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Il doppio fronte che accerchiò Falcone

Strage di Capaci, 21 anni, il tempo di una generazione. Mi chiedo se abbiamo pienamente trasmesso la memoria storica [Roberto Scarpinato]

Il doppio fronte che accerchiò Falcone
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24 Maggio 2013 - 08.53


ATF

di Roberto Scarpinato.

Sono
trascorsi ventuno anni dalla strage di Capaci. Il tempo di una
generazione. Mi sono talora chiesto se noi che per ragioni di età fummo
testimoni del tempo in cui Giovanni Falcone visse e concluse la sua
parabola, abbiamo pienamente adempiuto in questi anni al compito di
trasmettere la memoria storica, il senso profondo della tragica e
complessa storia collettiva di cui egli fu al contempo  protagonista e
vittima sacrificale. 
Il dubbio mi assale perché mi sembra che un’
intera  generazione di  giovani magistrati e di giuristi che oggi ha più
o meno trent’anni, e, dopo di loro, una generazione di ventenni che si
affaccia al mondo del lavoro, di quella storia conosca solo l’epilogo
finale (il boato di Capaci)  e pochi frammenti retrospettivi (la vicenda
del maxi processo), frammenti selezionati e riproposti dal sistema dei
media e dalla retorica ufficiale in occasione delle cerimonie
celebrative. 
Alla memoria collettiva, trasmessa nella staffetta
delle generazioni, viene così consegnata una narrazione tragica e nello
stesso tempo non problematica degli eventi, che si può riassumere nei
seguenti termini: Giovanni Falcone fu un fedele servitore dello Stato
condannato a morte e poi trucidato unitamente alla moglie Francesca
Morvillo, a Vito Schifani, Antonio Montinari e Rocco Dicillo, componenti
della sua scorta, perché con il suo lavoro di integerrimo magistrato,
culminato nelle condanne inflitte nel maxi processo, aveva sferrato un
colpo mortale a Cosa Nostra, mandando in frantumi il mito della
invincibilità dell’organizzazione mafiosa.
I responsabili sono
stati  condannati ed hanno i volti noti di coloro che l’immaginario
collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia:
Riina, Provenzano e altri personaggi di tal fatta.

Questa rappresentazione  dei fatti che riassume  la vicenda Falcone
in una radicale contrapposizione tra un uomo simbolo dello Stato
legalitario ed una minoranza di criminali, seppure appartenenti ad una
potente organizzazione, non rende giustizia, a mio parere, alla
grandezza e ai meriti di Falcone perché rischia di rimuovere  dalla
memoria collettiva che egli dovette misurarsi non solo con Cosa Nostra,
ma anche con  un universo sociale, variamente composito, che per motivi
diversi lo avversò in tutti i modi, in parte rallentando ed in parte
neutralizzando la sua azione.
Questa parte della storia –  spesso
negletta nelle cerimonie ufficiali e confinata nel limbo della
letteratura specialistica o affidata alla memoria dei superstiti – 
chiama in causa errori e responsabilità collettive che hanno avuto un
rilievo determinante  nello svolgimento degli eventi di cui la strage di
Capaci costituisce solo l’epilogo finale.
Errori  e responsabilità che vanno ricordati non con l’animus
di voler quasi processare il passato, operazione questa che sarebbe
sterile, ma perché il passato custodisce una preziosa lezione che va
meditata per il futuro, affinché certi errori non abbiano più a
ripetersi, soprattutto in un tempo come l’attuale, segnato da una grave
crisi dei valori di legalità e di credibilità delle istituzioni. 

La
rievocazione di questa parte della storia, alla quale vengono in genere
solo dedicati fugaci cenni, vorrei affidarla, per quanto possibile,
alle stesse  parole sofferte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino
che ebbero a subirla in prima persona.
Sono parole sofferte quelle
che  Paolo Borsellino, pronunciò il 23 giugno 1992 in un discorso tenuto
alla Biblioteca comunale di Palermo, commemorando Giovanni Falcone a
distanza di un mese dalla strage di Capaci.
Mi pare significativo
che colui il quale fu il migliore amico di Giovanni e che ne condivise
la sorte nella vita e nella morte, nel rievocare la strage di Capaci non
focalizzi in quella occasione la sua attenzione, come sarebbe logico
attendersi, sugli esecutori ed i mandanti della strage, ma piuttosto 
sui tanti che egli individua come responsabili dell’ostracismo  che
aveva condannato Falcone all’isolamento, indebolendolo progressivamente e
costringendolo a lasciare il palazzo di Giustizia di Palermo.

Ecco un estratto delle parole di Paolo:

“Ho
letto giorni fa, o ho ascoltato alla televisione – in questo momento i
miei ricordi non sono precisi – un”affermazione di Antonino Caponnetto
secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io
condivido questa affermazione di Caponnetto [……]ripercorrendo queste
vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il
paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di chiunque
altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988 […]

Borsellino
ricorda quindi le responsabilità di coloro che agli inizi del 1988 si
erano attivamente impegnati per impedire che Giovanni Falcone venisse
nominato capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, succedendo a
Caponnetto, e come lui avesse rischiato di essere sottoposto a
procedimento disciplinare solo per avere denunciato alla pubblica
opinione che il pool antimafia di Palermo era stato smobilitato e
Falcone ridotto all’impotenza.

.. per aver denunciato
questa verità io rischiai conseguenze personali gravissime, ma quel che è
peggio, il Csm immediatamente scoprì qual era il suo vero obiettivo:
proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, Falcone
poteva essere eliminato al più presto. E forse questo io l”avevo pure
messo nel conto, perché ero convinto che l”avrebbero eliminato comunque;
almeno, dissi, se deve essere eliminato l”opinione pubblica lo deve
sapere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire
in silenzio.  

 
Ed ora lascio la parola a Giovanni
Falcone il quale per salvare Paolo Borsellino dal procedimento
disciplinare al quale si era esposto con quella pubblica denuncia, ruppe
il suo tradizionale riserbo comunicando il 30 luglio 1988 al CSM e al
Presidente del Tribunale la sua richiesta di lasciare l’ufficio
istruzione:

“Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni
in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le
inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro.
Ritenendo di compiere un servizio utile alla società, ero pago del
dovere compiuto e consapevole che si trattava di uno dei tanti
inconvenienti connessi alle funzioni affidatemi. Ero inoltre sicuro che
la pubblicità dei relativi dibattimenti avrebbe dimostrato, come in
effetti è avvenuto, che le istruttorie cui io ho collaborato erano state
condotte nel più assoluto rispetto della legalità. […..] Il ben noto
esito di questa vicenda (ndr. si riferisce alla vicenda della nomina di
Meli a capo dell’Ufficio istruzione) non mi riguarda sotto l”aspetto
personale e non ha per nulla influito, come i fatti hanno dimostrato,
sul mio impegno professionale.

Anche in quella occasione
però ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di
inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a
torto, che il mio ruolo mi imponesse il silenzio. Ma adesso la
situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione
di essere.

Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le
istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatissimo
congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia dell”ufficio
istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo
analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui
amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello
Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie
nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di
tutti.

Come risposta è stata innescata un”indegna manovra
per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto,
riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magistrati, a una
«reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da altri
magistrati che, con diversa serietà professionale e con maggiore
incisività, condurrebbero le indagini in tema di mafia.

Tuttavia,
essendo prevedibile che mi saranno chiesti chiarimenti sulle questioni
poste sul tappeto dal procuratore di Marsala, ritengo di non poterlo
fare se non a condizione che non vi sia nemmeno il sospetto di tentativi
da parte mia di sostenere pretese situazioni di privilegio (ciò,
inevitabilmente, si dice adesso a proposito dei titolari di indagini in
tema di mafia).

E allora, dopo lunga riflessione, mi sono
reso conto che l”unica via praticabile a tal fine è quella di cambiare
immediatamente ufficio…  

Come è noto le dimissioni di
Falcone furono respinte, l’allarme di Borsellino venne ignorato, il pool
antimafia venne smobilitato e le inchieste su Cosa Nostra  prima
centralizzate nell’Ufficio istruzione vennero disseminate  in una
molteplicità di uffici giudiziari siciliani, determinando così l’esito
infausto delle indagini che vennero in larga misura archiviate. 

Ma,
soprattutto, restò incompiuto il programma di indagine che il pool
aveva preannunciato  nella motivazione della Sentenza – Ordinanza del
maxi processo  nella quale venivano individuate due aree alle quali
sarebbe stata prestata la massima attenzione:

“alcune
attività della c.d. criminalità dei colletti bianchi in tema di
riciclaggio di denaro [..] e [..] manifestazioni di connivenza e
collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni
(che) possono realizzare condotte di fiancheggiamento del potere
mafioso, tanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo
concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa” ( Sentenza –
Ordinanza Trib. Palermo 8 novembre 1985, pp. 4125 – 4126).  

Quella
parte della sentenza – ordinanza preannunciava i futuri possibili
sviluppi di una strategia antimafia che, in coerenza con il dettato
costituzionale degli artt. 3 e 112 Costituzione, articolava la risposta
giudiziaria a tutti i livelli del sistema di potere mafioso: i
componenti organici dell’organizzazione ed il vastissimo e variegato
mondo di colletti bianchi collusi, appartenenti al mondo politico,
imprenditoriale e finanziario, che con il metodo mafioso e grazie alla
mafia avevano costruito fortune economiche e carriere.
 
Non è
certamente un caso che l’incessante campagna di delegittimazione nei
confronti del pool antimafia, che sfocerà nell’ emarginazione di
Giovanni Falcone, avesse preso un ritmo incalzante proprio quando il
pool, dopo avere tratto in arresto centinaia di esponenti dei quadri
intermedi e di comando della mafia militare, aveva attinto  con le
indagini anche i livelli superiori che  coinvolgevano il mondo politico
ed economico: il 3 novembre 1984 era stato arrestato Vito Ciancimino, il
successivo 12 novembre le manette si erano strette ai polsi dei cugini
Nino e Ignazio Salvo, terminali regionali di un ramificato sistema di
potere nazionale.

La stagione degli intoccabili sembrava volgere alla fine. Molti a
Palermo e a Roma cominciano a temere il peggio. A chi sarebbe toccato
dopo i Salvo e Ciancimino? 

I processi celebrati dopo la
stagione stragista del 1992 – 1993 e le sentenze penali emesse in questi
ultimi venti anni hanno gettato  una vivida luce retrospettiva sul
passato,  consentendo  oggi di delineare la fisionomia complessiva 
dell’immane sistema di potere regionale e nazionale che aveva ben 
ragione di temere l’azione di un  pool antimafia che appariva come una
pericolosa variabile indipendente rispetto agli  equilibri di potere
esistenti.

Giovanni Falcone, che di quel pool era stato
l’anima, aveva già dimostrato in precedenza di essere in grado, seguendo
la pista dei capitali illegali, di  arrivare nei santuari finanziari
dove confluivano, come in un unico  mare magnum, i fiumi carsici dei
soldi della droga, delle tangenti politiche, dei capitali piduisti.

Mi
riferisco alla vicenda delle banche di Sindona, di Calvi e alla torbide
connessioni tra mafia, P2 e tangentopoli che Falcone aveva portato alla
luce nel processo Spatola- Inzerillo.
Il pool antimafia si
preparava ora nella seconda metà degli anni Ottanta,  a proseguire
coerentemente la sua opera, valicando con l’arresto dei Salvo e di
Ciancimino le colonne d’Ercole dei rapporti mafia – politica. 
Ed è
proprio a quel punto che scatta la reazione di rigetto da parte  di un
sistema che – come hanno dimostrato decine di sentenze definitive –
comprendeva a vario titolo anche personaggi apicali del mondo
istituzionale, politico, di quello economico e finanziario.  
Un
sistema che, agendo nell’ombra, era in grado di mettere in campo potere
di influenza,  raffinate strategie di delegittimazione, relazioni con
soggetti appartenenti ad apparati istituzionali  – talora complici e
talora in buona fede – per conseguire lo stesso risultato che la mafia
corleonese tentava di raggiungere contemporaneamente con metodi cruenti:
fermare Giovanni Falcone, porre fine ad una stagione dell’antimafia
giudiziaria in grado di destabilizzare i consolidati assetti esistenti,
garanzia e presupposto per i lucrosi affari, per gli illeciti
arricchimenti di tanti, interni ed esterni all’associazione mafiosa. 
Ed
è per questo motivo che a Giovanni  non fu data requie neppure dopo
avergli impedito di proseguire il suo lavoro all’Ufficio Istruzione.
Non
si erano ancora spenti gli echi della vicenda della sua bocciatura a
capo dell’Ufficio Istruzione e della smobilitazione del pool antimafia,
che egli viene investito da un tentativo di omicidio mediatico.

Mi
riferisco alla vicenda delle lettere del c.d. Corvo, una sequenza di
lettere anonime che nella  sostanza lo accusavano di avere dato licenza
di uccidere al collaboratore di giustizia Salvatore Contorno,
autorizzandolo a tornare segretamente in Sicilia per eliminare i propri
antagonisti dell’avverso schieramento corleonese.
Non si era ancora
conclusa la vicenda del Corvo che, in una sorta di gioco al rialzo nel
quale la delegittimazione morale prepara il terreno per la soppressione
fisica –  il 21 giugno 1989 viene messo a punto  l’attentato
dell’Addaura, pianificato da soggetti che Falcone definì subito come 
“menti raffinatissime”, alludendo a intelligenze criminali appartenenti
ai mondi superiori che sovrastavano quelli inferiori della mafia
corleonese.

Per avere un’ idea del clima di accerchiamento nel
quale egli si trovò ad operare e della vastità del fronte che gli era
avverso, nel quale si saldavano interessi convergenti di diversa natura,
è bene ricordare che  subito dopo l’attentato dell’Addaura viene fatta
circolare, anche all’interno di alcuni ambienti istituzionali, la voce
calunniosa che si trattava di un falso attentato orchestrato dallo
stesso Falcone per indurre il CSM a nominarlo, sull’onda dell’emotività
del momento, alla carica di Procuratore Aggiunto di Palermo, scavalcando
così gli altri concorrenti.

Ma Falcone non dovette misurarsi solo contro i progetti di morte
della mafia corleonese, contro gli ininterrotti ed  insidiosissimi
attacchi esterni orditi da menti raffinatissime, egli è costretto 
contemporaneamente a difendersi anche sul fronte interno dalle accuse
che gli vengono mosse da una parte della magistratura e della cultura
giuridica che gli contesta di avere stravolto il  ruolo istituzionale
del giudice  trasformandosi in un “giudice sceriffo”,  definizione
negativa che viene rilanciata dal sistema mediatico.
Egli coglie
subito l’insidiosità di quella accusa che mirava a delegittimarlo
all’interno stesso dell’ambiente giudiziario, isolandolo ulteriormente.
Proprio per questo motivo, si vede costretto a ribattere  intervenendo
più volte sull’argomento con saggi e articoli giuridici nei quali
dimostra il suo straordinario spessore culturale e la sua profonda
interiorizzazione dei valori costituzionali che aveva tradotto nella
prassi applicativa: Così nell’articolo “Controllo sociale nel
Mezzogiorno. Il ruolo sociale nella  magistratura ” scrive:

“Sono
fioccate […] critiche e perplessità sull”operato della magistratura:
sempre più frequentemente, si è parlato dello stravolgimento del ruolo
istituzionale della magistratura a opera di magistrati che hanno violato
il principio della «terzietà» del giudice, improvvisandosi
investigatori e usurpando le funzioni specifiche della polizia
giudiziaria. Da taluni settori si è affermato anche che l”eccessivo
impegno degli inquirenti nella repressione delle varie forme di
criminalità organizzata ha distolto l”attenzione dalla delinquenza
comune, la cosiddetta microcriminalità, con la conseguente recrudescenza
di reati contro il patrimonio, come le rapine e gli scippi, che destano
tanto allarme nella società. E la stessa instaurazione dei maxiprocessi
è spesso attribuita a colpa del protagonismo dei giudici e a un
asserita volontà di conculcare e sopprimere il diritto di difesa degli
imputati. Non si è mancato, poi, di sottolineare che iniziative della
magistratura nel settore economico hanno determinato gravi guasti
all”economia meridionale, e siciliana in particolare, provocando il
peggioramento del fenomeno, di per sé gravissimo, della
disoccupazione[…]

.. spesso si dimentica che, per
quanto concerne la criminalità organizzata, l”intervento della
magistratura riguarda l”individuazione dei responsabili digravissimi
crimini, e che l”esercizio dell”azione penale, nel nostro ordinamento
giuridico, è costituzionalmente previsto come obbligatorio (art. 112
della Costituzione). Sarebbe, dunque, responsabile di colpevole inerzia
quel magistrato che si astenesse dal tentare di accertare gli autori di
reati sol perché la mafia e le altre organizzazioni similari
costituiscono un problema che non è risolvibile, come spesso stancamente
si ripete, con l”intervento repressivo statuale [..]. Non credo che
qualcuno voglia sostenere che le centinaia di assassini provocati, negli
anni ”81-83, dalla cosiddetta guerra di mafia debbano essere archiviati
per essere rimasti a opera di ignoti senza nessun serio tentativo per
scoprire i colpevoli. E quando, di fronte a omicidi gravissimi di uomini
politici e di pubblici funzionari, si intuisce che le causali e i
mandanti sono, le prime, particolarmente complesse e, i secondi,
annidati all”interno delle pubbliche strutture, non credo che qualcuno
voglia sostenere una sostanziale impunità per tali crimini, che sono
obiettivamente destabilizzanti e minano le basi della società e
dell”ordine democratico.

E allora, se non si vuole
affermare che la gravità e complessità del fenomeno criminale comporti
l”astensione dall”attività repressiva da parte della magistratura, deve
necessariamente convenirsi che la risposta degli organi repressivi
statuali alla consumazione di delitti particolarmente complessi e
numerosi non solo è doverosa e rientra nei limiti dell”attività
istituzionale della magistratura, ma non può che essere articolata e
impegnare in modo eccezionale le strutture statuali. Se, poi, col
richiamo, a mio avviso improprio, alla cosiddetta supplenza della
magistratura si intende dire che, a fronte degli interventi repressivi,
non sono stati tuttora posti in essere quegli altri interventi necessari
per rimuovere le radici e le cause del fenomeno mafioso, si pone un ben
diverso problema: tali considerazioni possono essere o meno condivise,
ma deve essere ben chiaro che, nell”attività diretta alla repressione
dei reati, la magistratura adempie semplicemente i propri doveri
istituzionali senza alcun margine di discrezionalità e senza alcun
straripamento nei campi di intervento riservati agli altri pubblici
poteri […]

Meritano, invece, seria riflessione quelle
critiche che, facendo riferimento alla «terzietà» del giudice come
valore insopprimibile del suo ruolo istituzionale, sostengono che la
stessa sia stata stravolta dallo svolgimento diretto delle indagini da
parte del pubblico ministero e del giudice istruttore che, in siffatta
maniera, si sarebbero trasformati in superinvestigatori, determinando
un”assoluta contusione dei ruoli con la polizia giudiziaria. Al
riguardo, giova, anzitutto, premettere che, in un processo penale di
tipo inquisitorio qual è quello vigente, il concetto di «terzietà» del
giudice istruttore rischia di non far comprendere, se malamente inteso, i
termini esatti del problema. Certamente, il magistrato non può avere
confidenti, né eseguire materialmente i pedinamenti o intercettazioni
telefoniche, né, in genere, compiere quelle attività che sono
squisitamente di polizia giudiziaria. Ma è contraria al ruolo del
magistrato inquirente, sia esso pubblico ministero o giudice istruttore,
qual è disegnato dal vigente codice di rito penale, quell”opinione che
lo vorrebbe inerte
organo di semplice verifica della prova raccolta dalla polizia giudiziaria.
In
un processo come quello penale italiano, diretto all”accertamento della
verità materiale o storica, il magistrato inquirente deve compiere ogni
atto diretto all”accertamento della verità, indipendentemente
dall”iniziativa della polizia giudiziaria. In proposito, diverse norme
sono esplicite in tale senso. L”art. 1 del codice di procedura penale
prevede che l”azione penale è iniziata dai procuratore della Repubblica o
dal pretore in seguito a rapporto, a referto, a denunzia o ad altra
notizia di reato. L”art. 232 stabilisce che il procuratore della
Repubblica, prima di iniziare l”istruttoria sommaria o richiedere
l”istruzione formale, può procedere ad atti di polizia sia per mezzo di
ufficiali di polizia giudiziaria, sia direttamente. E, per quanto
riguarda il giudice istruttore, l”art. 299 stabilisce che il medesimo ha
l”obbligo di compiere tutti gli atti che appaiono necessari
per l”accertamento della verità, e l”art. 220 che la polizia giudiziaria
deve eseguire gli ordini del giudice istruttore. E non si dimentichi
che, perfino nel dibattimento, proprio perché nel processo penale di
tipo inquisitorio si mira all”accertamento della verità storica o
materiale, sussistono profili di disponibilità della prova di ufficio,
da parte dello stesso organo giudicante (art. 457 del codice di
procedura penale)”.

Nel saggio “Emergenza e Stato di diritto”, aggiunge poi: 

“Qualcuno,
forse, potrà rimpiangere i “bei tempi andati” in cui il pubblico
ministero si limitava a dare una prima scrematura degli elementi di
prova forniti dalla polizia giudiziaria, e il giudice istruttore soleva
compiere un’ulteriore verifica delle prove, spesso con effetto di
ulteriore ridimensionamento dei rapporti di denunzia. E io ricordo
ancora quell’alto magistrato che mi diceva che il giudice istruttore non
ha mai scoperto niente e occorre lasciare che la polizia svolga
tranquillamente le indagini. Ciò del resto – per fortuna in settori
sempre meno estesi – è talora l’atteggiamento di alcuni ufficiali di
polizia giudiziaria, che  mal sopportano e ritengono essere una indebita
ingerenza il diretto coordinamento delle indagini da parte del
magistrato istruttore. In realtà, bisogna che tutti si rendano conto che
il modello di magistrato inerte e privo di spirito di iniziativa, se
poteva essere rispondente alle esigenze di un determinato periodo
storico e funzionale ad un determinato equilibrio socio-politico, non è
mai stato fondato su un uso legittimo dei poteri istituzionali”.   

L’accenno  di Falcone al rimpianto da parte di alcuni dei “bei tempi andati”, alcuni  che egli definisce ancora legati ad un modello di magistrato inerte  e privo di spirito di iniziativa rispondente “alle esigenze…funzionali ad un determinato equilibrio socio – politico”,  fa riferimento  ad un establishment 
politico istituzionale che, in significative sue componenti, appariva
ancora imbevuto di una cultura precostituzionale e  non aveva 
interiorizzato la nuova gerarchia di valori introdotti dalla
Costituzione del 1948. 
Una Costituzione che, ribaltando una
secolare tradizione di subordinazione della magistratura al potere
politico, aveva garantito la piena indipendenza dell’Ordine giudiziario
dal potere esecutivo e coerentemente – come osserva lucidamente Falcone
–  con l’art. 109 Cost. aveva sancito che la magistratura disponeva
direttamente della polizia giudiziaria.
Questo ribaltamento
costituzionale dei rapporti tra politica e legge, pietra angolare del
nuovo stato costituzionale di diritto fondato sul primato delle legge,
si traduceva – come spiegava Falcone – anche in un nuovo modello di
giudice non più terminale passivo delle indagini svolte autonomamente
dalla Polizia, promanazione del potere esecutivo, ma propulsore e
coordinatore attivo della direzione delle indagini svolte da una Polizia
funzionalmente subordinata alla magistratura.

Se si considera
che durante la trascorsa legislatura è stata avanzata da autorevoli
esponenti del ceto politico la proposta di  privare il pubblico
ministero del potere di iniziare autonomamente le indagini conferendo
solo alla Polizia il compito di acquisire la notizia criminis, ci si può
rendere conto dell’attualità dell’insegnamento di Falcone.
 
Nel
contesto dei suoi articoli Falcone spiega come il nuovo quadro di
valori costituzionali che si traduceva nella prassi giurisdizionale
seguita dal pool antimafia,  avesse determinato reazioni di rigetto non
solo nel mondo politico, ma anche in quello istituzionale e all’interno
della stessa magistratura.

Con l’accenno “all’alto
magistrato che mi diceva che il giudice istruttore non ha mai scoperto
niente e occorre lasciare che la polizia svolga tranquillamente le
indagini”
, Falcone fa riferimento ad un  episodio che lo riguardava personalmente.

Un
episodio  che Rocco Chinnici,  capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo,
aveva annotato nel suo diario personale ritrovato dopo che egli il 29
luglio 1983 era stato ucciso con un auto bomba all’uscita dalla sua
abitazione in via Pipitone Federico insieme a due carabinieri della
scorta e al portiere dello stabile,  per avere osato alzare il livello
delle indagini sui colletti bianchi della mafia, come è stato accertato
nel processo per quella  strage celebrato a Caltanissetta. 

Si
tratta di un episodio che merita di essere ricordato perché dipinge in
modo emblematico la contrapposizione tra due diverse anime della
magistratura che si tradurrà in una frattura interna al Palazzo di
Giustizia di Palermo: la prima anima è quella, allora minoritaria,
incarnata da magistrati come Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo 
Borsellino  ed  altri. 
La seconda anima appariva invece – anche per
ragioni di vischiosità culturale dovuta a fattori generazionali
–ancorata ad un ruolo della magistratura come subordinato alle
compatibilità generali del sistema socio – politico.

Alla
pagina del diario  del  18 maggio 1982, Chinnici fa il seguente  
analitico resoconto di un colloquio  avvenuto quel giorno con il
Presidente della Corte di Appello e che riguardava proprio  Giovanni
Falcone:

ore 12 – [Il Presidente] Mi investe in
malo modo dicendomi che all’ufficio istruzione stiamo rovinando
l’economia palermitana disponendo indagini ed accertamenti a mezzo della
guardia di finanza. Mi dice chiaramente che devo caricare di processi
semplici Falcone in maniera che “cerchi di scoprire nulla perchè i
giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla”. [….] Cerca di dominare
la sua ira ma non ci riesce. Mi dice che verrà ad ispezionare l’ufficio
(ed io lo invito a farlo […]l’uomo che a Palermo non ha mai fatto nulla
per colpire la mafia ….. non sa più nascondere le sue reazioni e il suo
vero volto. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più
disporre accertamenti nelle banche”. 

Di episodi simili Chinnici ne aveva annotati parecchi.

Un altro che  pure riguardava Falcone si trova annotato alla pagina del 14 luglio 1981, dove  si legge:

ore
13. G. Falcone mi comunica che il Primo Presidente della Corte gli ha
caldamente raccomandato il cavaliere del lavoro Graci implicato nella
faccenda Sindona; dopo averlo convocato nel suo ufficio.    

Questo
fronte interno della magistratura si rivelerà per Falcone uno degli
ostacoli più gravi alla sua azione. Dopo essere stato ridotto
all’impotenza all’Ufficio Istruzione, egli si era infatti illuso di
potere proseguire la sua opera alla  Procura di Palermo.
Ma dopo
pochi mesi,  aveva dovuto constatare di essere  escluso – come egli
annoterà nel diario trovato dopo la morte e come io potei constatare
personalmente – da tutte le indagini che travalicavano il livello del
contrasto alla mafia militare ed attingevano i livelli superiori: così
gli era stato precluso di indagare sul possibile ruolo svolto dalla
organizzazione Gladio nella perpetrazione di alcuni delitti politici
mafiosi; sui rapporti tra la mafia e alcuni vertici della P2, sui
torbidi intrecci tra mafia ed economia nel settore degli appalti
pubblici.

Resosi conto di essere stato nuovamente ridotto
all’impotenza, mi confidò che doveva andare via perché restando in
quella Procura il suo nome rischiava di perdere credibilità  giorno dopo
giorno e di divenire la foglia di fico che occultava la sostanziale
inazione della Procura sui fronte cruciale  dei rapporti
mafia-potere-economia.
Sono rimaste impresse nella mia mente le
ultime parole che egli pronunciò nella stanza del Procuratore capo di
Palermo in mia presenza e di altri sostituti  quando agli  inizi del
1991 si congedò dalla Procura di Palermo, per assumere il nuovo incarico
di Direttore generale degli affari penali presso il  Ministero della
Giustizia a Roma. 

“ E’ penoso quello che ho dovuto ascoltare nei corridoi di questo
Palazzo, constatare che tranne pochi, tutti sono contenti che me ne sto
andando.. “

Erano passati tre anni dalla lettera che
prima ho citato del  30 luglio 1988, era cambiato l’ufficio dove
lavorava, ma la sua solitudine e l’ostracismo che lo circondavano erano
rimasti costanti.
Era l’anno  1991 quasi a ridosso della strage di Capaci e qui concludo  riannodandomi  all’incipit della mia commemorazione.
Io
credo che se vogliamo rendere onore a Giovanni Falcone e a coloro che
il 23 maggio 1992 condivisero la sua sorte, non possiamo limitarci a
ricordare esclusivamente le responsabilità penali accertate della mafia
corleonese.
Non passiamo confinare in una sorta di cono d’ombra
della memoria – come se si trattasse di storie a margine non incidenti
sul corso degli eventi – le responsabilità, le complicità, le connivenze
di tanti, di troppi colletti  bianchi che in vario modo hanno
contribuito nel tempo ad alimentare la potenza del sistema di potere
mafioso.
 Proprio per questo motivo, Paolo Borsellino la sera del 23
giugno 1992 ricordava a tutti dolorosamente come non erano certo stati i
corleonesi a fermare Falcone prima nel 1988 all’Ufficio istruzione di
Palermo e poi alla Procura di Palermo, costringendolo  alla fine ad
andar via da Palermo. A fermare Falcone, a neutralizzarlo  erano stati
quelli che Borsellino quella stessa sera del 23 giugno 1992 definisce
gli “ingiusti”, ampia categoria antropologica nella quale egli
ricomprende non solo i tanti grandi e piccoli Don Rodrigo che
affollavano la scena dei potenti, non solo i tanti sepolcri imbiancati
che si battevano il petto dopo avere occultamente ostacolato Falcone, 
ma anche un nutrito stuolo  di Don Abbondio che –  per citare le sue
testuali  parole –   talora per non rinunciare “a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini”,
avevano consegnato Falcone alla sua solitudine, rendendosi complici, a
vario titolo, del prevalere del male di mafia, del male oscuro del
potere.

Nella prospettiva di Borsellino, tutti costoro non
potevano chiamarsi fuori, proiettando catarticamente la  responsabilità
esclusiva  del male di mafia solo sui carnefici che il 23 maggio 1992 a
Capaci avevano chiuso  definitivamente una  partita che era stata
giocata a lungo negli anni precedenti, e che aveva visto  scendere in
campo accanto ai carnefici una pletora di complici, sia che tale
complicità si declinasse sul piano penale, sia che si declinasse su
altri piani non meno rilevanti per il corso degli eventi. 

La
lezione della storia, una lezione che non va dimenticata, insegna che in
questa nostra terra non è solo il tritolo ad uccidere, non è solo il
piombo delle pallottole a fermare coloro che operano per il bene
comune:  è piuttosto un mix micidiale di violenza criminale, di cinismo
del potere, di opportunismi di bassa lega e di atonia morale.
E’
questo mix micidiale che ha segnato la storia di Giovanni Falcone e di
tanti altri assassinati prima e dopo di lui, compreso Paolo Borsellino
che la sera del 23 giugno 1992 ci ha lasciato il monito che ho voluto
ricordare, sapendo di essere egli stesso prossimo a morire ancora una
volta  per mano mafiosa ma non solo per volontà mafiosa, come egli
confidò alla moglie Agnese dicendole: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”.
E’
compito dei processi accertare le responsabilità penali sottese a
stragi e omicidi, ma certo, per quanto ho sin qui ricordato, sarebbe un
falso storico ritenere che la tormentata storia  di Giovanni Falcone e
di Paolo Borsellino sia riducibile solo alla dimensione puramente
penale.  La loro vicenda  è piuttosto parte integrante della travagliata
storia della Nazione, una storia nella quale i diversi piani della
politica, della economia e della violenza criminale troppo spesso sono
confluiti in un perverso ed indistinto magma che ha falcidiato i
migliori tra noi e che tutti ci chiama in causa a vario titolo.

Rendere
onore ai nostri caduti, dare un senso al loro sacrificio, fare memoria
significa prendere atto che il male di mafia non è stato solo fuori di
noi, ma anche tra noi, significa  dunque fare i conti con il nostro
passato e con noi stessi, affinché ciò che è già accaduto non abbia mai
più a ripetersi.

Commemorazione di Giovanni Falcone
Aula Magna Palazzo di Giustizia di Palermo
23 maggio 2013
(Roberto Scarpinato, Procuratore Generale di Palermo)

In foto: un primo piano tratto da una fotografia d”archivio della *fotoreporter Shobha

Fonte:  http://www.antimafiaduemila.com/2013052343032/primo-piano/qil-doppio-fronte-che-accerchio-falconeq.html.

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