‘di Monica Centofante
Uno scontro durissimo, poi la decisione di Alfredo Mantovano, appoggiato dai rappresentanti delle forze di Polizia di cui è composta la Commissione del Viminale, di rigettare l”ammissione al programma definitivo di collaborazione di Gaspare Spatuzza.
Il pentito che al processo contro Marcello Dell”Utri ha osato pronunciare il nome del senatore del Pdl e quello del premier Silvio Berlusconi.
Lo scorso 15 giugno degli otto componenti della Commissione, sette erano presenti al voto. Tra questi i due magistrati Maurizio De Lucia e Gianfranco Donadio, che si sono battuti per ore perché l”ex boss di Brancaccio, già fedelissimo dei potenti fratelli Graviano, potesse ottenere lo status di collaboratore e la protezione necessaria a chi si espone in prima persona contro l”organizzazione criminale mafiosa. Una lotta vana, perduta in partenza di fronte alla “ragion politica”. Perché a leggere le motivazioni della Commissione del Ministero del”Interno altro non traspare.
Ben tre procure della Repubblica avevano chiesto per Spatuzza l”ammissione al programma di protezione dopo aver riscontrato punto per punto le rivelazioni del pentito e parere positivo era arrivato anche dalla Direzione Nazionale Antimafia. Ma per la prima volta nella storia questo non è stato sufficiente.
Nel testo firmato dal sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano si ripercorrono tutte le dichiarazioni “controverse”, a parere del politico, che dimostrerebbero la tardività delle rivelazioni del pentito sulla presunta trattativa in corso, negli anni caldi delle stragi, tra Giuseppe Graviano, Marcello Dell”Utri e Silvio Berlusconi. Nello specifico ci si riferisce al noto colloquio tra lo stesso Spatuzza e il boss Giuseppe Graviano all”interno del bar Doney di Via Veneto, a Roma, nel gennaio del 1994. Quando Graviano, euforico, al suo braccio destro avrebbe detto: grazie a Berlusconi “e c”era di mezzo un nostro compaesano, Dell”Utri” (“una persona vicinissima a noi”, “qualcosa di più di Berlusconi”) “ci siamo messi il Paese nelle mani”.
Informazioni, recita il documento del Viminale, rese dopo i 180 giorni previsti dalla legge “per riferire fatti gravi o comunque indimenticabili”.
Ma la verità risiede altrove. E non soltanto perché il pentito aveva approfondito fatti già inseriti in un elenco consegnato alle procure entro i 6 mesi, come previsto dalla legge;
e non soltanto perché una sola dichiarazione ipoteticamente tardiva non può in ogni caso compromettere un”intera collaborazione;
ma per una questione squisitamente giuridica. Le dichiarazioni cosiddette de relato (cioè apprese da terza persona), come previsto dall”art. 195 del codice di procedura penale, non sono sottoposte alla legge dei 180 giorni. Un particolare, sottolinea l”avvocato sen. Luigi Li Gotti, legale di molti collaboratori di giustizia, che “consente di affermare la debolezza giuridica della motivazione e un evidente errore frutto di chiara sciatteria”. “Le dichiarazioni che devono essere rese entro 180 giorni – rimarca, ripetendo quanto già dichiarato ieri dall”avvocato Valeria Maffei – per espressa previsione della legge, sono quelle rientranti nell”art. 194 della procedura penale, ossia le dichiarazioni concernenti atti vissuti o conosciuti direttamente”. “Distinzione abbondantemente spiegata dalla Corte di Cassazione”.
Il provvedimento quindi contiene un gravissimo errore giuridico ed emargina la collaborazione di Gaspare Spatuzza, continua Li Gotti, lanciando oggettivamente “un messaggio devastante a possibili future collaborazioni”.
Tutto questo in un Paese normale non sarebbe stato possibile. A meno che non si voglia porre la politica al di sopra della legge.
Tratto da: antimafiaduemila.com
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