Con il sociologo torinese [b]Luciano Gallino[/b] riflettiamo sulla constatazione della segretaria Cgil [b]Susanna Camusso[/b] secondo la quale «nell’attuale quadro economico e sociale non è più sufficiente evocare lo sciopero generale come unica modalità in cui si determina il conflitto sul tema del lavoro». Su questa affermazione si è tornati a riflettere ieri a Roma durante la [b]presentazione del libro «Organizziamoci» (Editori Riuniti) che racconta alcune forme alternative di protesta[/b]: il «community organizing» teorizzato dal grande teorico americano [b]Saul Alinsky[/b], quello praticato oggi da sindacalisti come [b]Valery Alzaga[/b] nella sua forma di «labour organizing».
«È un’affermazione che cerca di rispondere ad una trasformazione epocale — risponde Gallino — La produzione è stata frammentata nelle catene globali del valore e questo ha indebolito il potere dei sindacati e dei lavoratori. [b]Un conto è quando uno sciopero interrompe la produzione in uno stabilimento. Un altro è quando quella stessa produzione è divisa in dieci stabilimenti in quindici paesi[/b]. In queste catene il peso del singolo anello produttivo o aziendale è molto diminuito ed è anche facilmente sostituibile. Se un’azienda in Thailandia non funziona, si passa in India».[right](il manifesto)[/right]
I sindacati hanno capito come contrastare questa strategia?Non mi pare si sia fatto abbastanza. Lo sciopero è storicamente nato per recare danno ad un’impresa. Si suppone che l’interruzione della produzione per un giorno o più sia un danno per il capitale. Con la gravissima crisi in cui sprofonda l’Europa, e il mondo intero, è paradossale con-sta-tare che questa astensione con-viene alle imprese che soffrono di un eccesso di capacità produttiva. Questa concomitanza ha ridotto il potere del lavoro. A ciò si aggiunge l’azione politica contro i sindacati che nel nostro paese reggono ancora in qualche modo, mentre in altri paesi le iscrizioni sono crollate. Ciò non toglie che i sindacati abbiano responsabilità non da poco nella loro difficolta a chiamare a raccolta i lavoratori.
Lo sciopero, tuttavia, non è affatto tramontato come forma di lotta. Basti pensare a quelli autorganizzati dai tranvieri a Genova o a Firenze contro la privatizzazione del trasporto pubblico. Che impatto hanno avuto, se ne hanno avuto uno, sulla Cgil?Quegli scioperi hanno avuto un obiettivo specifico e impor-tante: cercare di interrom-pere la folle corsa contro la privatizzazione, per modificare le politiche gestionali ma soprattutto, come è accaduto anche a Torino, per fare cassa. Genova su questo tema ha richiamato una notevole attenzione, anche se non mi pare abbia influito sul governo il cui chiodo fisso è privatizzare. Contrapporsi oggi alle privatizzazioni signi-fica battersi contro una forma di lotta politica che la classe dirigente del nostro paese conduce contro i beni pubblici, i beni comuni e la possibilità di partecipare in qualche modo alle decisioni politiche. In queste lotte, non mi pare che la Cgil abbia battuto con forza il pugno sul tavolo.
Com’è cambiato il ruolo della Cgil dalla manifestazione al Circo Massimo nel 2002 alla quale parteciparono 3 milioni di persone?È cambiato molto. Bisogna dire che il 2002 era l’anno in cui si stava tamponando lo scoppio della bolla delle dot com , le imprese internet con miliardi in borsa. Il processo che oggi abbiamo sotto gli occhi era già avanzato. Allora però c’era ancora la domanda aggregata e ciò permetteva una libertà di manovra che oggi non c’è più. Anche per questo lo sciopero diventa un’arma spuntata.
Nel frattempo sembra essere definitivamente saltato il classico legame tra partito e sindacato, tra Cgil e Pd che sembrava essere assicurato ancora da Epifani e oggi sembra escluso con Renzi. Un rapporto che già ai tempi di Cofferati aveva conosciuto tensioni, in particolare con la «sinistra» Pd…Già ai tempi di Cofferati c’erano problemi, figuriamoci adesso che il rapporto è evanescente, visto che per quello che si sa, le proposte economiche e sul lavoro di Renzi vanno in direzione di un ulteriore allontamento. Quel po’ di sinistra che esisteva nel Pd mi pare che dopo gli ultimi cambiamenti si sia ridotta ulteriormente. Il sindacato, parlo soprattutto della Cgil, ha bisogno di un partito a cui appoggiarsi. Se non c’è un riferimento culturale o politico, si ritrova solo. Con la segreteria di Renzi quel po’ di sostegno che nonostante tutto c’era nel Pd scenderà ulteriormente. Mi piacerebbe essere smentito.
Cosa pensa di forme di lotta come quelle contro le grandi opere o per i beni comuni?Servono, figuriamoci. In più abbiamo la necessità di pensare a migliaia di piccole opere per ridare un certo pregio alle cose che sono degenerate negli ultimi anni. Però il loro impatto sulla dimensione strutturale del capitalismo non c’è o è molto pallida. Queste lotte hanno un’utilità per certi scopi specifici, come si è visto con il referendum sull’acqua. Anche se poi i comuni se ne sono infischiati. Lo si è visto nello sciopero dei trasporti a Genova dove il discorso sui beni comuni ha avuto un’incidenza. Bisogna però chiedersi perchè i politici insistono per dare sempre più spazio alla vulgata neoliberale. Ci sono eccezioni, ma la maggioranza dei comuni è dominata dall’ideologia neoliberale che domina nel governo e nei partiti politici, nessuno escluso, o quasi.
Dunque, insieme alla ricerca di forme di proteste alternative bisogna partire da una battaglia culturale che contrasti l’ideologia dominante?È così. Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la democrazia, dall’altro il capitalismo. È possibile avere l’una senza l’altro? È possibile un qualche tipo di accettabile conciliazione tra i due come nel trentennio dopo la seconda guerra mondiale? Lo sarà solo se alcuni milioni di persone si sveglieranno, insieme ai partiti politici. Oggi, probabilmente, una qualche soluzione è possibile. Altri-menti andremo verso un capi-talismo senza democrazia o con forme davvero povere di democrazia.
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