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di Giovanni Badoer
L”Afghanistan si trova nel presente, miserevole stato perché in centro Asia deve giocare, fatte le debite differenze, lo stesso ruolo che Israele gioca in Medio oriente, ossia quello di fabbrica e fucina della instabilità regionale. Così come Israele ha consentito direttamente e indirettamente all”industria petrolifera e, soprattutto, all”industria della guerra statunitensi di prosperare per decenni – oltre all”ovvio ruolo filo-occidentale svolto ai tempi della Guerra fredda – così l”Afghanistan consente, e dovrà consentire ancor di più in futuro, agli Usa di mantenere attiva la sovversione islamica a sud della Russia e a ovest della Cina, e a mantenere irrisolvibile la questione indo-pakistana. Il tutto dando all”industria della guerra statunitense la possibilità di prosperare sia nel nuovo ruolo di fornitrice di armi all”India – ormai primo importatore mondiale e, dunque, cliente assai migliore del Pakistan, sempre più orientato verso copruduzioni e forniture dalla Cina – sia avendo basi militari permanenti, che sono una costante spada di Damocle tanto per la Russia quanto per l”Iran, e che hanno costi logistici astronomici. Costi che si traducono in utili altrettanto astronomici per i contractor privati che si spartiscono i mega appalti LOGCAP, attraverso i quali passa l”intera filiera della logistica militare statunitense.
A questo scopo si è proceduto, nel 2002, alla tattica vecchia come il mondo, e applicata sistematicamente da ogni potenza coloniale o neocoloniale, del divide et impera. Si è cioè dato il potere a una minoranza (i tagiki, e in particolar modo i panjshiri), e la si è imposta alla maggioranza (o maggior minoranza…) pashtun. All”atto pratico, i panjshiri – attualmente guidati dal primo vicepresidente e feldmaresciallo Mohammed Fahim – lasciano il ruolo di capo dello stato a un pashtun, come da tradizione, ma solo perché questo pashtun, Hamid Karzai, non fa gli interessi dei pashtun, ma solo dei suoi clientes, allo stesso tempo lasciando che i panjshiri occupino una quota spropositata delle posizioni di potere.
In queste condizioni di dominio dispotico e violento di una minoranza su una maggioranza, non ci si deve stupire se lo stato è debole, corrotto, instabile. E non ci si deve stupire se i capi pashtun del sud e dell”est del paese, a fronte della non-partecipazione al voto della popolazione pashtun, debbano ricorrere massicciamente ai brogli per cercare di arginare la sistematica sottorappresentazione della loro parte nel parlamento afghano.
I talebani quindi, agli occhi di molti pashtun, non sono che patrioti che lottano per recuperare le quote di potere arbitrariamente inghiottite dai panjshiri e, in prospettiva, per vendicarsi di loro e di coloro che considerano traditori, i “karzaiti”, una volta ottenuta la vittoria. La vulgata dei “bene informati” vuole che i talebani siano una entità non ben definibile, composta da una pletora di gruppi e gruppuscoli sostanzialmente anarcoidi. E quando lo dicono, questi “bene informati”, sembrano alludere a chissà quali informazioni riservate. In realtà , i talebani – che si autodefiniscono “Emirato islamico dell”Afghanistan” – non devono essere poi così evanescenti, se hanno un regolare servizio di informazioni, una rete di governo parallela, e una proto rappresentanza diplomatica in Qatar, oltre alle ben note capacità militari. E gli Usa, di certo, sapevano bene chi invitare al tavolo negoziale qatariota, e di quali specifici detenuti di Guatanamo offrire il rilascio in cambio dell”avvio delle trattative, peraltro già arenate. Dipingere i talebani come bande di bravacci slegate e scoordinate non è “buona informazione”, è propaganda.
A fronte di una simile situazione, ogni denaro investito in Afghanistan, ogni vita di militare occidentale gettata, ogni sforzo politico che l”UE e gli stati membri possano farvi è simile alla fatica di Sisifo. Così come la questione israelo-palestinese è un problema senza soluzione, così lo è l”Afghanistan. Infatti, l”unica soluzione possibile dovrebbe implicare che l”instabilità centrasiatica non sia più un “interesse vitale” degli Stati uniti. Ma con gli Usa succubi all”industria della guerra – come profetizzato da Eisenhower – questa è un”ipotesi assurda. E prima che gli Usa cessino di essere una società militarizzata in cui la fetta principale del bilancio, tra il 30 e il 40%, è inghiottita direttamente o indirettamente dall”industria della guerra, cesseranno più facilmente di essere uno stato unitario. Quindi, o gli Usa entrano in una crisi interna irreversibile che ne distrugga la capacità di proiettare all”esterno la propria forza militare, o le cose in Afghanistan non cambieranno.
Un Afghanistan ben amministrato, sicuro, che non produca oppio e morti su scala industriale non è un buon candidato al ruolo di motore immobile dell”instabilità regionale in centro Asia e, dunque, non solo non serve, ma non deve sorgere. Ecco perché gli Usa non se ne andranno. Sino al momento, almeno, in cui un altro paese non sia ritenuto un buon candidato sostitutivo, in grado di garantire sia economicamente, sia geopoliticamente ciò che garantisce l”attuale, instabile e martoriato Afghanistan.
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