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Cosa sapeva D'Ambrosio degli “indicibili accordi”?

Il Presidente della Repubblica dovrà rispondere sul ruolo nel 1993 del suo consigliere, morto nel 2012, nella nomina di Di Maggio al Dap.

Cosa sapeva D'Ambrosio degli “indicibili accordi”?
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18 Ottobre 2013 - 09.36


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di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza.

Non fu, con tutta probabilità, un semplice testimone. Nel ’93, quando lavorava con Liliana Ferraro al-l’Ufficio studi degli Affari penali di via Arenula, Loris D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo, anche se inconsapevole, nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire il 41bis, nell’ambito del dialogo tra Stato e mafia.

È QUESTO il significato attribuito dalla Procura di Palermo alla lettera che lo stesso D’Ambrosio, divenuto consigliere giuridico del Quirinale, scrive il 18 luglio 2012 al capo dello Stato esternandogli il “vivo timore” di esser stato considerato un “utile scriba” e usato come scudo a “indicibili accordi”, proprio in riferimento al periodo tra l’89 e il ’93. Ed ecco perché i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia intendono chiedere a Napolitano, da ieri ammesso come testimone del processo di Palermo, se e cosa venne a sapere delle preoccupazioni del suo consigliere giuridico, ma soprattutto di quegli “indicibili accordi” cui D’Ambrosio fa riferimento, nella stagione tra l’attentato all’Addaura e le stragi. Chi avrebbe usato come “scudo” D’Ambrosio? E perché? Lo spin doctor del Quirinale, scomparso il 26 luglio 2012 per un attacco cardiaco, è tra i comprimari dell’indagine sulla trattativa, per essere stato l’interlocutore privilegiato dell’ex senatore Nicola Mancino che tra la fine del 2011 e la primavera del 2012 tempesta il Colle di telefonate in cerca di protezione.

IN QUEL periodo, mentre l’inchiesta entra nel vivo, per due volte, nel giro di 57 giorni, D’Ambrosio viene interrogato dai pm di Palermo come “persona informata sui fatti”: la prima il 20 marzo, a Roma; la seconda il 16 maggio, nel capoluogo siciliano. La prima volta, il consigliere giuridico nega di essere in possesso di informazioni utili agli inquirenti: “Non ho alcuna notizia specifica – dice – sull’iter seguito per la nomina di Di Maggio”. Ma la seconda volta, il pm Di Matteo gli comunica che la sua voce è stata “pizzicata” in una telefonata con Mancino, intercettata dalla Dia. In quella telefonata, registrata il 25 novembre 2011, è lo stesso D’Ambrosio a rivelare a Mancino di aver “assistito personalmente” alla stesura del decreto, scritto nell’ufficio della Ferraro, per la nomina di Di Maggio a vice-capo del Dap.

Cosa dice il consigliere del Colle al telefono? “Qui – ammette – ormai uno dei punti centrali della vicenda comincia a diventare proprio la nomina di Di Maggio al Dap”. E ancora: “Io ho assistito personalmente a questa vicenda… ricordo chiaramente il decreto, Dpr, scritto nella stanza della Ferraro… il Dpr che lo faceva vice-capo del Dap”. Perché non ne aveva parlato prima? D’Ambrosio si giustifica scaricando tutto su Mancino: “Il senatore telefona tutti i santi giorni, perché si sente sotto pressione”. Ma il pm Di Matteo gli contesta le contraddizioni tra le dichiarazioni del primo interrogatorio e la conversazione telefonica. E qui D’Ambrosio, in palese difficoltà, annaspa: “Io voglio dire… la mia idea non era il Dpr, era come la base del Dpr, cioè non c’era il visto, visto, visto, non so se mi sono spiegato. (…) Cioè io quello che sostengo è che può anche essere stata una bozza predisposta lì (…). Però io il Dpr vero e proprio non l’ho visto”.

È IPOTIZZABILE, sostengono adesso i pm della trattativa, che in quell’ufficio di via Arenula, D’Ambrosio avesse collaborato più attivamente, proprio come uno “scriba”, alla stesura di quel decreto che permise a Di Maggio, che non aveva i titoli, di andare a dirigere il Dap al fianco di Adalberto Capriotti. Lo stesso che il 26 giugno ’93, subito dopo essere stato nominato, inviò una nota al ministro della Giustizia Giovanni Conso, suggerendo di non prorogare i 41bis in scadenza entro la fine dell’anno, per lanciare “un segnale di distensione”.

È il cuore della trattativa Stato-mafia: un passaggio sul quale, secondo la Procura di Palermo, si allunga l’ombra del generale del Ros Mario Mori. Nella requisitoria del processo per favoreggiamento alla mafia, che si è concluso il 15 luglio scorso con l’assoluzione di Mori, il pm Di Matteo ha sostenuto che, nel contesto della trattativa, in quei mesi si muoveva in sinergia una robusta cordata istituzionale: e a tal proposito ha citato proprio le parole di D’Ambrosio, al telefono con Mancino: “Era un discorso che riguardava nella parte 41bis… alleggerimento 41bis… Mori… Polizia… Parisi… Scalfaro e compagnia”.

DOPO AVER LAVORATO agli Affari penali, D’Ambrosio fu vicecapo di gabinetto dei guardasigilli Conso, Flick e Fassino. Era in via Arenula uando il 23 dicembre ’96, sotto il governo Prodi, il Parlamento decise la chiusura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara, lanciando un altro segnale della “distensione bipartisan” in tema di mafia. Ma dei suoi dubbi, di quei timori relativi agli “indicibili accordi” che ora i pm vogliono chiarire direttamente con il capo dello Stato, non si sarebbe saputo nulla se lo stesso inquilino del Colle non avesse rivelato un anno fa l’esistenza della lettera del consigliere, indicato come vittima di una campagna mediatica. Quella stessa lettera che adesso lo obbliga a salire sul banco dei testimoni.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 18/10/2013.

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