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Bambini da guerra

Il mainstream fa la guerra. E usa i bambini come arma. [Alessia Lai]

Bambini da guerra
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18 Aprile 2017 - 17.51


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di Alessia Lai

In una manciata di giorni, chi aveva sperato che l’elezione di Trump potesse riportare gli Usa contemporanei su posizioni isolazioniste, a vantaggio della pace in giro per il globo, si è dovuto rapidamente ricredere. Per attaccare la Siria, l’amministrazione repubblicana ha sfoderato la più consolidata retorica, quella testata, per non andare troppo lontano negli anni, in occasione dell’invasione dell’Iraq. Nel 2003 era stato Colin Powell a mostrate al mondo una fialetta con del non meglio identificato liquido al suo interno, accusando Saddam Hussein di possedere le cosiddette “armi di distruzione di massa”. Fu la motivazione dei bombardamenti su Baghdad, degli stivali sul terreno e della distruzione di un Paese che vantava, tra le altre cose, il sistema scolastico più avanzato del Vicino Oriente.

In quattordici anni di guerra l’Iraq è stato catapultato nel medio evo: economico, sociale, culturale. Oggi si dibatte in una guerra infinita, frammentato, minacciato da un integralismo islamista che mai aveva trovato posto prima dell’invasione nordamericana. A distanza di anni la bufala delle armi mai esistite (come affermò, inascoltato, l’ispettore Onu Hans Blix) è stata accettata da tutti con una tranquillità inquietante. E tutti significa sia opinione pubblica, sia leader che allora appoggiarono l’invasione in nome della democrazia. Tony Blair è l’esempio calzante: a distanza di anni ha ammesso che quelle armi non esistevano, sorvolando sulle conseguenze di quel confitto con una serenità che solo gli individui più pericolosi (psicopatici o cinici che siano) possono avere.

Evidentemente non pesano sulla coscienza i più di 150mila morti, fatti in base a una montatura propagandistica come quella impersonata da Colin Powell a suo tempo, che trascinò la coalizione dei volenterosi nel massacro iracheno. La storia non insegna, questo è un dato consolidato. E i meccanismi sono sempre gli stessi: si crea un casus belli o si utilizza un fatto preciso dandogli connotazioni e interpretazioni buone per giustificare un atto di forza. Il problema contemporaneo, però, è che tutto questo viene mascherato da umanitarismo, da indignata reazione contro presunte violazioni dei diritti umani. E con alla guida di queste coalizioni democratiche un paese che non può insegnare proprio nulla in merito.

Ora, serve ricordare che la Siria ha consegnato le sue armi chimiche sotto supervisione Onu? O ricordare che Carla de Ponte – di certo non sospettabile di essere dalla parte di Assad – nel 2013 affermò che le uniche prove dell’uso di quel tipo di armamento, in Siria, puntavano dritte ai ribelli? Serve dire quel che è stato già detto? E cioè che i bombardamenti siriani alla radice del recente bombardamento statunitense contro la Siria hanno colpito un deposito in cui erano stoccate armi chimiche dei ribelli, gli stessi che le hanno usate contro la popolazione civile nell’Iraq destabilizzato da quattordici anni proprio grazie agli Usa? Probabilmente no. Le analisi sono già state fatte. Gli scenari possibili già descritti. Eppure tutto, sul piano politico e militare, sembra muoversi per inerzia verso una escalation pericolosissima.

Da giorni assistiamo a minacce e dimostrazioni muscolari statunitensi: dopo i Tomahawk sulla Siria sono arrivate la superbomba in Afghanistan e le serie minacce contro la Corea del Nord. Trump si è messo l’elmetto e non conta se sia per sua volontà o di quello che viene definito lo stato profondo. Parlare di Trump significa sviare dal problema fondamentale: il pericolo reale è costituito dagli Stati Uniti d’America e non dai presidenti che si succedono alla loro guida, dalla loro “cultura” della guerra, dal loro modello economico e sociale esportato sulle bocche dei cannoni. Ma soprattutto dal potentissimo apparato mediatico-propagandistico che crea il clima favorevole alle loro guerre. O che crea conflitti virtuali prima che reali, come accaduto per la guerra siriana, che iniziò mediaticamente prima che nella realtà.

Quando a Damasco ancora non erano arrivate le incursioni degli islamisti radicali con le loro autobombe e gli assedi alle periferie, i media diffondevano notizie di rivolte e scontri sedati nel sangue dalle guardie del regime. Notizie che, se fossero state verificate come sarebbe d’obbligo per dei giornalisti seri, si sarebbero rivelate niente altro che bufale a uso di chi già progettava un cambio di regime. E mentre l’opinione pubblica iniziava a sapere che esisteva un paese arabo chiamato Siria, in cui c’era un dittatore come e peggio di Saddam Hussein (lo stesso presidente siriano che fino a pochi mesi prima veniva invitato dalle cancellerie europee e considerato uno dei giovani leader arabi più moderni e illuminati), dai confini filtravano le milizie islamiste: bande di combattenti che di siriano non avevano niente, mentre di nordamericano, saudita e turco avevano armi e addestramento. Allora la guerra, quella vera, era solo questione di tempo.

Oggi, a distanza di sei anni, e a guerra ampiamente conclamata, in Siria il fronte dell’informazione corre ancora parallelo a quello del conflitto sul terreno. Ed è stato utile per fare il passo decisivo verso il recente attacco nordamericano alla Siria. Serviva il supporto mediatico adatto: il pubblico, intorpidito e ormai assuefatto a immagini di bombardamenti e profughi, aveva bisogno di essere spinto sempre un po’ più in la. Così, lo stesso pubblico che non vede le immagini dei bambini yemeniti che muoiono di fame e stenti grazie alla guerra fatta da sauditi e alleati statunitensi, grazie al mainstream ha potuto assistere con sdegno e orrore ai filmati dei bambini di Idlib. L’uso di corpicini rattrappiti, boccheggianti, agonizzanti è diventato arma. Sono immagini che rendono facile fare subito distinzione tra vittime e carnefici. Innescare il riflesso pavloviano è stato facile: le conseguenze del nuovo “spettacolo” sono state quelle di far plaudire ai missili lanciati contro un luogo sulla faccia della terra che diventato è la materializzazione prêt-à-porter del male: la Siria del dittatore Assad. E magari sperare che ne arrivino altri, non pensando che sotto a quei missili ci saranno degli altri bambini.

Poco conta se, solo qualche giorno dopo, nuovi bombardamenti statunitensi hanno colpito altri depositi di armi chimiche, sempre dei ribelli, uccidendo centinaia di persone. In questo caso, però, nessuna immagine di bambini rantolanti è arrivata a turbare le coscienze occidentali. E nemmeno quelle dei bambini uccisi dai ribelli il sabato di Pasqua durante l’evacuazione di civili da due villaggi sciiti del nord siriano: i cittadini di Kefraya e Foua attendevano di essere portati al sicuro, lontano dalle aree controllate dai ribelli, in 112 sono stati dilaniati dallo scoppio di un camion bomba, tra questi numerosi bambini, attirati con patatine e caramelle nel luogo in cui è esploso l’ordigno. Ma nessuna indignazione, anzi: articoli di “stampo british” hanno fornito una asettica esposizione dei fatti. Nessun opinionista si è lanciato in invettive indignate. I nostri media blasonati, così solerti nell’etichettare gli orchi, nelle loro versioni on-line stavolta hanno piazzato questi morti tra le notizie di secondo piano, incastrati fra le parate militari di Kim Yong-Un e la corsa per lo scudetto. Tra l’altro solo per poche ore prima di relegarli al fondo delle pagine, dopo il ritorno delle zanzare tigre e le previsioni meteo per Pasquetta.

Sono gli stessi media che tacciano il web, l’unico luogo in cui possono circolare versioni alternative alla vulgata mainstream, di inattendibilità e complottismo. Perché le cheerleader di Washington e alleati sono sempre dalla parte giusta e basta il bollino di garanzia di una testata “importante” per avere il crisma della verità assoluta in questa guerra mediatica.

La stampa che riempie edicole e propina veline in radio, tv e on line, non produce nulla che possa mettere in discussione la versione dell’Impero democratico. E l’effetto sul fruitore medio di notizie è quello desiderato: lo convince, lo fa indignare, addolorare, arrabbiare a comando.

Così i bambini uccisi a Idlib diventano più importanti di quelli ammazzati solo poche ore dopo dai Tomahawk nordamericani, o massacrati con un inganno infame mentre fuggono dai ribelli; più vittime di quelli che ogni giorno muoiono dilaniati da bombe e fame in Yemen, o nei conflitti, troppi pure per provare a contarli, che affliggono l’Africa. Cosa li fa tanto diversi tra loro, questi esseri umani mai diventati adulti? La risposta è: la loro “redditività”. È la possibilità di essere strumento di strategie mediatiche e politiche. L’antico adagio “occhio non vede cuore non duole” è quanto mai attuale e si inserisce alla perfezione, con tutte le sue nefaste conseguenze, nel flusso di notizie che Noam Chomsky chiama “la fabbrica del consenso”.

L’uso strumentale di eventi selezionati con cura per ottenere gli effetti desiderati ha sviluppato, nel pubblico, la capacità di scegliere quali e quante vittime meritino la sua indignazione, e di farlo senza nemmeno intuire la profonda disonestà che sta dietro a tutto questo. È una rimozione selettiva e collettiva.

In tutto questo i bambini sono diventati uno strumento di guerra. In Siria ci sono i bambini usati come arma, quando i ribelli li vestono di bombe per andare a farsi esplodere nelle strade di Damasco contro altri bambini. E ci sono i bambini destinati a essere mezzo di propaganda, con i loro corpi e agonie usati spudoratamente e ad hoc.

In questa guerra, mediatica e mediatizzata, i bambini sono ancora una volta vittime degli adulti, anche di quelli che si commuovono a comando, inconsapevolmente, al momento giusto. Perché è sulla loro indignazione telecomandata che si puntellano le guerre contemporanee. Perché se piangiamo tutti per un bambino di Idlib e non per uno di Hama o yemenita o afgano, li stiamo uccidendo tutti una seconda volta. Fino alla prossima strage. Più strage delle altre.

(18 aprile 2017)

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