‘
di Alberto Asor Rosa – il manifesto
Ho letto con il consueto interesse ma anche con qualche stupore l”articolo («Ilva, i corni del dilemma», il manifesto, 31 luglio) di Rossana Rossanda, la quale commenta un mio articolo («Operai e padroni, una strana alleanza», il manifesto, 25 luglio) sulle questioni dell”Ilva di Taranto e molte altre connesse. Rossana ci ricorda che esiste la proprietà privata e che gli operai ne sono vittime, non complici.
Benissimo. Ma io, e altri, parlavamo di una cosa diversa. Ci torno su perché la considero non una delle problematiche fondamentali, ma la problematica fondamentale, con la quale avremo a che fare nel corso dei prossimi decenni.
Nel suo per ora inarrestabile processo di sviluppo, il grande capitale si è impadronito di quote e settori sempre più vasti del nostro essere qui su questa terra, nel corso del nostro breve (ma per ciascuno di noi, penso, abbastanza significativo) percorso vitale.
Ciò, a dir la verità , è vero fin dall”inizio del gigantesco ciclo: si potrebbe dire anzi che la modalità espansiva del capitale (industriale, ma per certi versi anche quello finanziario) non prevede limiti all”impossessamento di tutto ciò che nel mondo vivente e inanimato ne rappresenta alternativamente o un”occasione da afferrare o un ostacolo da rimuovere.
L”ambiente e il territorio, e conseguentemente la salute e le modalità di vita delle grandi masse di cittadini, ne costituiscono le vittime predestinate. Occorre fare esempi? Quando i bubboni scoppiano – e ciò accade per ora, occorre dirlo, in una maniera fin troppo episodica e casuale, ma per fortuna accade quasi sempre (sempre?) gli operai, per difendere il lavoro, che rappresenta ovviamente la condizione basilare della loro sopravvivenza, individuale e personale, ma anche (se volessimo usare espressioni più impegnative) del loro esistere e resistere come classe, si schierano dalla parte dei padroni, che sono contemporaneamente sfruttatori e inquinatori.
Fanno finta cioè di non vedere che i padroni sono inquinatori (anche se ne pagano un prezzo salatissimo: l”inquinamento miete le sue vittime prima in fabbrica che fuori), per consentire ai padroni di continuare a svolgere il loro ruolo di sfruttatori. Per loro, infatti, non c”è allo stato attuale delle cose un”altra possibilità : oggi il lavoro è sfruttamento e lo sfruttamento è lavoro.
Il preteso modello alternativo (molto preteso, s”intende) ce lo siamo giocato nei decenni scorsi. E per ora nessuno ha deciso seriamente di pensarne uno che, almeno problematicamente, almeno provvisoriamente, cominci a subentrare all”altro. Potrei anche aggiungere, a stringata giustificazione storica della mia analisi, che la classe operaia italiana è stata selvaggiamente respinta nel bunker della sua ultima resistenza – il lavoro! il lavoro! perché senza lavoro noi non ci siamo – dall”inesausta campagna di attacchi alla sua autonomia e alla sua significazione sociale, che dura pressoché ininterrottamente da trent”anni. Destituita – anche a sinistra, sì, anche a sinistra – della sua identità di «classe generale», è stata ridotta a «classe particolare», che lotta (giustamente, certo) per esserci ancora, ma per farlo smarrisce talvolta il filo che porta più esattamente al centro della matassa. Questa è la situazione: situazione di fatto, intendo, sulla quale c”è poco da discutere ma molto da riflettere.
‘