di Thomas Fazi
Dopo un negoziato di un anno, il governo italiano ha finalmente 
raggiunto un accordo con la Commissione europea in merito alla tanto 
discussa bad bank. Come temevamo, si tratta di un accordo molto al 
ribasso, che non risolve nessuno dei problemi di fondo del sistema 
bancario. Lo scopo di tale strumento, come è noto, è (dovrebbe essere) 
quello di aiutare le banche italiane a smaltire l’enorme quantità di 
crediti deteriorati (crediti per i quali la riscossione è incerta o 
impossibile) accumulatisi nel sistema dal 2008 ad oggi, in buona parte a
 causa della crisi epocale provocata dalle politiche di austerità.
Oggi questi ammontano all’incredibile cifra di 350 miliardi (pari al 
17 per cento del PIL), catalogati in quattro categorie, delle quali la 
più consistente e preoccupante è costituita dai crediti in sofferenza (non-performing loans),
 ossia i prestiti per i quali il debitore è già fallito, che ammontano a
 circa 200 miliardi. Poi ci sono gli “incagli†(prestiti che la banca 
reputa di improbabile restituzione); gli “scaduti†(da più di 90 
giorni); ed i “ristrutturati†(quelli su cui la banca è già intervenuta 
per facilitare il debitore sui tempi e sui tassi di restituzione).
Una tale montagna di crediti deteriorati non costituisce solo un 
freno per l’economia ma rappresenta una vera e propria bomba ad 
orologeria per l’Italia e per l’unione monetaria nel suo complesso. Una 
crisi bancaria del nostro paese, infatti, trascinerebbe l’intera area 
euro in acque inesplorate, potenzialmente mettendo a rischio la tenuta 
della moneta unica. Da cui gli sforzi del governo per cercare di 
liberare le banche da una parte dalle sofferenze; sforzi che hanno 
subìto una notevole accelerata nelle ultime settimane, probabilmente a 
causa della recente entrata in vigore, dall’1 gennaio 2016, dell’unione 
bancaria, che prescrive l’uso del bail-in
 – che prevede, in caso di dissesto di una banca, che il salvataggio 
venga pagato in primo luogo dagli azionisti, poi dagli obbligazionisti e
 infine dai depositanti che hanno oltre 100 mila euro – come principale 
strumento di risoluzione delle crisi bancarie. Questo ha fatto sì che i 
titoli ed i depositi delle banche italiane siano diventati 
improvvisamente molto più rischiosi; il sistema bancario italiano – 
proprio a causa della sua fragilità strutturale – si è ritrovato così 
esposto ad una forte sfiducia da parte dei mercati, nonché facile preda 
di attacchi speculativi (come abbiamo visto nel caso del Monte dei Paschi di Siena, deciso a tavolino da tre fondi speculativi statunitensi).
A questo si deve la “staffetta†del governo delle ultime settimane 
per ottenere da Bruxelles il via libera ad una bad bank, ritenuta 
essenziale per stabilizzare il sistema bancario. Finora Bruxelles si era
 opposta al piano del governo adducendo che essa avrebbe costituito un 
“aiuto di Stato†– illegale secondo le regole dell’UE e dell’unione 
bancaria – nei confronti delle banche italiane. L’approvazione del piano
 rappresenta quindi una vittoria del governo? Non proprio. Una bad bank 
“normale†– come quella a cui ha fatto ricorso la Spagna nel 2012, per 
esempio – funziona più o meno così: si crea un veicolo societario (che 
può essere interamente pubblico o pubblico-privato) che acquista dalle 
banche in difficoltà i crediti deteriorati (ad un prezzo scontato ma non
 eccessivamente penalizzante per le banche cedenti; nel caso della 
Spagna, si è applicato uno sconto del 53 per cento) con l’obiettivo di 
ricollocare sul mercato le attività ricevute (possibilmente con 
profitto); queste ricevono poi una garanzia dello Stato che serve a 
coprire eventuali perdite della bad bank nel caso in cui le attività 
determinassero un rendimento inferiore al prezzo di acquisto. Si tratta 
di una misura che ha (potrebbe avere) costi ingenti per lo Stato, 
soprattutto se non si ha la “copertura†di una banca centrale – e non 
solo in termini economici; la Spagna si è vista costretta a chiedere 
assistenza al Meccanismo europeo di stabilità, che in cambio ha imposto 
al governo spagnolo un severo programma di riforme strutturali – ma che 
ha il beneficio di determinare un rapido risanamento del settore 
bancario.
La bad bank italiana è tutta un’altra cosa. Innanzitutto, l’accordo 
raggiunto con Bruxelles non prevede una singola bad bank “di sistema†
pubblico-privata, sul modello spagnolo, ma la creazione di tante “mini 
bad bank†private – dette special purpose vehicles (SPV), 
“società veicolo†gestite da operatori internazionali specializzati nel 
recupero crediti – a cui le banche in difficoltà potranno cedere i 
crediti in sofferenza; queste società veicolo, poi, trasformeranno quei 
crediti in titoli cartolarizzati da destinare al mercato. Lo Stato, da 
parte sua, si impegna ad offrire alle banche una garanzia statale sui 
crediti deteriorati (GACS). A rigor di logica, questa dovrebbe servire, 
come negli altri paesi, a far sì che le banche non siano costrette a dar
 via i crediti al prezzo di mercato (ovviamente molto basso), poiché 
questo aprirebbe una voragine nei bilanci delle banche in questione 
(esattamente quello che in teoria la bad bank servirebbe ad evitare). 
Più è basso il costo dell’assicurazione pubblica, infatti, e maggiore è 
il prezzo al quale le banche potrebbero cedere i crediti deteriorati. Se
 quel costo fosse più alto, invece, la garanzia potrebbe risultare 
inappetibile e quindi inservibile ai fini dello sgravamento dei crediti 
inesigibili dal bilancio delle banche. Su questo punto, però, la 
Commissione europea è stata molto chiara: «Le garanzie saranno prezzate a condizioni di mercato
 in modo che non costituiscano aiuto di Stato», ha detto. Si tratta di 
un evidente paradosso: «un intervento dello Stato senza aiuto di Stato»,
 lo definisce causticamente un articolo de lavoce.info.
Il problema a questo punto diventa stabilire quale sia il “prezzo di 
mercato†dei crediti deteriorati. Questo, ha spiegato il MEF con un 
comunicato, sarà calcolato prendendo come riferimento il prezzo dei credit default swaps (CDS) degli
 emittenti italiani con un livello di rischio corrispondente a quello 
dei titoli garantiti che avranno preventivamente ottenuto un rating 
uguale o superiore all’investment grade da un’agenzia di rating. 
Questo solleva diverse problematiche. Innanzitutto, legare il prezzo dei
 crediti deteriorati al valore dei CDS delle banche appare decisamente 
rischioso. Come abbiamo visto con i mutui subprime o con il debito 
greco, i CDS non rappresentano solamente uno strumento per proteggersi 
da un’eventuale riduzione o azzeramento del valore del titolo 
sottostante né sono un semplice riflesso degli “umori†del mercato, ma 
possono essere impiegati anche come vero e proprio strumento 
speculativo. I cosiddetti “CDS nudiâ€, infatti, possono essere 
sottoscritti in assenza di qualsivoglia rischio creditizio effettivo, 
determinando così una situazione in cui i possessori di CDS hanno tutto 
l’interesse affinché scatti il credit event – nell’esempio in 
questione, il fallimento di una o più banche – determinando così 
l’esborso del CDS. Va da sé che la sottoscrizione di CDS nudi aumenta 
con l’aumento del rischio di insolvenza di un determinato credito.
In questo senso, legare il prezzo della garanzia statale – e dunque 
la possibilità delle banche di liberarsi dei propri crediti deteriorati 
senza incorrere in perdite di bilancio eccessive – al valore dei CDS 
delle banche stesse vuol dire, come minimo, esporsi al rischio di una 
classica profezia che si autoavvera (la perdita di fiducia nei confronti
 del sistema bancario italiano fa aumentare il valore dei CDS, il che 
rende più difficile per le banche liberarsi dei crediti che hanno in 
pancia, il che aumenta il rischio di default, il che fa aumentare il 
valore dei CDS, ecc.). Ma vuol dire anche mettere il destino delle 
banche italiane nelle mani di chi potrebbe avere interesse a provocare 
il fallimento delle stesse. A questo riguardo, è opportuno notare che 
dall’1 gennaio 2016 i prezzi dei CDS del settore bancario italiano sono 
aumentati vertiginosamente, a riprova del fatto che i mercati sono corsi
 a ripararsi da eventuali perdite, ma hanno anche cominciato a 
scommettere sul crack del nostro sistema bancario.
C’è poi un altro problema. Se il Tesoro rilascerà la garanzia solo ai
 titoli con minore rischio e solo a patto che abbiano un certo rating, 
significherà che soltanto i crediti considerati più sicuri saranno 
coperti dalla garanzia di Stato. Alcune banche – quelle più solide – 
potranno liberarsi di una buona parte delle loro sofferenze. Altre 
banche avranno il problema opposto, e saranno quelle che già oggi stanno
 messe peggio. Il meccanismo, in altre parole, aiuterà i più forti e 
sarà inutile per i più deboli. E non cambierà di molto la situazione del
 sistema nel suo complesso.
Sulla base delle informazioni (ancora piuttosto vaghe) di cui 
disponiamo al momento, infatti, possiamo ipotizzare che i prezzi di 
cessione delle sofferenze saranno decisamente bassi. L’agenzia Reuters 
ha riportato che il prezzo di cessione sarà pari a circa il 20-30 per 
cento del loro valore nominale. Ciò a fronte di livelli di copertura 
medi del 56,5 per cento per i prestiti in sofferenza del settore: 40-50 
per cento per le piccole banche italiane e 60-65 per cento per Intesa 
Sanpaolo, Unicredit e MPS. Questo vuol dire che le banche – con o senza 
la bad bank – dovranno affrontare ulteriori perdite e avranno ugualmente
 bisogno di nuove e massicce ricapitalizzazioni nei prossimi anni. E si 
parla di decine di miliardi. Lo ha spiegato bene, tra gli altri, Silvia Merler dell’istituto Bruegel.
 Nel frattempo, il sistema bancario italiano continua a rimanere seduto 
su una bomba pronta ad esplodere. Tutto questo è molto chiaro al 
mercato: appena conosciuti gli estremi dell’accordo europeo, i titoli 
bancari italiani hanno incassato perdite pesanti, con Unicredit che per esempio ha perso il 3 per cento.
In sostanza, il ricorso al bail-in, per molte banche italiane, viene 
solo rimandato di un po’. Sembra saperlo anche il governo, che difatti 
adesso sembrerebbe intenzionato a voler ridiscutere la norma. Il sasso 
nello stagno l’ha gettato la Banca d’Italia. Il vicedirettore generale 
dell’istituto di via Nazionale, Fabio Panetta, non ha usato mezze 
parole: «È auspicabile da parte del legislatore sia italiano sia europeo
 una attenta rivisitazione delle modalità e dei tempi». Un appello, 
all’Italia e all’Europa, che rilancia le perplessità di via Nazionale 
sull’impianto entrato in vigore all’inizio dell’anno. Per la Banca 
d’Italia, infatti, bisognava aspettare il 2018 perché, viene spiegato, 
questo meccanismo «può aumentare i rischi di instabilità sistemica 
provocati dalla crisi delle singole banche». Un elemento, su tutti, 
preoccupa Bankitalia: mettere a repentaglio la fiducia, considerato 
l’elemento cardine su cui poggia l’attività bancaria.
Dietro la volontà di rivedere tempi e modalità del bail-in c’è anche 
il supporto del governo secondo quanto trapela da ambienti 
dell’esecutivo. Anche il centro studi di Confindustria è andato giù 
pesante: per viale dell’Astronomie le nuove norme sono penalizzanti per 
l’Italia e costituiscono «un ostacolo serio alla risalita dell’attività 
economica».
Ben vengano questi ripensamenti, anche se ci si chiede a cosa 
stessero pensando i nostri politici – ed in particolare i rappresentati 
dell’attuale partito di governo – quando nel 2013-4 votarono quasi 
all’unanimità, sia al Senato che al Parlamento europeo, per l’unione 
bancaria (bail-in compreso, ovviamente). La cosa diventa semplicemente 
grottesca, poi, se si pensa che solo qualche settimana fa – mentre Renzi
 tuonava contro Bruxelles – in plenaria a Strasburgo il Parlamento 
europeo, con i voti del gruppo socialista, votava il “Report sul bilancio e le sfide concernenti la regolamentazione dell’UE in materia di servizi finanziariâ€,
 in cui non solo si inneggia alla bontà del bail-in (al paragrafo 14, 
per chi fosse interessato), ma addirittura viene sottolineata la 
necessità (al paragrafo 24) di affrontare le interdipendenze tra rischio
 sovrano e rischio bancario «attraverso un’azione congiunta», avallando 
di fatto la soluzione caldeggiata dalla Germania per la ristrutturazione
 dei debiti pubblici: obbligare gli istituti a considerare i titoli di 
Stato che hanno in pancia non più come privi di rischi. Una soluzione 
che di fatto costringerebbe le banche a scaricare i loro titoli di Stato
 vendendoli sui mercati in maniera massiccia, causando un circolo 
vizioso che porterebbe in breve tempo al collasso del sistema. Su una 
cosa possiamo stare certi: il peggio deve ancora arrivare.
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Fonte: http://www.eunews.it/2016/01/29/bad-bank-lennesima-beffa/49394