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Il colonialismo settler e il conflitto israelo-palestinese

Israele è una delle società settler contemporanee, spiega Lorenzo Veracini, docente all’Università di Melbourne, esperto di colonialismo d’insediamento.

Il colonialismo settler e il conflitto israelo-palestinese
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13 Ottobre 2015 - 23.24


ATF

di Andrea Longo.


Roma, 13 ottobre 2015, Nena News – In occasione di una
conferenza organizzata dall’ISM-Italia (International Solidarity
Movement) lo scorso giugno a Torino,
Lorenzo Veracini, professore
all’Università di Melbourne, ha tenuto un intervento sul Colonialismo
d’Insediamento
, forma di dominio coloniale distinta dal colonialismo
classico
. Tra i massimi esperti di questa branca degli Studi Coloniali,
direttore della rivista accademica
“Settler Colonial Studies” (Taylor
& Francis), Veracini ha presentato il risultato delle sue ultime
ricerche soffermandosi sul presente coloniale attuale e sulle
conseguenze di questo sulla nostra società globalizzata. Progetto
Palestina*

l’ha intervistato per fare luce sulle differenze ontologiche e
teleologiche tra Colonialismo e Colonialismo d’Insediamenti, tematica
poco approfondita in Italia, soprattutto fuori dall’ambito accademico,
con uno sguardo particolare alla realtà israelo-palestinese.


‘Settler Colonialism’: di cosa si tratta e perché nel suo
intervento afferma che questa branca degli Studi sul Colonialismo nasce
come polemica nei confronti del Post-Colonialismo?

Il colonialismo settler è una particolare forma di colonialismo. Se
generalmente il dominio coloniale è finalizzato allo sfruttamento di
mano d’opera, risorse, e mercati, talvolta si pone come obiettivo anche
l’eliminazione degli indigeni e la loro sostituzione con popolazioni e
comunità esogene e sovrane. Naturalmente, le due forme coloniali possono
essere compresenti, ma non si tratta della stessa cosa. La questione
dell’indipendenza, per esempio, assume nei due casi un valore
diametralmente opposto: per quanto riguarda il colonialismo classico, si
tratta del momento in cui in teoria una forma di dominio viene
finalmente interrotta (in pratica, si tratta molto spesso di
un’illusione, e il neocolonialismo quasi immediatamente viene a
caratterizzare le relazioni tra ex-colonia e ex-madrepatria); nel caso
del colonialismo settler, invece, l’indipendenza, un passaggio che tutte
le società settler contemporanee hanno attraversato sebbene in forme
molto diverse, sancisce l’ulteriore affermazione del dominio. La
capacità delle comunità settler e delle loro forme istituzionali di
controllare senza limiti le comunità indigene rende il loro dominio
potenzialmente assoluto. L’indipendenza postcoloniale non è mai una
buona notizia per coloro che sono sottoposti al dominio dei settler. Il
colonialismo settler non si decolonizza facilmente.

Uno dei tratti più significativi del colonialismo settler è che la
comunità dei settler è mobile ed è portatrice di una carica sovrana che
nel colonialismo tradizionale rimane ancorata alla madrepatria. È in
questo senso che gli Studi Settler Coloniali si pongono in polemica con
gli Studi Postcoloniali. Il ‘recentering’ operato dagli Studi
Postcoloniali e la carica destabilizzante insita nel privilegiare
prospettive periferiche, acquisiscono un valore potenzialmente
reazionario nel caso delle società settler. In esse il regime coloniale
non si è mai interrotto. Non c’è un ‘post’. La poetessa e militante
aborigena Australiana Bobbi Sykes ci ha scherzato su: ‘Cosa?
Postcolonialism? Se ne sono andati?’


Colonialism e Settler Colonialism. Come lei afferma,
l’obiettivo ultimo intrinseco in ciascuna delle due forme di dominio
coloniale (Colonialismo = deve riprodursi vs. Settler Colonialism = deve
estinguersi) costituisce una differenza ontologica che le pone in
antitesi. Ci sono altre differenze fondamentali tra queste due forme di
dominio e quale delle due è la più efficace?

Se dovessi scegliere … preferirei non scegliere. Sono entrambe forme
disumanizzanti e durature. Sono entrambe ‘efficaci’, ma i loro fini sono
differenti. Il colonialismo classico per certi versi riproduce la
figura hegeliana del servo-padrone con alcune delle sue implicazioni, in
particolare il riconoscimento reciproco sostanziale della posizione di
sottomesso e di padrone. Nel caso del colonialismo settler, invece, non
c’è mai un riconoscimento che sia genuino o duraturo. Anche quando c’è
una forma di riconoscimento, si tratta di un processo meramente formale
in cui i settler sanciscono i diritti delle comunità indigene alla loro
proprietà solo nella misura in cui se ne possono eventualmente
appropriare in forme ‘legittime’. Nella lunga storia dei processi
settler coloniali in vari continenti s’incontrano migliaia di trattati
controfirmati da autorità indigene e rappresentanti dei settler, ma mai
realmente considerati vincolanti. Questo riconoscimento di una proprietà
originaria è però finalizzato esclusivamente al suo trasferimento, non
alla sua protezione. Ma al di là della proprietà della terra, è la
presenza indigena che rimane un problema insormontabile per il settler:
in questa vede la sua mancanza di relazione autentica con la terra, e in
essa riconosce la traccia di una violenza fondativa (non c’è regime
settler senza una espropriazione violenta e continuata). Non dovrebbe
sorprendere che esplosioni di violenza genocida ricorrono spesso nella
storia del colonialismo settler. E non è solo una questione di possesso
della terra. Il settler vuole tutto quello che l’indigeno ha, inclusa la
sua capacità di fruire della terra in modo autentico e immediato, come
se il settler fosse veramente indigeno. È per questo che i progetti
settler più efficaci hanno sviluppato processi di ‘indigenizzazione’.
Infatti, uno dei segni più tipici di un colonialismo settler trionfante è
la volontà dei settler di appropriarsi di simbologie indigene. Mi
riferisco, per esempio, alle polemiche suscitate dall’uso di brand e
mascotte appartenenti alla sfera culturale dei nativi d’America da parte
di squadre sportive statunitensi…


In cosa consiste esattamente il processo di “indigenizzazione” e che rapporto c’è tra essa e il memoricidio della Nakba?

L’indigenizzazione del settler è un’operazione complessa: da un lato,
il settler deve acquisire capacità e attitudini che dimostrino la sua
trasformazione, dall’altro, il settler non può, come si diceva nelle
colonie italiane, ‘insabbiarsi’ o come si diceva nelle colonie
anglofone, ‘go native. Le comunità settler spesso acquisiscono e
coltivano tratti culturali presumibilmente indigeni. È una strategia
discorsiva che sancisce un’indigeneità parallela a quella dell’indigeno.
È la fine: gli indigeni vengono assimilati, talvolta forzatamente, nel
contesto culturale dei settler e i settler si sostituiscono agli
indigeni. Nel caso del sionismo, nonostante un rifiuto netto e
definitivo delle tradizioni indigene, si noti come ci sono alcune
eccezioni: il cibo, il paesaggio, i nomi (opportunamente ebraicizzati), e
persino alcuni aspetti architettonici vengono talvolta acquisiti dalla
comunità dei settler. Ma tale rifiuto rimane generalizzato ed è segno di
debolezza, per cui la comunità dei settler rimane un corpo estraneo al
suo contesto.


Nel suo intervento lei spiega che il Settler Colonialism si
fonda sull’espropriazione della terra e non sullo sfruttamento della
forza lavoro dell’indigeno. In questo senso si può affermare, quindi,
che il progetto sionista di espropriazione della terra palestinese
coincida perfettamente con il paradigma del Settler Colonialism, o ci
sono differenze con esso? Si tratta di una forma di Settler Colonialism
vincente?

Israele è una delle società settler contemporanee. È in buona
compagnia. Però, a differenza di altre società settler (per esempio,
Australia, Nuova Zelanda, Canada e Stati Uniti) Israele non ha
modernizzato nelle decadi recenti le proprie relazioni con le strutture
politiche delle comunità indigene. È importante notare che la ‘logica
eliminatoria’ del colonialismo settler, un concetto controverso che il
decano degli Studi Setter Coloniali Patrick Wolfe ha proposto in un
famoso saggio pubblicato dal Journal of Genocide Studies, si
manifesta in varie forme e in vari passaggi storici: dall’eliminazione
fisica alla assimilazione biologica e culturale, all’integrazione
subordinata nelle strutture politiche dei settler, fino a processi
ufficiali di ‘riconoscimento’ e ‘riconciliazione’ che rimangono però
sotto lo stretto controllo delle autorità settler. Questi ultimi sono
metodi molto efficaci di legittimare la comunità politica dei settler e
di spostare il conflitto da fatto politico e fondativo a questione di
ordine pubblico o di malessere sociale.


E cosa comporta questa mancata modernizzazione delle relazioni con la comunità indigena palestinese?

La mancata modernizzazione delle strategie settler coloniali rende
Israele molto più fragile di quanto appaia. L’indigenizzazione del
settler viene sancita a priori dalla legge del ‘ritorno’, che consente
agli ebrei della diaspora di acquisire la cittadinanza israeliana e di
trasferirsi in Israele o nei territori Occupati. Questa strategia
mobilita risorse umane che sono considerate necessarie per il progetto
settler coloniale ma produce nei fatti un’indigenizzazione mancata. Il
concetto stesso di una Terra Promessa infatti presuppone l’esistenza di
una comunità politica che sia costituita altrove e a priori. La
relazione che questa comunità può avere con la terra è quindi
necessariamente storica, mai ontologica. Nessun dio è mai apparso a un
gruppo d’indigeni promettendo la proprietà esclusiva di una terra che
sia altrove. Loro la terra ce l’hanno già. L’ideologia politica del
Sionismo contemporaneo rende impossibili le pratiche d’indigenizzazione
che completano e coronano il progetto settler coloniale.

Mentre negli anni ’80 e ’90 le altre società settler intraprendevano
processi di riconciliazione nazionale che ambivano a pacificare le
relazioni tra lo stato e le comunità aborigene (senza che questo
comportasse peraltro una ridistribuzione seria della terra e delle sue
risorse), Israele si è mossa nell’altra direzione: coprifuochi e
chiusure (è importante notare che le chiusure hanno preceduto la seconda
intifada). Nelle altre società settler i governi hanno persino espresso
rammarico in dichiarazioni ufficiali per le violenze e i soprusi del
passato. Sono state scelte che hanno assicurato una legittimità
rinnovata e incontrovertibile. In Israele invece si è dato carta bianca
all’esercito. Questa divergenza non era inevitabile; è il risultato di
scelte politiche precise.


Dunque, ponendo al centro l’espropriazione della terra
piuttosto che lo sfruttamento della forza lavoro, nel Settler
Colonialism il colonizzato non è sottoposto a un processo di
proletarizzazione; tuttavia in alcune zone della Palestina, in
particolar modo a Gerusalemme, è innegabile che vi siano Palestinesi
“proletarizzati” che lavorano per lo Stato d’Israele. Come spiega tale
eccezione?

Una precisazione è necessaria: gli Studi Settler Coloniali hanno
enfatizzato la differenza analitica tra colonialismo classico e settler
senza mai sostenere che le due forme di dominio siano mutualmente
esclusive. Al contrario, sono sempre mescolate, ed è nella loro
relazione dialettica che la ricerca storica degli Studi Settler
Coloniali si è infatti cimentata. L’opportunità e la volontà di
sfruttare mano d’opera a bassissimo costo, una mano d’opera che non si
può difendere, si accompagna sempre al tentativo di emancipare il
progetto settler coloniale dal dipendere da essa. Nel linguaggio del
colonialismo sionista questo processo si chiama ‘conquista del lavoro’.
Che le leggi e le pratiche coloniali sioniste sanciscano il desiderio di
emanciparsi dalla forza lavoro palestinese non dovrebbe sorprendere.
Che ci siano lavoratori palestinesi e che la loro mano d’opera sia
tuttora necessaria al progetto coloniale dovrebbe sorprendere ancora
meno.


Come lei afferma, il risultato del Settler Colonialism è un
soggetto socio-politico che estingue la relazione ineguale
originariamente instauratasi tra colonizzato e colonizzatore. Nel caso
di Israele-Palestina, chi rappresenta tale soggetto socio-politico?

Nel caso di Israele la situazione è molto complessa e non lo dico per
evitare di rispondere. Considera che il tentativo dei settler di
estinguere la relazione coloniale si rivolge sempre in due direzioni. Da
un lato la comunità dei settler occupa le terre delle comunità indigene
e si adopera per estinguere i legami che le legano ai loro territori
ancestrali e che ne definiscono l’identità. Dall’altro deve emanciparsi
dalle forme di controllo esercitate dalla metropoli. Per completare il
processo settler coloniale la colonia deve diventare a un certo punto
una nazione autosufficiente. Tutte le società settler hanno operato
questa rottura, anche se a volte l’indipendenza è stata concessa dalla
madre patria come misura preventiva. C’è un Tea Party in ogni progetto
settler.

È vero che il sionismo non ha una singola madrepatria. In questo caso
la relazione che la comunità dei settler deve gestire ed eventualmente
estinguere è con le comunità della diaspora e le loro istituzioni. In
decadi recenti, però, la dipendenza della comunità dei settler in
Palestina si è notevolmente rafforzata e agenti esterni sono adesso in
grado di influenzare le politiche di Israele più di quanto lo fossero al
momento della sua fondazione (mi riferisco, per esempio, alla lobby
pro-Israele e ai Cristiani sionisti negli stati Uniti). D’altro canto
dopo il ’67 la relazione con le comunità indigene, che la cittadinanza e
l’integrazione subalterna degli ‘Arabi di Israele aveva contribuito in
prospettiva ad eliminare, ha riaperto una relazione conflittuale di
lunga durata.


Nel suo intervento ha affermato che “l’esistenza collettiva”
delle popolazioni indigene è l’incapacità di riprodursi, in altre parole
“la mancanza di futurità”. Considera tale enunciato valido anche nel
caso del popolo palestinese? E dunque, che prospettive si delineano per
esso secondo la dottrina del Settler Colonialism?

La puntualizzazione precedente vale anche per questa domanda: la
comunità dei settler ambisce ad estinguere l’esistenza autonoma e
sovrana delle popolazioni indigene. Ma i settler sono costretti a
relazionarsi con gli indigeni in maniera continuativa anche se non
vorrebbero. Il loro progetto ‘vince’, quando vince, e alle volte perde,
si pensi all’Algeria francese, ma anche quando vince non è mai in modo
assoluto, e le comunità indigene sopravvivono persino alle ripetute
dichiarazioni relative alla loro supposta scomparsa (alcuni esempi: gli
Ainu del nord del Giappone erano stati dichiarati ‘ex-Ainù’, la Tasmania
avrebbe dovuto essere completamente deindigenizzata, molti stati del
New England avevano dichiarato gli indigeni locali ‘coloureds’). Il
compito principale delle comunità indigene e dei loro alleati è quello
di organizzare il futuro nonostante tutto.


È il Boycott-Divestment-Sanction Movement una forma di
organizzazione del proprio futuro? Lo considera un meccanismo efficace
per la comunità degli indigeni di contrastare il progetto di
colonialismo settler?

Il BDS è un invito a ricalcolare. Le politiche attuali del governo
israeliano hanno come presupposto un’analisi delle opportunità e dei
costi simbolici e materiali associati all’occupazione dei Territori. Se i
fattori inerenti a questo calcolo fossero dati una volta per tutte
allora sì che non ci sarebbe futuro. Questa aritmetica ed il suo
dinamismo sono una maniera di immaginare il futuro.

* Progetto Palestina è gruppo di studenti dell’Università e del
Politecnico di Torino che si occupa di portare nelle aule universitarie
formazione e discussione sulla realtà palestinese e sul movimento BDS
(Boicottaggio-Disinvestimento-Sanzioni).


Fonte: http://nena-news.it/il-colonialismo-settler-e-il-conflitto-israelo-palestinese/.

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