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Sul tetto delle macerie

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12 Gennaio 2009 - 18.37


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guerraffare-megadi Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine» febbraio 2008

Era l”estate del 1767 sulla riviera ligure quando il giovanissimo nobile Cosimo, ribellandosi a un futile litigio familiare, decise di inerpicarsi su un albero. Non vi scese mai più, preferendo errare tra le strade disegnate dai rami delle foreste di allora che impedirsi di vedere il mondo facendosene inghiottire dal suolo. Probabilmente non hanno letto il Barone rampante di Calvino i tre signori inglesi di mezza età saliti lo scorso dicembre sul tetto dell”Argentum House, la filiale di Bristol della Raytheon, una delle principali multinazionali della guerra. Però vedevano altrettanto lontano, a cominciare dal massacro che sotto ai loro piedi si stava pianificando su Gaza.

Uomini ruvidi, semplici, con un inglese pesantemente imbastardito dagli influssi gaelici dell”est. Al pari di Cosimo non si sono limitati a una fuga verso l”alto. Su quel tetto spiovente si sono accampati, con tanto di tende, e lo hanno fatto per moto di pura collera, senza calcoli, e senza curarsi di aver scelto il periodo più freddo e piovoso dell”anno, ossia dal nove dicembre fino a Capodanno. E come Cosimo il loro non è stato un isolamento dal mondo. La gente andava sempre più numerosa a trovarli, portava viveri, chiacchierava, a volte anche li filmava per poi mettere in rete la buffa curiosità dei contenuti e delle posture delle conversazioni tra il tetto e il suolo.
baronerampanteI vertici britannici della Raytheon hanno preferito sostanzialmente ignorarli e lasciar fare, onde evitare di creare il caso e rendere pubblico il contenuto delle loro motivazioni. Ci sono largamente riusciti, perché su di loro, e sulle manifestazioni spontanee createsi nella strada circostante a scadenza settimanale, non è finora apparsa traccia finora sulla carta stampata. La loro richiesta era che la Raytheon lasciasse il Bristol Business Park, per la semplice ragione, esplicata in una breve lettera recapitata ai piani inferiori, che l”azienda “viola il diritto internazionale”. Spiegazione, strillata da uno degli inquilini del tetto: “Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non hanno maggior diritto a invadere l”Iraq o l”Afganistan di quello che aveva la Germania nazista nell”invadere la Polonia o la Francia”.
Per fare le guerre si invoca sempre il divino, e anche “Raytheon” lo fa, derivando il proprio etimo dal greco “luce dagli dei”. Il nome fu adottato nel 1959, ma la compagnia esisteva già dal 1922, conoscendo il primo grande boom con la seconda guerra mondiale, quando divenne il principale produttore di radar per la marina americana. Oggi è tra i primi cinque produttori di armi al mondo e tra le trecento multinazionali più ricche, con settantaduemila dipendenti, clienti nei cinque continenti, un bilancio calcolato nel 2007 a oltre ventuno miliardi di dollari e un profitto netto di due miliardi e seicento milioni, maturati per il novanta per cento dalle forniture militari.
Dall”epoca quasi preistorica dei primi radar la Raytheon ne ha fatta dunque di strada, moltiplicando le tecnologie, allargando la clientela all”intero spettro delle ramificazioni militari e di intelligence, nonché diversificando l”offerta. Le forniture comprendono oggi i cosiddetti “sistemi di difesa integrata”, realizzati nella casa madre nel Massachusetts, che vanno dalle installazioni per la sicurezza dei locali pubblici alle più letali strutture di difesa missilistica, ovvero gli “scudi” che l”amministrazione Bush ha cercato di installare in Europa orientale, compromettendo i rapporti col Cremlino e avviando una nuova corsa bilaterale agli armamenti. Nelle altre filiali americane, dal Texas alla California alla Virginia, ci sono poi i quartier generali di quelli che la multinazionale chiama i “sistemi di intelligence e informazione”, le “soluzioni di rete”, i “sistemi aerospaziali” e i “servizi tecnici”,  ovvero l”intera tecnologia del controllo multimediale, della comunicazione satellitare e addirittura della fantasmagorica “gestione atmosferica”.
Fin qui il lessico è quello delle strutture di “difesa” e di “informazione”, benché funzionali all”attività bellica. Ma la vera chicca odierna della Raytheon, che ne assicura una grossa fetta delle più recenti fortune e la leadership mondiale del settore, non si presta ad alcun tipo di equivoco linguistico. Sono le industrie, dislocate a Tucson, in Arizona, che producono armi di distruzione di massa, vendute, oltre che al Pentagono, a oltre quaranta paesi alleati degli Stati Uniti.
raytheon-9-derry-wallTra loro spiccano i missili a lunga gittata (fino a duemilacinquecento chilometri), i famigerati Tomahawk, meglio noti come Cruise, usati per la prima volta nella guerra in Iraq nel 1991, e poi ancora in Sudan e in Bosnia, nonchè ai nostri giorni in Afganistan e nello stesso Iraq. Poi ci sono i “classici”, quali i missili terra-aria Patriot, quelli aria-terra a raggi infrarossi Maverick. E ancora, tra i più recenti spiccano i cosiddetti “bunker-buster”, ordigni da tre tonnellate capaci di sfondare il terreno e gli eventuali rifugi sotterranei per centinaia di metri. Possono essere equipaggiati con testata convenzionale o anche nucleare.
Non esistono naturalmente stime sulla quantità di vittime prodotta globalmente dalla società del Massachusetts, ma è evidente che si tratta di parecchi milioni e che son cifre che richiederebbero un aggiornamento quotidiano. Un aggiornamento che poi si muove parallelo a quello dei profitti aziendali. Per restare solo alle ultimissime settimane, la Raytheon ha ricevuto l”ennesima committenza dal Pentagono da tredici miliardi di dollari. Un”altra, da tre miliardi e mezzo, è giunta dagli Emirati Arabi. Un”altra ancora, pochi mesi prima dall”attacco su Gaza, è stata consegnata al governo americano per essere girata a Israele. La fornitura, da quasi un miliardo e mezzo di dollari, comprendeva bunker-buster e altre migliaia di missili. E con essa, secondo funzionari della Casa Bianca, è stato consegnato a Tel Aviv anche il via libera politico all”offensiva.
Ma a suscitare sdegno contro la multinazionale non è solo il suo mestiere di produrre masse di morti. Vibranti proteste si levano periodicamente anche per l”impatto ambientale delle sue industrie, nonché per le condizioni lavorative dei suoi operai, solo l”otto per cento dei quali è coperto da contratti collettivi. Inoltre, non ultimo, la società persegue i suoi obiettivi attraverso un rapporto assiduo con l”illegalità. Sono decine i patteggiamenti giudiziari che hanno interessato la Raytheon negli ultimi vent”anni. Le irregolarità comprendono sovraprezzi immotivati, forniture difettose, frodi contabili, omissioni di informazione finanziaria al pubblico borsistico, acquisizioni di comunicazioni segrete di bilancio e di pianificazione dell”aviazione americana, vendite non autorizzate di informazioni militari a paesi come il Pakistan. I bilanci aziendali iscrivono oramai stabilmente, sul netto dei profitti, le cifre milionarie destinate alle multe. I conti, come abbiamo visto, tornano peraltro benissimo e, nonostante l”ostinazione di alcuni magistrati, l”illecito risulta componente attiva della strategia aziendale.
La più grave delle illegalità è peraltro quella “di Stato”. Le funzioni svolte dalla Raytheon non sono di fatto solo quelle produttive. Un funzionario del Congresso ha rivelato al Washington Post, dietro garanzia dell”anonimato, che l”attività dell”azienda “non è distinguibile” da quella di uno dei suoi clienti, ovvero la Cia. Capita perfino che quando i parlamentari chiamano in audizione ufficiale la Raytheon, a presentarsi appaia a parlare un uomo dell”intelligence. In altre parole, l”interesse dei servizi segreti americani coincide istituzionalmente con quello dei produttori di armi. Ed è una corrispondenza che fa impressione, considerando anche i rialzi azionari ottenuti in tempi di tracollo dai fornitori bellici di Israele nelle settimane che hanno preceduto il conflitto a Gaza.
Contro una siffatta potenza militare tre uomini sul tetto di una succursale europea naturalmente non possono granché. E” un atto poco più che “simbolico”. Ma come sanno gli antropologi, e come sperimentò anche il barone Cosimo, i simboli non sono rappresentazioni della realtà. Sono la realtà. Quella di una porzione crescente delle genti d”Europa che è talmente arrabbiata da arrivare ad arrampicarsi sopra gli edifici per poterlo urlare. C”è anche chi passa all”azione, materiale, distruttiva. Accadde due anni e mezzo fa nel Nord dell”Irlanda, quando nove attivisti irruppero in un”altra filiale della Raytheon saccheggiando, tra l”altro, alcuni computer. Sono stati di recente scagionati da ogni accusa, perché la magistratura ha loro riconosciuto il movente scriminante del tentativo di fermare un ben più grave reato, ovvero il massacro allora perpetrato da Israele nel bombardare il Libano grazie alle forniture deliberate da quegli uffici.

acisilin@yahoo.it

 

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