione, propone progetti concretamente attuabili da una comunità finalmente riunita, su energia, trasporti, connettività, ed alimentazione/agricoltura. Il tutto arricchirebbe la già appetibile proposta di Gallino con elementi nuovi, supportandola con uno strumento che, pur non essendo moneta locale, ci ricorda una riflessione da fare sulla parola “moneta” e i significati che vi attribuiamo.

Questo aprirebbe una discussione che travalica i confini che ci siamo posti con questo articolo. Chiudiamo con una suggestione: la definizione di moneta che diede Aristotele, 2400 anni fa. Le sue 3 funzioni classiche sono valide ancora oggi, e dovrebbero essere: mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore. In pratica, la moneta deve fungere da misura del valore. E il valore da misurare, se riusciamo anche solo ad immaginarlo, potrebbe essere il volontariato stesso, nelle iniziative che già oggi, e più in futuro, contribuiscono ad arricchire questa società.

Si può immaginare un futuro in cui sia lo SCEC a misurare il valore del volontariato, come oggi, in pratica, misura la solidarietà, il dono, che i partecipanti al circuito si fanno vicendevolmente, con lo sconto in percentuale del 20% medio finora, pagato in SCEC.

Cosa importante, trattandosi di cambiar sistema: lo SCEC è accreditato agli aderenti, che in un meccanismo virtuoso si aiutano a vicenda.

Provate ad indovinare cosa accade in un mondo dove il denaro è invece emesso a debito?

Come dice il frontespizio SCEC…dal denaro, al donare. L”uovo di colombo? O il re, finalmente, è nudo?

 

* Membro dell”Ufficio Centrale di Alternativa – Alternativa Piemonte

** Membro di Biellese in Transizione CAT.

Articolo collegato:

Il secchio bucato del sistema finanziario


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