Nino Galloni, economista, per molti anni direttore generale del Ministero del Lavoro, torna nuovamente su Byoblu.com, nel servizio di Eugenio Miccoli.
Nino, secondo Roberto Napoletano, ex direttore del Messaggero e del Sole 24 Ore: “La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il sud a una grande tendopoli“. (Corriere della Sera, 4.12.2017 p.10). Cosa ne pensi?
La situazione italiana
Innanzitutto vorrei sottolineare che Roberto Napoletano non è un personaggio qualsiasi. È stato molto vicino a quello che – volgarmente – chiamiamo “il potere“. Quindi se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte, vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura. Perché quello zero-virgola di PIL (che tra l’altro si deve distribuire su un numero di residenti crescente, e quindi c’è una riduzione del reddito procapite in tutti i sensi) si associa al fatto che ci sono circa 20 milioni d’italiani che stanno andando bene, ma questo significa che sugli altri 40, oltre ai 15 che sono in una condizione di povertà vera e propria, non ce ne siano altri 25 che stanno vedendo peggiorare la propria condizione. Quindi non si sa fino a che punto tutto questo sia sostenibile. Perché il paradosso è che quelli che stanno bene possono pagarsi servizi sanitari per i figli, assistenza agli anziani e quant’altro di tasca propria, perché se lo possono permettere. I più poveri – bene o male – hanno accesso alla gratuità, ma il grosso della classe media non ha sufficiente reddito per pagarsi i servizi essenziali, e in alcuni casi neppure per andare a fare la spesa al supermercato o andare al cinema, al ristorante o in vacanza, per pagare le bollette, le rate del condominio e così via. Di contro però, allo stesso tempo, non ha accesso alla gratuità del welfare residuale.
L’evoluzione dei rapporti con la Francia
Ciò detto vorrei prenderla un po’ alla lontana. Fino alla fine della prima guerra mondiale, e fino al fascismo, fondamentalmente i nostri rapporti con la Francia erano ben definiti. Loro erano i cugini o i fratelli maggiori, avevano un’importanza in Europa che noi neanche scalfivamo. Poi un po’ durante il fascismo, ma soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, è successo il grande imprevisto, cioè che questo paesetto agricolo (ndr:l’Italia) con capacità artistiche, archeologiche, turistiche e via dicendo… pur con una sua presenza industriale (non ci dimentichiamo che all’inizio del ‘900 Henry Ford diceva: “Quando vedo passare un’Alfa Romeo mi levo il cappello“), con il miracolo economico italiano – quindi gli anni ’50, ’60 e ’70 – è cresciuto enormemente. Molto più della Francia, molto più della Germania. Aveva quasi raggiunto la Francia. Probabilmente negli anni ’70, se avessimo fatto gli investimenti giusti nelle telecomunicazioni, se non ci fossimo fatti sfilare il personal computer – di cui siamo stati inventori – per una sottovalutazione della sua commerciabilità, probabilmente avremmo superato la Francia. La Germania era comunque lontana, però la Germania subiva la nostra concorrenza.
Poi – come ho detto tante volte – fu essenziale il passaggio dell’89 in cui la Germania, per riunificarsi, doveva avere l’appoggio della Francia e quindi rinunciare al Marco, ma soprattutto doveva trovare il modo per frenare l’Italia. Perché un’Italia estremamente competitiva avrebbe reso l’opera di riunificazione della Germania proibitiva. In questo contesto, quindi di “fratelli minori” che avvicinano i “fratelli maggiori” e quasi li potrebbero superare, maturano alcune rotture gravi che sono soprattutto legate alla figura di Enrico Mattei.
Perché hanno ucciso Enrico Mattei
Enrico Mattei rompe il cartello delle “Sette Sorelle” accordandosi con gli arabi e quindi conquistando l’appoggio degli arabi moderati che – in fondo – a quei tempi (qui stiamo parlando degli anni ’60) erano la maggioranza (non c’era ancora un estremismo islamico, se non in piccole espressioni che erano tenute sotto controllo). Erano un bel cartello, le “Sette Sorelle”, ma lui fa accordi con l’Iran, con il Nordafrica e con i Paesi arabi di spartizione dei profitti.
Questa tuttavia non è la ragione per cui Mattei viene ucciso! Viene ucciso perché quando poi le “Sette Sorelle” – e in particolare i francesi – gli porgono la mano per fare pace e gli propongono di entrare in cordata con loro sul gas algerino, prima che si completi l’esperienza di indipendenza dell’Algeria stessa, Mattei dice: “No! Io tratterò solo col legittimo Governo algerino, che è quello del popolo, che è quello rivoluzionario, che è quello anti-francese“. E così avviene: gli algerini vincono la loro guerra di indipendenza nazionale, fanno gli accordi con l’Italia e però, poco dopo, Mattei viene ucciso. Le ultime ricostruzioni convergono sul coinvolgimento dei Servizi Segreti francesi.
Da Aldo Moro a Silvio Berlusconi
L’altro uomo odiatissimo in Europa era Aldo Moro, il quale si lamentò del fatto che i francesi e gli stessi Servizi della Fiat (Eni e Fiat avevano una loro polizia segreta in gran parte composta da ex poliziotti e carabinieri) non comunicassero tutte le notizie a riguardo delle “Brigate Rosse”, e che addirittura alcuni brigatisti venissero ospitati in territorio francese.
guarda l’intervista di Byoblu a Pietro Ratto: “Cose che Moro sapeva“
E quindi ecco che il terzo elemento è un personaggio – diciamo – meno di spicco rispetto a Mattei e Moro, ma che però in qualche modo c’entra nel discorso. Ha a che vedere anche lui con il Nordafrica e con la Libia: è Silvio Berlusconi. Quando a un certo punto i francesi e gli inglesi convincono Obama ad attaccare Gheddafi, per varie ragioni (tra le quali soprattutto il fatto che la Francia ha dei problemi con la costruzione di nuove centrali nucleari per produrre energia e quindi ha bisogno di contratti in Nordafrica, in particolare in Libia), coalizzandosi grazie al “benign neglet” (benevolo disinteresse) americano, la Libia si spaccherà in mille rivoli e sarà una delle ragioni fondamentali dell’immigrazione. In quel contesto Berlusconi abbandona il suo amico Gheddafi (e quindi il rapporto privilegiato dell’Italia con la Libia) perché viene ricattato (una mattina di luglio del 2011) con l’aggressione a Mediaset. Il Titolo in poche ore perde il 40%, e a quel punto è chiaro che deve abbassare la testa e accettare la terza grande aggressione degli interessi nazionali dell’Italia da parte da parte dei francesi.
La nuova aggressione francese.
Ora, il contesto qual è? Che l’Italia deve risolvere il suo problema sociale. Noi non abbiamo più un welfare universale, abbiamo solo un welfare residuale, che sta creando ulteriori lacerazioni sul territorio, anche perché spesso è destinato soprattutto agli immigrati. E quindi crea tensioni politiche e sociali che poi diventano determinanti nelle scelte politiche dell’elettorato. Questo non è un fattore positivo. In Italia ci sono 4 milioni di imprese, su quattro milioni e mezzo, che ormai sono fuori dal capitalismo perché non lavorano più per il profitto, ma per controllare risorse reali, darsi una dignità, un futuro e sfuggono a quelle che sono le regole dell’economia e della finanza, perché se le avessero applicate, avrebbero dovuto vendere l’azienda e vivere di rendita finanziaria. E invece hanno continuato a tenere aperto, nonostante tutto, perché hanno pagato le tasse sulle perdite, non hanno avuto nessun aiuto dal sistema bancario, con le infrastrutture che vanno male, con la pubblica amministrazione che li considera dei banditi eccetera. Però queste imprese – queste piccole imprese italiane – hanno la caratteristica di essere competitive sui mercati internazionali, tant’è che noi siamo, con la Germania (anche se la Germania lo è molto più di noi), l’unico Paese che ha visto aumentare le esportazioni. E stiamo parlando solo di 9 miliardi di Euro. Non è tanto, però è significativo che ci sia un segno positivo. Ma ancora più significativo e positivo è che ci sia stata una riduzione di 40 miliardi di euro nell’importazione di prodotti agricoli e alimentari, dovuta ad un impressionante ritorno di tre milioni e duecentomila giovani che si sono impegnati nell’agricoltura, per fare quello che i loro padri non volevano fare e riprendere il mestiere dei nonni. Sono tornati a fare quello che si faceva in Italia prima del miracolo economico, che è stato soprattutto un miracolo industriale.
Quindi abbiamo mantenuto – pur perdendo tutta la nostra grande industria privata (l’80% di quella a partecipazione statale, che era un gioiello, ma quel 20% che rimane ancora fa molta gola a parecchi, compresi i francesi) l’80% della piccola industria, delle piccole imprese, che hanno resistito per le ragioni che ho detto prima ma che sono tutte da studiare. Però stiamo parlando di più di 7 milioni di famiglie che poi corrispondono grosso modo a quel 50% di elettorato che non va più a esprimersi. È gente che non si farà abbindolare da nessuno di quelli che si presentano alle elezioni a meno che qualcuno capisca il problema dell’Italia qual è.
In Francia mi sembrano impossibilitati invece a risolvere il loro grande problema, che è quello di un paese diviso fra cittadini di serie A e cittadini di serie B. È vero che da noi sembra quasi lo stesso, perché c’è la serie A e c’è la serie B: però da noi è esclusivamente un problema di censo, mentre da loro è un problema di nazionalità. E questo ovviamente fa sì che lo studente che si è preso una laurea e che vive nella banlieue parigina non potrà mai accettare questo sistema francese. Ora, i grandi potentati finanziari che finora si erano orientati verso i grandi immobili, i grandi alberghi e così via, adesso stanno puntando all’agricoltura, ai terreni. E quindi è chiaro che cercheranno di entrare con grandi capitali per comprare – con la scusa dei “Non Performing Loans” delle crisi del sistema bancario italiano, i mutui al 10/20% del loro valore nominale, per poi rivendere gli appartamenti al 20/30% del mutuo residuo stesso. È un’operazione semplicissima, però potrebbe essere estremamente drammatica.
In tutto ciò una spaccatura tra nord e sud, come dice Napoletano.Può far parte delle strategie di chi non ci vuole troppo bene. Però poi è difficile che queste ciambelle riescano col buco, perché l’Italia ha le energie per reagire e rimettersi in pista. La grande incognita è: che succederà del “Quantitative Easing“, della Commissione europea, delle grandi linee di politica economica? Cioè prevarrà un ritorno alle posizioni più rigide, quindi riduzione o annullamento del Quantitative Easing e riapertura del problema spread, che è un grande ricatto nei confronti del Paese? Si insisterà sul Fiscal Compact o cose simili, che ovviamente ci metterebbe in ginocchio? Oppure i cosiddetti falchi perderanno, ma ci sarà al contrario un recupero dei rapporti fra i vari Paesi? Perché nessuno è nemico della Francia, né la Francia è nemica dell’Italia, però è ovvio che i grandi potentati finanziari e le grandi multinazionali sono – per loro stessa natura – predatori. E sono predatori che non guardano in faccia a nessuno. E dove vedono delle prede di più facile cattura (come siamo noi italiani, perché non abbiamo un Governo, non abbiamo una guida, non abbiamo una pubblica amministrazione che funziona, non abbiamo un sistema bancario adeguato alle condizioni, non abbiamo – salvo alcune eccezioni – un sistema infrastrutturale adeguato) è chiaro che loro se ne approfitteranno.
Io ho sentito dire che l’anno prossimo dovrebbero quotarsi in Borsa le Ferrovie dello Stato. Sarebbe un gravissimo errore perché dopo, invece d’inseguire il miglioramento del servizio, dovranno inseguire l’aumento dei saggi d’interesse, altrimenti il titolo perderebbe valore. Quindi sarebbe un errore clamoroso quotare in Borsa le Ferrovie dello Stato.Vedo qualche somiglianza tra la situazione attuale e quello che è successo nell’89 con l’annessione – chiamiamola così – della Germania est alla Germania ovest. È in atto una sorta di de-industrializzazione a vantaggio di élite europee ed extra-nazionali a svantaggio della nostra popolazione.
Come possiamo tenerci le industrie?
Dei modi ci sarebbero, ma fanno perno sul ripristino della sovranità nazionale, la quale ovviamente ha due facce opposte: una è quella di chiudere le frontiere e abbandonarsi a dichiarazioni esagitate su cose che non si possono ottenere nell’immediato, e che soprattutto la gran parte della popolazione teme, come l’uscita dall’Euro, l’uscita dall’Europa Unita e così via; l’altra poggia sulla consapevolezza che tuttavia quest’Europa e questo Euro non stanno funzionando: potrebbero veramente implodere e quindi noi dovremmo affiancare alla moneta internazionale – che è straniera – una moneta nazionale. E gli altri Paesi dovrebbero fare lo stesso. La quale non è proibita dai trattati europei, perché avrebbe solo circolazione interna, ma sicuramente servirebbe per fare quegli investimenti e quelle assunzioni – dove servono – per ridare al Paese respiro e ripristinare quel concetto di “welfare universale” che ci salva dalla guerra civile.
Una volta le crisi economiche erano dovute alla mancanza di risorse reali, cioè mancava la farina, mancava il grano e la gente assaltava i forni per prendere il pane perché aveva fame. Quindi il concetto di “crisi economica”, storicamente, significava carenza di produzione. Ma dopo il 1970, periodo durante il quale l’umanità ha raggiunto livelli di capacità produttive e tecnologiche esagerate – diciamo così -, la crisi ha iniziato a significare che la gente non ha abbastanza reddito. Ma se la moneta non ha un costo perché non c’è più l’aggancio all’oro e soprattutto può essere illimitata – come stanno dimostrando le Banche centrali – perché le capacità produttive sono parimenti illimitate, perché la gente non ha abbastanza reddito, perché non circola? perché abbiamo questa grande crisi di liquidità?
A fronte di questa crisi di liquidità corrisponde il fatto che lo Stato, non esercitando la propria sovranità monetaria, si trova nella stessa situazione di qualunque disgraziato e debba chiedere in prestito il denaro se vuole fare investimenti, e non ne può fare di più grandi rispetto a quello che incamera con le tasse, per cui c’è sempre una spinta o ad aumentare le tasse o, se si riducono le tasse, a ridurre di più le spese. Ma è questo che ha impoverito la classe media. Quando la classe media dice: “Ridurre le tasse, ridurre le tasse, ridurre le tasse!“, non si rende conto di quella che è stata l’esperienza dei Bush negli Stati Uniti che, a fronte appunto di una riduzione delle tasse (quindi acquisizione di maggiori risorse per la classe media), ha sperimentato per la stessa classe media un maggiore esborso per mandare i figli a scuola, per curarsi e per i trasporti. A quel punto la classe media non solo s’impoveriva, ma soprattutto non aveva risorse per i consumi. E se non aumentano i consumi, non ci può essere la ripresa.
I consumi aumentano ad esempio perché aumentano i salari, ma oggi non ci sono le condizioni perché purtroppo ce le siamo bruciate per tutta una serie di scelte furiosamente sbagliate in tutti i campi, cioè tutte le politiche che hanno portato la flessibilizzazione del lavoro in precarizzazione. Questo ovviamente ha impoverito tutti. Ma poi non ha fatto gli interessi delle imprese. Sì, forse quelli delle multinazionali che venivano qui a depredare, ma l’impresa normale non ha un vantaggio da un fenomeno complessivo in cui i lavoratori sono sotto-pagati, perché se i lavoratori sono sotto-pagati, allora chi compra i suoi prodotti? Si potrebbe rispondere: “ci pensano le esportazioni”. Ma per essere competitivi con le esportazioni – cioè con Paesi dove i salari sono ancora più bassi dei nostri – devi ridurre i salari. Quindi è sempre un cane che si morde la coda, perché per essere competitivo devi ridurre la domanda interna, ovvero l’economia interna. Che è esattamente il modello europeo. Per questo non funziona il modello europeo. Dev’essere superato. Se non si supera questo modello deflativo, il salario sull’occupazione, non ne usciamo vivi nessuno. Questo lo devono capire i francesi, i tedeschi o gli olandesi e tutti quanti.
guarda l’intervista di Mario Monti alla CNN dove ammette di avere deliberatamente distrutto la domanda interna: “Monti confessa: stiamo distruggendo la domanda interna“
Uno Stato esercita la propria sovranità monetaria, ma non lo fa da epoche immemorabili, perché una volta emetteva moneta per fare delle guerre strane, delle conquiste coloniali impossibili, e poi falliva tutto, falliva la moneta, falliva lo Stato e quindi s’è detto che lo Stato non deve più battere moneta, se non con l’unica eccezione della moneta metallica, che era rimasta appannaggio dello Stato, oppure le famigerate 500 Lire di carta.
Possiamo emettere delle statonote, invece delle banconote?
In realtà lo Stato italiano, così come era stato negli altri Paesi dell’eurolandia, può emettere una sua moneta in qualsiasi momento. Infatti l’art. 128a dice che “Non possiamo stampare banconote“, ma qui stiamo parlando di biglietti di Stato, che sono una cosa diversa dalle banconote. Io sto parlando di “statonote”, le quali ovviamente avranno circolazione nazionale. Non possono avere circolazione europea perché i francesi non lo accetterebbero, ma in Italia le possiamo utilizzare per assumere, per fare investimenti, perché poi chi le accetta le utilizzerà per pagare le tasse. E soprattutto, risolveremo il problema dell’introduzione del Pareggio di Bilancio nell’articolo 81 della Costituzione (regalo di Monti), perché se abbiamo spese superiori alle tasse, basterà aggiungere questa moneta-sovrana la quale – non essendo a debito – avrà lo stesso segno algebrico delle tasse, e cioè il segno +. Quindi: tasse + moneta sovrana = spesa. E abbiamo anche il pareggio di bilancio senza tanti drammi. Per quanto riguarda le monete, cioè l’art. 128/bis, esse vengono stabilite dalla BCE in base a dei plafond nazionali, e quindi non possiamo coniare monete metalliche della stessa pezzatura di quelle che abbiamo in tasca. Ma possiamo farlo con altre pezzature. Già la Finlandia lo fa con monete da 2,50 € e la Germania ha emesso monete da 5 €. Anche in Italia sono state emesse monete da 10 €.
L’Europa Unita, la radice di tutto?
L’impulso originario del progetto europeo (aldilà di altri discorsi complottistici che hanno dei fondamenti, perché è vero che Kalergi aveva previsto certe cose, ma non è stata questa la spinta fondamentale) è partito dal bisogno di evitare che si ripresentassero quei nazionalismi che hanno portato a due guerre mondiali, con decine e decine di milioni di morti. E quindi si doveva costruire un’Europa che collabora. Nasce così la Comunità del carbone e dell’acciaio, poi il discorso agricolo eccetera. In realtà, la filosofia dominante fino al 1979 era che chi fosse stato più forte doveva fare delle rinunce per aiutare gli altri. Cosa che poteva funzionare fino a un certo punto, perché comunque i francesi e tedeschi facevano i “marpioni”, i “furboni”, e noi italiani – come al solito – invece aiutavamo gli spagnoli, i greci e i portoghesi a entrare.
Dopo il 1979, con il G7 di Tokyo, si rompe il patto di solidarietà e l’Europa ne risente, per cui il progetto europeo diventa un altro. E allora lì avvengono tutta una serie di scelte che poi porteranno all’Euro. Ora: l’Euro non è la causa dei nostri mali. L’Euro è la conseguenza. Quindi, a prescindere da quelle che erano le idee fondative dell’Europa – su cui si può fare una discussione in un’ottica di ricerca storica -, non c’è dubbio che fino al 1979 le cose andassero in un modo diverso rispetto a quello che è successo dopo il G7 di Tokyo. A quel punto l’abbrìvio è stato molto negativo, ma si voleva fare una politica (si chiamava “di convergenza”) che costringesse gli Stati ad avere gli stessi parametri finanziari, anche se avevano situazioni diverse a livello di economia reale. E poi magari si dava un contentino con i fondi la coesione eccetera, che furono utili soprattutto per i Paesi – cito per tutti la Polonia – che entravano nell’Unione Europea in condizioni molto difficili. Già meno all’Ungheria, che aveva una migliore diversificazione merceologica. Però alla fine ci siamo trovati con un’Europa dove l’obiettivo è la massimizzazione delle esportazioni, anche a basso valore aggiunto, che si realizzano riducendo salari e occupazione. Quindi è una politica deflativa dove l’Euro funge da moneta straniera, artificiosamente scarsa, che per averla devi pagare.
La moneta parallela statale, che non è a debito, è una via di uscita. Non è l’unica, ma è un passaggio fondamentale perché dobbiamo rompere l’artificiosità della scarsità, perché sennò non ne usciamo. Ad esempio, per fare il reddito di cittadinanza dobbiamo togliere a una parte della classe media delle risorse per darle a quelli che non hanno reddito. Non abbiamo capito niente! Il reddito di cittadinanza dev’essere che mancano 7/8 milioni di posizioni lavorative per mandare a regime tutte le esigenze della società italiana in termini di ambiente, di assetto idrogeologico del territorio, di cura delle persone, soprattutto gli anziani, ma anche i bambini e di recupero del patrimonio artistico, archeologico e comunque esistente: manutenzioni e via dicendo. Le strade, le ferrovie eccetera.
Quindi, se davvero vogliamo essere un Paese moderno, è chiaro che abbiamo bisogno di 7/8 milioni di addetti. Ma non ne abbiamo, quindi non c’è bisogno di fare il reddito di cittadinanza. Dobbiamo rompere la condizione di scarsità artificiosa che è voluta per asservire la gente e rendere un costo la democrazia. Invece, la democrazia dev’essere un modo che noi scegliamo per vivere, come scritto nella nostra Costituzione. Ma se noi diciamo che la democrazia non ce la possiamo permettere – perché non abbiamo i soldi per gestirla – è chiaro che non c’è soluzione. Noi dobbiamo realizzare i principi, i valori della Costituzione, ma per farlo dobbiamo rompere la trappola della scarsa liquidità. Queste emissioni (le statonote) ovviamente possono essere a corso legale solo a livello nazionale, ma potrebbero anche non essere a corso legale, perché lo Stato può emettere la moneta in condizioni fiduciarie. Basta che poi la accetti in pagamento delle tasse. Questa è la formula per cominciare, dopodiché poi dobbiamo decidere cosa fare con queste risorse, perché se poi ci facciamo delle porcherie, delle opere inutili, “ruba-ruba” e “magna-magna“, non è che miglioriamo molto la situazione.
Il debito pubblico nasce come meccanismo per drenare la liquidità in eccesso – ovvero il risparmio in eccesso – e fare un patto con quelli che hanno possibilità di risparmio: “Non vi aumentiamo le tasse, però ci date in prestito i vostri risparmi. Poi ve li ridiamo, e vi diamo anche un interesse. E se invece non li volete comprare, vi aumentiamo le tasse, quindi vi conviene comprare!“. È così che nasce il debito pubblico. Si è sempre trattato quindi di una partita di giro tra cittadini benestanti e Stato. Poi a un certo punto ha cominciato a essere venduto all’estero, perché era troppo remunerativo, quindi tutti lo volevano. Già dopo il 1981, la maggioranza dei possessori di Titoli del debito pubblico italiano erano stranieri. Con la differenza che all’interno, tu stampi la moneta e te li ricompri, mentre all’esterno devi provvedere con la moneta con cui è stata assunta l’Obbligazione. Quindi adesso noi abbiamo il debito pubblico denominato in una valuta straniera, e gran parte di questo debito è in mano straniera. E questa andrà pagata in Euro, perché se l’Euro non cade, noi non possiamo stampare moneta pubblica per comprare il debito pubblico estero. Per farlo, dovremmo approvvigionarci di valuta straniera, cioè di Euro, e mantenere i nostri impegni. Invece, a livello interno, alle scadenze noi possiamo ricomperare i titoli, cioè corrispondere il capitale iniziale nella nuova valuta.