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L'economia dell'infelicità

Nessuno vuole consumatori felici. Essi sono inservibili, come un paio di scarpe senza suola per chi voglia camminare. [Federica Forte]

L'economia dell'infelicità
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26 Marzo 2015 - 08.37


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di Federica Forte

[right]Credo che le domande non siano mai sbagliate; le risposte potrebbero esserlo. Ma credo anche che astenersi dal fare domande sia la risposta peggiore di tutte. [/right]

[right](Zygmunt Bauman)[/right]

Fin dagli albori della civiltà, l’uomo si è arrovellato il cervello con domande importanti – importanti perchè avevano a che fare con la sua esistenza, il suo io, ciò che di più caro possedeva – senza mai trovare una risposta univoca che, una volta per tutte, ponesse fine al tormento di vivere nell’incertezza, di continuare nell’esasperante ricerca di una risposta che fosse una, univoca e certa.

Fin da quando l’umanità ha memoria, l’uomo si è posto domande quali: “Che cos’è l’amore”, “Che senso ha la vita, non solo la mia, ma quella dei milioni di individui che come me si ritrovano su questo pianeta?” “Che cos’è il dolore?”, “Perchè soffriamo?”, “Che cos’è la morte?”. Tra l’altro, l’uomo ha una peculiarità. Tra tutte le specie viventi, è l’unico a sapere – fin dalla sua venuta al mondo – di essere destinato alla morte, una morte imprevedibile ma certa.

Di fronte alla brevità di un’esistenza segnata fin dall’inizio dal marchio della deperibilità, aumenta il desiderio di comprendere, di emergere dall’oscurità dell’ignoranza, di sapere. La storia ci ha consegnato le opere di menti straordinarie e riflessioni ancora oggi di indubbio valore, eppure molte delle questioni essenziali restano ancora un mistero per noi, desiderosi di conoscere. Il pianeta e la natura con le sue specie viventi non hanno più segreti.

La materia è stata scandagliata in lungo ed in largo e l’uomo, grazie a complessi marchingegni, ha amplificato la potenza di occhi, braccia, orecchie. Il funzionamento del corpo umano non è cosa ignota e per la maggior parte delle malattie che affliggono la nostra specie esiste una cura. Sappiamo fare complessi calcoli matematici, riprodurre in laboratorio la materia, progettare maestosi edifici. Nonostante questo, almeno per ora – finché la tecnoscienza non avrà preso il sopravvento, e anche gli ultimi retaggi del pensiero filosofico saranno sepolti in polverosi volumi di biblioteche dimenticati – continuamo a porci domande e a vivere cercando una risposta, la nostra risposta al delicato problema di una vita mortale.

“Che cos’è la felicità?”. Sebbene si tratti di una domanda senza risposta, c’è chi allo stato attuale conduce indagini (ma sarebbe meglio chiamarle ricerche di mercato) per misurare la felicità delle nazioni e delle città. In occasione della giornata internazionale della felicità (celebratasi il 20 marzo scorso) l’Eurostat ha pubblicato i dati dell’indagine “[url”How satisfied are people with their lives in the European Union?”]http://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/6750366/3-19032015-CP-EN.pdf/bbf302b1-597d-4bf0-96c4-9876e49b5b9d[/url]”.

Al campione, costituito da individui di età superiore ai 16 anni, è stato somministrato un questionario per misurare la soddisfazione complessiva della propria esistenza, utilizzando una scala di misurazione a 11 punti (0= per niente soddisfatto, 11=pienamente soddisfatto). Molti simile all’indagine condotta lo scorso anno da GFK custom research per stilare, questa volta, la classifica delle città più felici del mondo.

C’è un fatto che salta subito agli occhi e cioè l’evidenza lampante per la quale un tale tipo di indagine non possa essere condotta utilizzando gli strumenti dell’indagine statistica. La felicità – concetto filosofico complesso – non è ne quantificabile né misurabile e non è possibile in nessun modo stabilire le dimensioni del fenomeno.

La somministrazione di un questionario avente per oggetto la rilevazione del numero di persone che si dichiarano felici è pressoché fuorviante, in quanto il concetto di felicità è altamente soggettivo e non dipende da criteri certi ed univoci. Non sappiamo cosa sia la felicità né come si possa raggiungere. Non sappiamo neppure se esista e se ci sia data in questa vita, per cui qualsiasi ricerca che miri a misurare scientificamente le dimensioni del fenomeno, risulta avere la stessa credibilità di una favola per bambini. A meno che, naturalmente, l’oggetto di indagine non sia qualcos’altro, ovvero la misura dell’infelicità.

Vi sono molti buoni motivi per credere che i finanziatori dell’indagine non siano affatto interessati a quante persone felici vi siano in Italia o in Polonia e, nel complesso, in Europa. Piuttosto, è lecito pensare che il vero obiettivo della ricerca sia quello di rilevare il numero di individui che si dichiarano infelici. Perchè, se è è difficile definire con precisione cosa sia la felicità, sicuramente è molto più facile riconoscere quando felici non si è. La misura dell’infelicità della popolazione europea è un ottimo indicatore del successo della politica economica, monetaria, sociale dell’Unione Europea e della più generale società capitalistica-consumistica.

Tanto più gli intervistati-consumatori si dichiarano infelici, tanto più successo la politica sta ottenendo, nel senso di procedere nella direzione voluta e progettata. Nessuno vuole consumatori felici. Essi sono inservibili, come un paio di scarpe senza suola per chi voglia camminare. Ed un consumatore felice, soddisfatto, appagato della propria esistenza è inservibile all’economia di mercato. Cosa vendere ad un individuo del genere? Quali motivazioni addurre? La pubblicità, con le sue promesse di successo, appagamento, desiderabilità sociale, avrebbe poca presa su individuo felice, in pace con sé stesso, soddisfatto di sé e della propria esistenza.

La società del consumo postula la crescita illimitata della produzione e la creazione infinita di beni, partendo dal presupposto che non ci siano limiti al miglioramento e che la tecnologia possa sfornare in continuazione prodotti capaci di semplificare la vita degli individui. Il suo successo si basa sulla “pauperizzazione psicologica” (Baudrillard) determinata da uno stato di insoddisfazione perenne che connota l’individuo odierno. Lo spremiagrumi elettrico, la lavatrice, la macchina e tutte le altre invenzioni moderne che avrebbero dovuto restituire il tempo all’individuo e con esso la serenità e la libertà, hanno sortito l’effetto opposto.

Anziché disporre di maggiore tempo libero per leggere, riflettere, fermarsi a meditare, trascorrere il tempo con amici e famigliari, camminare adagio verso una fontana, l’individuo si trova sempre più spesso oppresso dalla mancanza cronica di tempo libero. Gli spazi dell’esistenza individuale, inteso come tempo dedicato al sé e alla crescita personale, sono ridotti all’essenziale.

Perchè per pagare la lavatrice, le rate del mutuo e della macchina, ricomprare il frigorifero che si è rotto, pagare la babysitter che accudisca i figli mentre noi non ci siamo, bisogna poter contare su uno stipendio e per avere uno stipendio sufficiente a garantirsi i beni di prima necessità (che oggi sono divenuti i beni tecnologici e non solo) è necessario avere un lavoro full-time, che assorbe la maggior parte della giornata. Così rimane solo la sera, in cui si è troppo stanchi per dedicarsi a pensare o ad apprendere, e l’unica cosa che desideriamo è abbandonarci inerti sul divano di fronte alla televisione.

Trascorrendo la maggior parte della giornata chiusi tra le quattro mura di un ufficio, e non potendo sperimentare un’altra realtà che non sia quella delle scartoffie di ufficio, la nostra conoscenza del mondo e della vita passa attraverso concetti preconfezionati e trasmessi da altri, quali la famiglia, la scuola, i mass media. Le idee sulla vita e sul mondo, così, assurgono a concetti di natura storica, come le leggi, gli usi e le tradizioni, lo stesso linguaggio, che non possono essere avulsi dal proprio contesto storico e sociologico.

Non essendo frutto del libero pensiero ma piuttosto influenzati dal contesto, dalla comunicazione pubblicitaria, dai mass-media, essi appaiono più dei mezzi di omogeneizzazione che di esaltazione dell’individualità. E questo spiega perchè abbia senso condurre un’indagine volta a misurare la felicità dei cittadini europei, anziché avviare uno studio sicuramente più proficuo sul significato che oggi assume la felicità.

In Europa flagellata dalla disoccupazione, dal senso di impotenza, dalla paura per un nemico minaccioso che vuole imporre la sua religione, in cui l’individuo vive in uno stato continuo di messa in discussione di sé e della sua identità chi mai potrebbe dichiararsi felice?

Eppure, l’infelicità generalizzata emersa dall’indagine non è neppure totalmente ascrivibile alla terribile situazione economica che il continente sta attraversando. I dati raccolti dall’economista statunitense Richard Easterlin (da cui il paradosso di Easterlin, meglio noto come paradosso dell’infelicità) dimostrano come il livello di felicità delle persone non cresca in funzione della crescita del PIL. Al contrario, con il crescere della ricchezza economica la felicità in un primo tempo aumenta per poi cominciare a diminuire seguendo una curva a U rovesciata.

In un’epoca difficile in cui l’umanità ha perso la propria guida, i punti di riferimento, in cui la famiglia si disgrega e le identità individuali diventano sempre più volatili e malleabili, l’unico punto di riferimento diviene, paradossalmente, la televisione, unico elemento stabile (almeno fisicamente) in un’universo di senso che muta. Ed è la televisione ad istruirci sul concetto di felicità.

Felicità è quella degli individui che vediamo gioiosi sfrecciare sull’automobile nuova,con una moglie ed un paio di amanti, un lavoro di successo, invidiati ed ammirati da tutto il quartiere. Felicità è riempire l’esistenza di beni in grande quantità per sentirsi appagati il tempo di un istante (l’istante dell’acquisto) e la certezza – che si fa prospettiva luminosa – di poter desiderare ancora, cose nuove e migliori. L’ossessione per il corpo, per il benessere, per la capacità di difendersi sono anch’essi i mezzi attraverso i quali la pubblicità ci assicura la felicità (o almeno una sua parvenza). E anche la felicità diviene una questione economica.

(26 marzo 2015)

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