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Banche da paura/2

'Sette anni dopo la Grande Crisi la crisi il sistema bancario è sempre più fragile e sempre più intoccabile. La seconda puntata dell''inchiesta di Sbilanciamoci. [Vincenzo Comito]'

Banche da paura/2
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1 Febbraio 2016 - 09.54


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di Vincenzo Comito

Le difficoltà delle banche sono state scaricate, negli scorsi anni, da una parte sulle casse statali, dall’altra sui lavoratori del settore, mentre i dirigenti delle grandi istituzioni, responsabili della gran parte dei guai, sono usciti sostanzialmente indenni; qualcuno di essi, al massimo, è stato congedato dal suo incarico, ma con liquidazioni milionarie. Intanto il sistema degli incentivi, a suo tempo così perverso, è lungi dall’essere stato ridisegnato come conviene.

Dallo scoppio della crisi ad oggi si sono persi così circa 600.000 posti di lavoro in occidente. Negli ultimi cinque anni solo in Europa sono scomparse 225.000 posizioni e nel solo 2015 i grandi gruppi bancari europei hanno annunciato 130.000 riduzioni di occupati (Chocron, 2015). Tale cifra deriva sia dalla sparizione di decine di migliaia di posti di lavoro che dalla ristrutturazione del perimetro delle attività a livello geografico o settoriale.

L’innovazione tecnologica e lo sviluppo dell’home banking hanno contribuito anche esse alla riduzione degli effettivi.

Banche universali e banche di investimento

Il modello della banca universale prevede che gli istituti, oltre a sviluppare l’attività di banca ordinaria, prendano partecipazioni nelle imprese, sviluppino attività di trading in proprio sui mercati, svolgano consulenza finanziaria per i propri clienti nel reperimento delle risorse, nei processi di emissione di titoli, nelle operazioni di fusione ed acquisizione.

Negli Stati Uniti tale modello non si è potuto affermare sino a tempi recenti, dal momento che il Glass Steagall Act del 1933 aveva imposto la separazione tra le attività di banca ordinaria e quelle di banche di investimento. Ma nel 1999, sotto la presidenza Clinton, il divieto è stato rimosso.

Ma ora tutto sembra rimesso, almeno in parte, in discussione.

Appare chiaro che il modello della banca universale è aperto oggi a degli inconvenienti difficili da superare: da una parte, l’ipotesi illusoria che combinando i differenti mestieri in una sola istituzione si riducano i costi, dall’altra la presa di consapevolezza che l’attività di banca ordinaria e quella di banca di investimento sono due mestieri differenti, che richiedono diverse competenze e talenti (Reed, 2015).

L’investment banking è diventato un business sempre più difficile. BasileaIII e lo stesso governo Usa hanno alzato le richieste di capitale e di liquidità per svolgere molte di tali attività; tra l’altro, le nuove regole richiederanno un livello di mezzi propri molto più elevato di prima per le attività di trading, mentre la concorrenza preme sui margini di profitto. Per altro verso, tale mestiere richiede di fare molte cose differenti in molti posti contemporaneamente e questo è diventato molto difficile (Gapper, 2015).

Negli ultimi tempi si è assistito così a un proliferare di progetti di ristrutturazione da parte delle grandi banche europee, anche perché esse ottengono una redditività che, oltre che in riduzione, è anche inferiore a quella delle banche statunitensi. I nuovi requisiti di capitale le stanno spingendo a concentrarsi nelle attività capital light (consulenza su fusioni ed acquisizioni, e nell’aiutare i clienti a trovare dei capitali sul mercato) e a tralasciare le altre (trading in particolare). Altri istituti continuano a fare tutto, ma di meno (Noonan, 2015). Alla fine, c’è comunque un tema comune per le banche di investimento europee: ritirata (Gapper, 2015).

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