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Un”analisi della situazione russa alla vigilia delle manifestazioni che sfidano Putin.
di Giulietto Chiesa – «La Voce delle Voci», febbraio 2012.
Si andrà a un confronto duro in Russia, tra Vladimir Putin e l”opposizione? Le ultime notizie dicono di sì. Ma già questa domanda dice che qualche cosa di serio sta avvenendo, perché fino allo scorso dicembre di opposizione, in Russia, nessuno parlava. Non se ne parlava perché non c”era.
Per essere più precisi, una c”era: quella del Partito Comunista di Ghennadij Zjuganov. Ma era un”opposizione oltremodo leale. Del tipo di quella che il Pd ha fatto a Berlusconi, per intendersi. Con una opposizione così si vive cento anni, anche se in solitudine.
Invece adesso c”è. Ma Putin è un uomo fortunato.
Quelli che sono scesi in piazza a gennaio erano tanti, sorprendentemente tanti. Il che consente di dire che una opposizione sociale si è formata e si vede. Ma erano così diversi, così distanti gli uni dagli altri, che l”idea stessa di un fronte compatto, che si contrapponga a Putin nelle elezioni presidenziali di marzo, che gli daranno il potere per altri dodici anni almeno, è troppo peregrina per poter essere creduta.
Tutto a posto, tutto in ordine, dunque? Nemmeno questo si può dire. Perché le elezioni parlamentari hanno comunque aperto una crepa di fiducia nel paese.
Una larga insoddisfazione era presente, e crescente, da tempo. I “ritocchi” ai risultati elettorali sono stati troppo vistosi per non essere notati da vasti settori della pubblica opinione. Che la mappa della politica russa fosse ormai superata dalle circostanze sul terreno, Putin avrebbe dovuto capirlo. Lui o i suoi consiglieri.
Invece non fu capito, e la frittata è stata fatta, vistosamente male.
Lasciamo stare le geremiadi recitate dalle democrazie occidentali, che hanno sanzionato l”invalidità del voto. La questione è che non si può governare la Russia quando nemmeno una tacita convenzione di rispetto della verosimiglianza dei rapporti di forza viene mantenuta. Putin l”ha capito, entro certi limiti. Lo prova il fatto che ha telefonato e poi si è incontrato con il suo ex ministro delle finanze – che aveva licenziato pochi mesi prima – il quale, a sua volta, aveva arringato le folle nelle piazze di Mosca. Per dirgli che cosa? Che era disposto a fare qualche concessione. Quali concessioni è, per il momento, chiaro: non si torna indietro e non si rifanno le elezioni; facciamo una riforma del sistema elettorale abbassando la soglia dello sbarramento per poter entrare nella Duma; torniamo all”elezione diretta e popolare dei governatori delle regioni e delle repubbliche; introduciamo un certo controllo popolare sulla Commissione Elettorale Centrale.
Il tutto in cambio di una pacificazione fino ai primi giorni di marzo, cioè fino alle presidenziali, cioè fino alla riconferma di Putin al potere per i prossimi due mandati.
Aleksej Kudrin veniva, al tempo stesso, consacrato come un nuovo oppositore leale, rappresentante della “piazza”, alla quale, dunque, veniva riconosciuto il diritto all”esistenza. A ben vedere questo è stato l”unico, vero, fatto nuovo. Le manifestazioni non sono state represse, nemmeno ostacolate.
Tutto si è svolto come se i dimostranti si fossero riuniti a Trafalgar Square, tutto molto “polite”.
Il problema è che Aleksej Kudrin non rappresenta quella folla. Che sarà pure divisa in mille rivoli reciprocamente ostili, ma esiste e non può essere disinnescata. Infatti l”ex ministro delle finanze, dopo tre incontri di fila alla Casa Bianca, ha dovuto prendere atto che i margini di manovra concessigli erano troppo stretti e ha annunciato la continuazione dell”escalation di manifestazioni.
Una ci sarà il 4 febbraio, la seconda l”11 marzo. Ma anche questa decisione è un fatto nuovo e inedito. I dimostranti, e chi cerca di guidarli, non annunciano “showdown” drammatici: annunciano una pressione sistematica e, sperano, crescente.
Lo dimostra il fatto che la seconda manifestazione programmata avverrà a buoi usciti dalla stalla, cioé quando la elezione presidenziale si sarà già svolta e Putin sarà di nuovo presidente della Russia (cosa di cui nessuno dubita), perché tutti sanno che così sarà , di riffa o di raffa.
Questa è la fotografia di gennaio di uno strano braccio di ferro, che non si vedeva in Russia dai tempi delle enormi manifestazioni pro Eltsin che un Michail Gorbaciov ormai marginalizzato era costretto ad autorizzare nelle piazze di Mosca.
Solo che i tempi non sono più quelli e i rapporti di forza neppure. Infatti Vladimir Vladimirovic ha fatto la sua mossa, per rendere più chiari i contorni del problema e per avvertire fin dove lui è disposto ad andare.
Il 9 gennaio le Izvestija pubblicano un articolo a sua firma, che esprime una serie di assai intriganti valutazioni strategiche, interne e internazionali.
Già espresse con il linguaggio e l”atteggiamento di chi è certo di essere alla guida e sa di poterci restare. A rimarcare il tutto, con un tocco di “grandeur” perfino esagerata, il titolo dell”articolo, sicuramente farina del sacco di un nuovo ghost writer: “La Russia raccoglie le sue forze”.
Chi ha la memoria lunga, o i topi d”archivio, è andato a vedere chi fu l”autore di un analogo precedente. E” venuto fuori il nome, sconosciuto ai più, di un oscuro ministro degli esteri zarista che, nel 1856, scrisse un articolo con lo stesso titolo, per avvertire i russi dell”epoca e le cancellerie occidentali di due correzioni importanti dell”agenda futura del Cremlino: la prima indicava un ripiegamento interno della Russia per, appunto, “raccogliere le sue forze” in vista di una fase turbolenta di tensioni interne, e di una crisi internazionale di tali dimensioni da indurla a un prudente ritiro dalle dispute di potere geopolitico planetario.
E” questo che pensa Putin? Forse.
Vuol dire che si rende conto che le tensioni sociali e politiche richiederanno riforme, ma che interpreta queste riforme come molto graduali, molto prudenti? Nell”articolo Putin fa capire la sua convinzione che la mano sapiente di Washington non sia estranea alla protesta contro di lui e annuncia che si preparerà a rintuzzarla. Nello stesso tempo sembra voler lanciare un messaggio a Barack Obama, o al suo successore repubblicano (sempre meno probabile): se attaccherete l”Iran, noi non muoveremo una foglia. Non sembra una interpretazione forzata. Il testo suona proprio così: «In certe aree del pianeta noi udiamo le dichiarazioni di determinate forze aggressivamente destabilizzanti, che, in sostanza, si propongono di minacciare la sicurezza di tutti i popoli del mondo». Chi siano queste forze non viene detto esplicitamente, ma si capisce dalla frase successiva: «obiettivamente si tratta di quegli stati che stanno cercando di esportare democrazia con l”uso di mezzi militari coercitivi». Come dire, a Washington: «Fate pure come vi pare, ma noi vi teniamo d”occhio. Non  ficcate il naso nei nostri affari interni, perché non ve lo permetteremo; per il resto, sappiate che stiamo seduti sulla riva del fiume, come diceva Mao Tse-tung, ad aspettare che passi il vostro cadavere».
Alla gente multivariegata che scenderà nelle vie di Mosca e delle altre città russe, il messaggio che arriva è piuttosto brutale e semplice. I limiti della vostra protesta e del vostro desiderio di partecipazione sono ancora parzialmente modificabili, ma verranno fissati presto e non potranno uscire da quei margini. Se ci proverete, i tempi duri verranno e mi costringeranno a una risposta che non sarà così morbida come quella che ho finora deciso di fare. Puo” essere una proposta di pace o il suo contrario. Dipenderà da quanti scenderanno in piazza il 4 febbraio.
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