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Più precari, meno produttivi.

La liberalizzazione dei contratti a termine rischia di produrre effetti deleteri per l’economia italiana e il lavoro in particolare. La Renzinomics tra errori e illusioni

Più precari, meno produttivi.
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2 Aprile 2014 - 18.44


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di Paolo Pini.

Tra le numerose critiche che abbiamo sollevato al primo decreto Lavoro dell’era Renzi-Poletti (“Diamo credito a Renzi?” e “Errori e illusioni della Renzinomics“),
vogliamo qui ritornare su una che ci sembra di particolare rilevanza
per i deleteri effetti che la liberalizzazione dei contratti a termine
rischia di produrre nel medio-lungo periodo per l’economia italiana ed
il lavoro in particolare.

Si tratta degli effetti sulla
produttività del lavoro. È talmente noto il declino della produttività
italiana che sembra quasi inutile ritornarvi, ma siamo costretti a farlo
proprio a causa di questo “malefico” decreto.

Guardiamo i grafici che seguono, tratti dal recente volume di Comito, Paci e Travaglini (Un paese in bilico, Ediesse 2014, pp.55-56).

Il
primo grafico dipinge in modo impietoso la dinamica della produttività
del lavoro italiana negli ultimi trent’anni. Da metà degli anni novanta
abbiamo ridotto la crescita della produttività di quattro volte,
dall’1,65% allo 0,39%. Un tracollo ben noto per tutti coloro che
studiano di produttività, competitività e salari.

Nello
stesso periodo, il tasso di accumulazione del capitale, fisico ed
immateriale, ovvero il suo tasso di crescita, si è ridotto di ben otto
volte, come la seconda figura che segue mostra. Siamo passati da una
crescita poco sotto il 4%, ad un misero 0,5%, con una prima fase al 2,6%
annuo per poi crollare dagli anni novanta all’1,5% annuo, prima che la
crisi ci portasse al disastro dello 0,5.

L’altra
faccia della medaglia di queste dinamiche è ben raccontata dal terzo
grafico, che rappresenta il tasso di crescita dell’intensità di
capitale, ovvero del rapporto capitale/lavoro. Nei trent’anni lo abbiamo
dimezzato da una media del 2,1% annuo sino a metà anni novanta, ad un
misero 0,96% dei giorni nostri.

Queste
dinamiche negative della produttività del lavoro, degli investimenti
realizzati dalle imprese, e del rapporto capitale/lavoro, sono poi
risultati in un annullamento della crescita della produttività totale
dei fattori, il fattore di avanzamento tecnologico per eccellenza, che è
passata da un modesto 1% annuo nella prima fase, ad un pressoché 0%
nella seconda fase, con un tracollo negativo negli anni della crisi,
come ci racconta il quarto grafico.

Cosa
è avvenuto di così eclatante a cavallo degli anni novanta e
successivamente sino ai giorni nostri da indurre le imprese a smettere
di investire sia sulla qualità del lavoro che sull’avanzamento
tecnologico? Tra le tante cose avvenute, due sono quelle per noi più
rilevanti. La moderazione salariale e la flessibilità del mercato del
lavoro.

Nel 1993 è stato firmato dalle parti sociali ed il
governo un accordo importante che ha riformato la contrattazione
definendo i due livelli contrattuali, quello nazionale e quello
aziendale o decentrato. Mentre con il primo si doveva assicurare una
dinamica salariale compatibile con la riduzione dell’inflazione
(inflazione programmata), con il secondo si sarebbe dovuto avviare un
percorso virtuoso e partecipativo con i lavoratori per far crescere
assieme produttività e salari reali, innovando in tecnologie,
organizzazione del lavoro e prodotti innovativi. Il governo avrebbe
dovuto sostenere questo cambiamento con politiche macroeconomiche e
microeconomiche, politiche per l’innovazione e politiche industriali.

Sappiamo
poi come la storia si è risolta . La moderazione salariale è stata
realizzata, l’inflazione è stata ridotta, l’Italia è rientrata nel parametro tasso
d’inflazione previsto da Maastricht e ciò ci ha permesso di entrare a
far parte dell’Eurozona, anche se con uno “spiacevole” effetto
collaterale, ovvero una perdita di 10 punti percentuali della quota del
lavoro sul reddito complessivo, a vantaggio di profitti e rendite
(soprattutto queste).

Circa il percorso virtuoso e partecipativo
che avrebbe dovuto far crescere produttività e salari reali con
l’innovazione tecnologica ed organizzativa, neppure l’ombra. Anzi, le
imprese hanno smesso di investire sia nell’organizzazione del lavoro (le
“buone pratiche” queste sconosciute!) sia nelle tecnologie, ed anche
gli investimenti si son ridotti).

Anzi, come abbiamo spiegato nel
nostro lavoro Lavoro, contrattazione, Europa (Ediesse, 2013), ciò che è
avvenuto dagli anni novanta, dalle Legge Treu “iniziazione alle
liberalizzazioni” del 1997 per passare a quella Biagi “supermarket dei
contratti” del 2003 per finire con la contraddittoria Legge Fornero
“buona e cattiva flessibilità” del 2012, è stata una progressiva
deregolamentazione per favorire la flessibilizzazione del mercato del
lavoro che ha avuto proprio l’obiettivo di creare con interventi al
margine un mercato del lavoro duale, quello precario, da affiancare a
quello in cui le tutele sarebbero state poi ridotte in tempi successivi,
come in effetti è avvenuto (ad esempio con l’introduzione dell’art.8,
legge 148/2011, e con la quasi eliminazione dell’art.18 dello Statuto
dei lavoratori nel 2012)[1].

Indice di protezione all’impiego, 1990-2012 (Oecd Statistics)

Questa
“deriva” ha indotto ancor più le imprese ad affidarsi a lavoro
precario, poco retribuito, e poco produttivo, sostituendolo a lavoro
stabile, invece di fare innovazione nei luoghi di lavoro, di investire
risorse in ricerca, in formazione, in capitale umano, supportate da uno
Stato che da un lato deregolamentava il lavoro e dall’altro evitava di
assumersi qualsiasi responsabilità di politica industriale per
modificare il nostro apparato produttivo verso settori a più elevato
contenuto tecnologico e di sostenibilità economica ed ambientale. Non
solo, ma ha anche contribuito a spiazzare le imprese che avrebbero
potuto o voluto muoversi su un sentiero innovativo, in virtù della
concorrenza a basso tasso di tutele del lavoro praticate da quelle che
grazie alla flessibilità del lavoro potevano sopravvivere sul mercato.

La
“deriva della flessibilizzazione e della moderazione salariale” ci ha
così condotto nella “trappola della zero produttività” in cui ci
troviamo ora, negli anni dell’Euro

Crescita annua della produttività del lavoro per ora lavorata, 2000-2012 (Oecd Statistics)

Purtroppo,
sembra che chi ci governa non impari nulla. Cambiano le maggioranze,
cambiano i Primi Ministri, cambiano i Ministri del Lavoro, ma l’unica
ricetta a cui questi riescono a pensare è la “agognata” flessibilità del
lavoro. Ora è il turno del duo Renzi-Poletti, che folgorati sulla via
di Damasco, ci raccontano la favola della “precarietà espansiva”, e ci
vendono la loro ricetta da “piazzisti” per farci credere che con ancora
un poco più di flessibilità e semplificazione delle norme le imprese
ricominceranno ad assumere, riconquisteranno competitività, e faranno
magari crescere anche la produttività perché i lavoratori avranno più
certezze di essere stabilizzati, così ci ha narrato Giuliano Poletti
[2].

Il rischio è invece che dopo il declino, questi signori ci
conducano direttamente dentro il baratro. Siamo alla soglia decennale di
“zero” crescita della produttività, un altro passo ed inauguriamo la
fase “renzian-polettiana” di crescita “sotto zero” della produttività.
La fase della glaciazione, la dovremo chiamare.

Post scriptum:
Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ieri al convegno
Confindustria a Bari su “Il capitale sociale: la forza del paese” ha
esternato: “Il miglioramento della competitività delle imprese passa in
misura importante attraverso la valorizzazione e lo sviluppo del
capitale umano di cui dispongono, anche in collaborazione con il sistema
di istruzione e di ricerca. A questo riguardo, studi della Banca
d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più stabili possano stimolare
l’accumulazione di capitale umano, incentivando i lavoratori ad
acquisire competenze specifiche all’attività dell’impresa. Si
rafforzerebbero l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima
istanza, la dinamica della produttività
.” (corsivo nostro)
Lo
avranno ascoltato in sala i numerosissimi presenti, oppure il vento
della flessibilità del lavoro ha portato via le sue parole prima che
giungessero alle orecchie degli interessati?

NOTE

[1]
L’Italia è per l’Ocse il paese che ha maggiormente flessibilizzato il
mercato del lavoro tra i paesi industriali, riducendo le tutele senza
conseguire alcun incremento di produttività, anzi accompagnando la
riduzione di tutele a dinamiche della produttività sempre peggiori
(http://keynesblog.com/2013/03/20/produttivita-e-regimi-di-protezione-del-lavoro/).

[2]
“È chiaro che, se un periodo di 36 mesi ci sono 6 persone che si danno
il cambio, credo sia meglio avere la possibilità che su quei 36 mesi ci
sia la proroga del contratto alla stessa persona. Alla fine dei 36 mesi è
più ragionevole immaginare che venga assunta una persona che è stata lì
36 mesi, piuttosto che una, a sorte, su quelle sei che ci sono state
prima. Come si possa sostenere che questo aumenta la precarietà, secondo
me è in contrasto coi numeri” (Giuliano Poletti, Rainews, 27 marzo
2014).

Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/piu-precari-meno-produttivi-cosi-renzi-affondera-il-paese/.

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