di Omer Bartov – The New York Times.
[Il dott. Bartov è professore di studi sulla Shoah e sui genocidi alla Brown University.]
Un mese dopo l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, ritenevo ci fossero prove che l’esercito israeliano avesse commesso crimini di guerra e potenzialmente crimini contro l’umanità nella sua controffensiva su Gaza. Ma, contrariamente alle accuse più dure dei critici di Israele, quelle prove non mi sembravano ancora configurare il crimine di genocidio.
Entro maggio 2024, però, le Forze di Difesa Israeliane avevano ordinato a circa un milione di palestinesi rifugiatisi a Rafah – la città più a sud della Striscia di Gaza e l’ultima rimasta relativamente intatta – di spostarsi verso la zona costiera di al-Mawasi, dove c’erano poche o nessuna struttura di accoglienza. L’esercito ha poi proceduto alla distruzione di gran parte di Rafah, un compito completato per lo più entro agosto.
A quel punto non era più possibile negare che il modello operativo dell’I.D.F. fosse coerente con le dichiarazioni dei leader israeliani che esprimevano un intento genocida nei giorni successivi all’attacco di Hamas. Il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva promesso che il nemico avrebbe pagato “un prezzo enorme” per l’attacco e che l’I.D.F. avrebbe ridotto in macerie le zone di Gaza in cui operava Hamas. Aveva inoltre fatto appello ai “residenti di Gaza” affinché “se ne andassero subito perché opereremo con forza ovunque”.
Netanyahu aveva esortato i suoi cittadini a ricordare “ciò che Amalek ti ha fatto”, una citazione che molti hanno interpretato come riferimento al passo biblico in cui si ordina agli Israeliti di “uccidere uomini e donne, bambini e lattanti” del loro antico nemico. Funzionari di governo e militari hanno affermato di combattere contro “animali umani” e, più tardi, invocato “l’annientamento totale”. Nissim Vaturi, vicepresidente del Parlamento, scrisse su X che il compito di Israele doveva essere “cancellare la Striscia di Gaza dalla faccia della terra”.
Le azioni di Israele potevano essere comprese solo come l’attuazione dell’intento dichiarato di rendere inabitabile la Striscia di Gaza per la sua popolazione palestinese. Credo che l’obiettivo fosse — e resti oggi — costringere la popolazione a lasciare del tutto la Striscia oppure, dato che non ha dove andare, debilitare l’enclave attraverso bombardamenti e privazioni estreme di cibo, acqua potabile, servizi igienici e assistenza medica, fino al punto da rendere impossibile ai palestinesi a Gaza il mantenimento o la ricostituzione della propria esistenza come gruppo.
La mia conclusione inevitabile è che Israele stia commettendo un genocidio contro il popolo palestinese. Cresciuto in una famiglia sionista, vissuto in Israele per metà della mia vita, arruolato come soldato e ufficiale nelle I.D.F. e impegnato per la gran parte della mia carriera nello studio dei crimini di guerra e dell’Olocausto, questa è stata una conclusione dolorosa da raggiungere, e che ho cercato di evitare finché ho potuto. Ma insegno corsi sul genocidio da 25 anni. So riconoscerne uno quando lo vedo.
Non è solo la mia conclusione. Un numero crescente di esperti di genocidio e diritto internazionale ha stabilito che le azioni di Israele a Gaza possono essere definite solo come genocidio. Lo ha affermato anche Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per la Cisgiordania e Gaza, così come Amnesty International. Il Sudafrica ha avviato una causa per genocidio contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia.
La continua negazione di questa qualificazione da parte di stati, organizzazioni internazionali ed esperti legali e accademici causerà danni incalcolabili non solo ai popoli di Gaza e Israele, ma anche al sistema del diritto internazionale istituito dopo gli orrori della Shoah, pensato per prevenire il ripetersi di simili atrocità. È una minaccia alle fondamenta stesse dell’ordine morale su cui tutti facciamo affidamento.
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Il crimine di genocidio è stato definito nel 1948 dalle Nazioni Unite come “l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale”. Per determinare ciò che costituisce genocidio, dunque, dobbiamo stabilire sia l’intento, sia la sua attuazione. Nel caso di Israele, quell’intento è stato espresso pubblicamente da numerosi funzionari e leader. Ma può anche essere dedotto da uno schema operativo sul campo, che è divenuto evidente nel maggio 2024 — e che da allora è sempre più chiaro — via via che l’I.D.F. ha sistematicamente distrutto la Striscia di Gaza.
La maggior parte degli studiosi di genocidio è cauta nell’applicare questo termine agli eventi contemporanei, proprio per la tendenza — fin dalla sua coniazione da parte del giurista ebreo-polacco Raphael Lemkin nel 1944 — a usarlo per qualsiasi massacro o crudeltà. Alcuni sostengono addirittura che andrebbe abbandonato del tutto, perché troppo spesso esprime indignazione anziché identificare un crimine specifico.
Eppure, come riconobbe Lemkin e poi sancì l’ONU, è cruciale saper distinguere il tentativo di distruggere un gruppo particolare da altri crimini di diritto internazionale, come i crimini di guerra o contro l’umanità. Mentre altri crimini comportano uccisioni indiscriminate o deliberatamente rivolte a civili come individui, il genocidio implica l’uccisione di persone in quanto membri di un gruppo, con l’obiettivo di distruggere irreparabilmente quel gruppo stesso, rendendone impossibile la ricostituzione come entità politica, sociale o culturale.
Come indica la Convenzione, è obbligo di tutti gli Stati firmatari prevenire tali tentativi, fare tutto il possibile per fermarli mentre accadono, e punire in seguito i responsabili di questo crimine dei crimini — anche se commesso entro i confini di uno Stato sovrano.
Tale designazione ha conseguenze politiche, legali e morali enormi. Stati, politici e militari sospettati, incriminati o riconosciuti colpevoli di genocidio vengono considerati al di fuori dell’umanità e possono perdere il diritto a rimanere nella comunità internazionale.
Una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che accerti che uno Stato ha commesso genocidio — specie se sostenuta dal Consiglio di Sicurezza ONU — può portare a sanzioni molto pesanti.
Politici o generali incriminati o condannati per genocidio dalla Corte Penale Internazionale possono essere arrestati fuori dal loro paese. E una società che giustifica o è complice di un genocidio, qualunque sia la posizione dei suoi cittadini, porterà questo marchio di Caino ben oltre l’estinzione degli odi e delle violenze.
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Israele ha negato tutte le accuse di crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio. L’I.D.F. sostiene di investigare sulle denunce, anche se raramente ne rende pubblici i risultati, e quando riconosce violazioni, in genere assegna sanzioni lievi al personale coinvolto. Leader israeliani affermano che l’I.D.F. agisce legalmente, che fornisce avvertimenti ai civili prima di colpire e che la colpa è di Hamas per l’uso di civili come scudi umani.
In realtà, la distruzione sistematica non solo delle abitazioni ma anche delle infrastrutture — edifici governativi, ospedali, università, scuole, moschee, siti del patrimonio culturale, impianti idrici, aree agricole e parchi — riflette una politica volta a rendere altamente improbabile la rinascita della vita palestinese sul territorio.
Secondo un’indagine recente di Haaretz, circa 174.000 edifici sono stati distrutti o danneggiati, pari a circa il 70% delle strutture nella Striscia. Secondo le autorità sanitarie di Gaza, finora sono morte oltre 58.000 persone, tra cui oltre 17.000 bambini — quasi un terzo delle vittime totali. Più di 870 di questi bambini avevano meno di un anno.
Oltre 2.000 famiglie sono state sterminate; altre 5.600 contano oggi un solo sopravvissuto. Si stima che almeno 10.000 persone siano ancora sepolte sotto le macerie delle loro case. Più di 138.000 persone sono rimaste ferite o mutilate.
Gaza detiene ora il triste primato del più alto numero di bambini amputati per abitante al mondo. Un’intera generazione di minori sottoposti a bombardamenti, alla perdita dei genitori e alla malnutrizione cronica subirà conseguenze fisiche e mentali gravi per tutta la vita. Migliaia di persone affette da patologie croniche hanno avuto scarso accesso a cure ospedaliere.
L’orrore di quel che accade a Gaza è ancora descritto da gran parte degli osservatori come “guerra”. Ma è un termine improprio. Nel corso dell’ultimo anno, l’I.D.F. non ha combattuto contro un esercito organizzato. La versione di Hamas che ha pianificato gli attacchi del 7 ottobre è stata distrutta, anche se l’organizzazione — indebolita — continua a combattere e a controllare alcune aree non in mano all’esercito israeliano.
Oggi l’IDF è impegnato principalmente in un’operazione di demolizione e pulizia etnica. È così che l’ex capo di stato maggiore e ministro della Difesa di Netanyahu, il falco Moshe Yaalon, ha descritto a novembre — sull’emittente Democrat TV israeliana e in successivi articoli e interviste — il tentativo di sgomberare la popolazione dal nord della Striscia di Gaza.
Il 19 gennaio, sotto pressione di Donald Trump, che era a un giorno dal riprendere la presidenza, è entrato in vigore un cessate il fuoco, consentendo lo scambio di ostaggi a Gaza con prigionieri palestinesi in Israele. Ma dopo la violazione del cessate il fuoco da parte israeliana il 18 marzo, l’I.D.F. ha cominciato a eseguire un piano ampiamente annunciato volto a concentrare l’intera popolazione di Gaza in un quarto del territorio, in tre zone: Gaza City, i campi profughi centrali e la costa del Mawasi, all’estremità sudoccidentale della Striscia.
Usando grandi quantità di bulldozer e bombe aeree gigantesche fornite dagli Stati Uniti, l’esercito sembra mirare a demolire ogni struttura rimasta e a stabilire il controllo sugli altri tre quarti del territorio.
A facilitare questa operazione contribuisce anche un piano che prevede — a intermittenza — la distribuzione limitata di aiuti in alcuni punti, sorvegliati dalle forze israeliane, che attraggono le persone verso sud. Molti palestinesi di Gaza vengono uccisi nel tentativo disperato di procurarsi cibo, e la crisi alimentare si aggrava. Il 7 luglio, il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato che l’I.D.F. costruirà una “città umanitaria” sulle rovine di Rafah per accogliere inizialmente 600.000 palestinesi provenienti dall’area di al-Mawasi, che verrebbero approvvigionati da organismi internazionali ma non autorizzati a lasciare la zona.
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Alcuni potrebbero descrivere questa campagna come pulizia etnica, non genocidio. Ma c’è un collegamento tra i due crimini. Quando un gruppo etnico non ha dove andare e viene costantemente spostato da una cosiddetta zona sicura all’altra, bombardato e affamato senza tregua, la pulizia etnica può trasformarsi in genocidio.
È ciò che accadde in molti dei più noti genocidi del XX secolo, come quello degli Herero e Nama in Africa sudoccidentale tedesca (oggi Namibia) iniziato nel 1904; quello degli armeni durante la Prima guerra mondiale; e, naturalmente, anche durante l’Olocausto, che cominciò come un tentativo tedesco di espellere gli ebrei, per poi culminare nel loro sterminio.
Fino a oggi, solo pochi studiosi dell’Olocausto, e nessuna delle istituzioni dedicate alla sua ricerca o commemorazione, hanno lanciato un allarme sul fatto che Israele potrebbe essere accusato di crimini di guerra, contro l’umanità, di pulizia etnica o genocidio. Questo silenzio ha reso una farsa lo slogan “Mai più”, trasformandone il significato da affermazione di resistenza contro la disumanità, ovunque si manifesti, a scusa, giustificazione, anzi vera e propria carta bianca per distruggere altri invocando la propria passata condizione di vittima.
Questo è uno degli innumerevoli costi incalcolabili della catastrofe in corso. Mentre Israele cerca letteralmente di cancellare l’esistenza palestinese a Gaza e intensifica la violenza contro i palestinesi in Cisgiordania, il credito morale e storico di cui lo Stato ebraico ha vissuto finora si sta esaurendo.
Israele, nato dopo l’Olocausto come risposta al genocidio nazista contro gli ebrei, ha sempre sostenuto che qualsiasi minaccia alla sua sicurezza deve essere vista come una potenziale nuova Auschwitz. Ciò consente a Israele di dipingere i suoi nemici percepiti come nazisti — un termine usato ripetutamente dai media israeliani per descrivere Hamas e, per estensione, tutti i gazawi, sulla base della diffusa convinzione che nessuno di loro sia “non coinvolto”, nemmeno i neonati, che da grandi diventerebbero militanti.
Non è una novità. Già durante l’invasione del Libano nel 1982, il primo ministro Menachem Begin paragonò Yasser Arafat, allora rifugiato a Beirut, ad Adolf Hitler nel suo bunker a Berlino. Questa volta, però, l’analogia è usata come cornice per una politica che mira a sradicare e rimuovere l’intera popolazione di Gaza.
Le immagini quotidiane dell’orrore a Gaza — da cui l’opinione pubblica israeliana è protetta dall’autocensura dei media — smascherano le bugie della propaganda israeliana secondo cui si tratterebbe di una guerra difensiva contro un nemico simile ai nazisti. Fa rabbrividire sentire i portavoce israeliani pronunciare senza vergogna lo slogan vuoto secondo cui l’I.D.F. è “l’esercito più morale del mondo”.
Alcuni paesi europei, come Francia, Regno Unito e Germania, così come il Canada, hanno espresso flebili proteste contro le azioni israeliane, soprattutto dopo la violazione del cessate il fuoco a marzo. Ma non hanno sospeso le forniture di armi, né adottato misure economiche o politiche concrete e significative per scoraggiare il governo di Netanyahu.
Per un po’, sembrava che il governo degli Stati Uniti avesse perso interesse per Gaza: il presidente Trump aveva inizialmente annunciato a febbraio che gli Stati Uniti si sarebbero presi carico di Gaza, promettendo di trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”, per poi lasciare che Israele ne proseguisse la distruzione e concentrarsi sull’Iran. Al momento, si può solo sperare che Trump torni a esercitare pressioni su un riluttante Netanyahu affinché si raggiunga almeno un nuovo cessate il fuoco e si ponga fine a questa carneficina senza fine.
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Quale sarà il futuro di Israele dopo l’inevitabile demolizione della sua autorità morale, derivata dalla sua nascita sulle ceneri dell’Olocausto?
Spetterà alla leadership politica e ai cittadini israeliani deciderlo. Sembra esserci poca pressione interna per un cambiamento di paradigma, che è invece urgentemente necessario: il riconoscimento che non esiste altra soluzione al conflitto se non un accordo israelo-palestinese per condividere la terra, con qualsiasi formula concordino — due Stati, uno solo o una confederazione. Anche una forte pressione esterna da parte degli alleati di Israele appare improbabile.
Temo profondamente che Israele persista in questo percorso disastroso, trasformandosi — forse irreversibilmente — in uno Stato pienamente autoritario e di apartheid. E la storia ci insegna che questi stati non durano.
Un’altra questione si pone: quali saranno le conseguenze di questa inversione morale di Israele per la cultura della memoria dell’Olocausto, e per la politica della memoria, dell’educazione e della ricerca, quando così tanti dei suoi leader intellettuali e amministrativi rifiutano ancora di assumersi la responsabilità di denunciare la disumanità e il genocidio ovunque si verifichino?
Chi è impegnato nella cultura a diffusione mondiale della commemorazione e del ricordo dell’Olocausto dovrà affrontare una resa dei conti morale. La più ampia comunità degli studiosi di genocidio — coloro che studiano il genocidio comparato o uno qualunque dei molti altri genocidi che hanno segnato la storia dell’umanità — si sta avvicinando sempre di più a un consenso: ciò che sta avvenendo a Gaza è un genocidio.
Nel novembre scorso, a poco più di un anno dall’inizio della guerra, anche lo studioso israeliano di genocidi Shmuel Lederman si è unito al coro crescente di opinioni secondo cui Israele è impegnato in azioni genocidarie. Lo stesso ha concluso il giurista internazionale canadese William Schabas, che ha recentemente descritto la campagna militare israeliana a Gaza come “assolutamente” genocida.
Altri esperti di genocidio, come Melanie O’Brien (presidente dell’Associazione Internazionale degli Studiosi di Genocidio), nonché lo specialista britannico Martin Shaw (che pure ha dichiarato che l’attacco perpetrato da Hamas fosse genocida), sono giunti alle stesse conclusioni. Nel frattempo, lo studioso australiano A. Dirk Moses (City University of New York) ha definito questi eventi una “combinazione di logiche genocidarie e militari” in un articolo sul quotidiano olandese NRC. Nello stesso articolo, Uğur Ümit Üngör, professore all’Istituto olandese NIOD per la guerra, l’Olocausto e gli studi sui genocidi, ha dichiarato che ci sono probabilmente studiosi che ancora non lo definiscono genocidio, ma “io non li conosco”.
La maggior parte degli studiosi della Shoah che conosco non condivide — o almeno non esprime pubblicamente — questo punto di vista. Con poche eccezioni rilevanti, come l’israeliano Raz Segal (direttore del programma Holocaust and Genocide Studies alla Stockton University in New Jersey), e gli storici della Hebrew University Amos Goldberg and Daniel Blatman, la maggior parte degli accademici impegnati nello studio del genocidio nazista degli ebrei è rimasta incredibilmente in silenzio, mentre alcuni hanno apertamente negato i crimini israeliani a Gaza o accusato i colleghi più critici di discorsi incendiari, esagerazioni folli, malafede o antisemitismo.
A dicembre, lo studioso dell’Olocausto Norman J.W. Goda ha opinato che “accuse di genocidio come queste sono da tempo usate come paravento per attacchi più ampi alla legittimità di Israele”, esprimendo il timore che “abbiano svilito la gravità della parola genocidio”. Questo “libello sul genocidio”, come lo ha definito in un saggio, “impiega una serie di tropi antisemiti”, incluso “l’abbinamento tra l’accusa di genocidio e l’uccisione deliberata di bambini, le cui immagini sono onnipresenti su social, ONG e altre piattaforme che accusano Israele di genocidio”.
In altre parole, mostrare immagini di bambini palestinesi fatti a pezzi da bombe statunitensi lanciate da piloti israeliani sarebbe, secondo questa visione, un atto antisemita.
Più di recente, il dott. Goda e lo stimato storico europeo Jeffrey Herf hanno scritto sul Washington Post che “l’accusa di genocidio lanciata contro Israele attinge a profondi pozzi di paura e odio” che si trovano nelle “interpretazioni radicali sia del Cristianesimo che dell’Islam”. Tale accusa “ha spostato il biasimo dagli ebrei come gruppo religioso/etnico allo Stato di Israele, dipinto come intrinsecamente malvagio”.
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Quali sono le conseguenze di questa frattura tra studiosi di genocidio e storici dell’Olocausto?
Non si tratta semplicemente di una disputa accademica. La cultura della memoria costruita negli ultimi decenni attorno all’Olocausto rappresenta molto più del solo genocidio degli ebrei: essa svolge un ruolo fondamentale nella politica, nell’istruzione e nelle identità.
I musei dedicati alla Shoah hanno fatto da modello per la rappresentazione di altri genocidi nel mondo. L’insistenza sul fatto che le lezioni dell’Olocausto impongano la promozione della tolleranza, della diversità, dell’antirazzismo e del sostegno a migranti e rifugiati — per non parlare dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale — si basa sulla comprensione delle implicazioni universali di quel crimine, nel cuore della civiltà occidentale al culmine della modernità.
Delegittimare gli studiosi che denunciano il genocidio di Israele a Gaza accusandoli di antisemitismo minaccia di erodere le fondamenta stesse degli studi sul genocidio: la necessità continua di definire, prevenire, punire e ricostruire la storia del genocidio. Insinuare che questo impegno sia invece mosso da interessi o sentimenti malevoli — dall’odio e dal pregiudizio che furono alla radice dell’Olocausto stesso — è moralmente scandaloso e apre le porte a una politica del negazionismo e dell’impunità.
Allo stesso modo, quando coloro che hanno dedicato la loro vita a insegnare e commemorare l’Olocausto ignorano o negano le azioni genocidarie di Israele a Gaza, mettono a rischio tutto ciò che lo studio e la memoria della Shoah hanno rappresentato negli ultimi decenni: la dignità di ogni essere umano, il rispetto per lo Stato di diritto e l’urgenza di non permettere mai che la disumanità prenda il sopravvento nei cuori delle persone e guidi l’azione degli Stati nel nome della sicurezza, dell’interesse nazionale o della vendetta.
Quel che temo è che, dopo il genocidio di Gaza, non sarà più possibile insegnare e studiare l’Olocausto come lo si è fatto finora. Poiché la Shoah è stata incessantemente invocata dallo Stato di Israele e dai suoi difensori come copertura dei crimini dell’I.D.F., lo studio e la memoria dell’Olocausto rischiano di perdere la loro pretesa di universalità, tornando nel ghetto etnico da cui erano partiti dopo la Seconda guerra mondiale — una preoccupazione marginale di un popolo marginalizzato — prima di affermarsi, decenni dopo, come lezione e avvertimento per l’intera umanità.
Altrettanto preoccupante è la prospettiva che gli studi sul genocidio nel loro insieme non sopravvivano all’accusa di antisemitismo, lasciandoci privi di quella comunità di studiosi e giuristi internazionali che potrebbe difendere i valori fondamentali del XX secolo proprio quando l’intolleranza, l’odio razziale, il populismo e l’autoritarismo minacciano di travolgerli.
Forse l’unica luce in fondo a questo tunnel buio è che una nuova generazione di israeliani affronterà il proprio futuro senza rifugiarsi nell’ombra dell’Olocausto, anche se dovrà portare la macchia del genocidio di Gaza perpetrato in suo nome. Israele dovrà imparare a vivere senza ricorrere alla Shoah come giustificazione dell’inumanità. Questo, nonostante tutto l’orrendo dolore che stiamo osservando, è un fatto di valore, e potrebbe, alla lunga, aiutare Israele ad affrontare il futuro in modo più sano, razionale, meno timoroso e meno violento.
Non sarà certo un risarcimento per l’enorme quantità di morte e sofferenza inflitta ai palestinesi. Ma un Israele liberato dall’opprimente peso dell’Olocausto potrebbe finalmente accettare la necessità ineludibile che i suoi sette milioni di cittadini ebrei condividano quella terra con i sette milioni di palestinesi che vivono in Israele, a Gaza e in Cisgiordania, in pace, uguaglianza e dignità.
Questo sarà l’unico vero e giusto bilancio finale.
Tratto da: – Omer Bartov – “I’m a Genocide Scholar. I Know It When I See It”, «The New York Times», July 15th, 2025 (archive.ph/0dpn2)
Traduzione a cura di Pino Cabras.