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Può emanciparsi un demos ridotto a schiavo?

Un botta e risposta fra il professor Flavio Cuniberto e Giulietto Chiesa sul “mito democratico” e sulla difficoltà della “pars costruens”.

Può emanciparsi un demos ridotto a schiavo?
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11 Aprile 2013 - 19.59


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Un botta e risposta fra il professor Flavio Cuniberto e Giulietto Chiesa sul “mito democratico” e sulla difficoltà della “pars costruens”.

Come pensare che un demos in stato di schiavitù mentale (al punto da godere delle proprie catene) possa rappresentare un’istanza «sana», a cui affidare, per esempio, il compito delicatissimo di controllare le nuove tecnologie genetiche?

O si può cogliere in pieno l’unicità di questo passaggio epocale, vedendo nella vertigine del grande cambiamento la necessità e la possibilità di un vero e proprio balzo evolutivo dell’homo sapiens?


Gent.mo Sig. Chiesa,

ho letto con grande interesse il suo ultimo libro (Invece della catastrofe): lucida conferma di cose che in parte sapevo o sospettavo, ma arricchita di molti elementi nuovi e articolati (a cominciare dagli ultimi capitoli sul micidiale «kombinat» di informatica e ingegneria genetica, e sulle connesse prospettive di potere). Posso dire di condividere in toto la sua analisi, o almeno la pars destruens della sua analisi (sulla quale perciò non mi soffermo, dando ormai per scontate le tesi sulle strategie offensivo-difensive dell’oligarchia finanziaria, dal 2001 al 2007 ecc.). Mi permetto invece di sottoporle la mia perplessità sulla pars construens, diciamo così, del suo libro, che giustamente preoccupato di individuare una contro-strategia si appella in modo contradittorio a quello che chiamerei il «mito democratico». Mi spiego meglio.


Il suo appello al demos come unico possibile contropotere, come istanza sana da risvegliare contro la famosa «cupola» ecc., attinge al grande repertorio già rousseauiano della «volonté générale» e delle sue successive metamorfosi, ma è contraddetto da una delle tesi centrali del suo lavoro: quella sulla manipolazione sistematica dell’«opinione pubblica» (delle «masse») da parte di un sistema mediatico monopolizzato o quasi dalla superclasse finanziaria.

In una nota (che si riferisce alla «culla» del processo, agli Stati Uniti d’America) si legge di una massa «inebetita» dalla manipolazione televisiva ecc., e si parla in lungo e in largo dello stato di «consumatori compulsivi» (e inconsapevoli) a cui il sistema riduce le vecchie figure del «lavoratore», del «cittadino medio» ecc.ecc. Ormai è un dato di fatto.

Come pensare, allora, che un demos in stato di schiavitù mentale (al punto da godere delle proprie catene) possa rappresentare un’istanza «sana», a cui affidare, per esempio, il compito delicatissimo di controllare le nuove tecnologie genetiche ? La contraddizione è palese.

La debolezza di questa posizione mi sembra confermata dal suo pendant simmetrico: ossia dalla affermazione più volte ripetuta circa la presunta «stupidità» dell’élite. Anche su questo ci sarebbe molto da ridire. Fermo restando che ogni élite può cooptare, per sbaglio o con precisa intenzione, qualche stupido, il problema è strutturale, ed è che il sistema funziona «a scatole cinesi», dove forse – e su questo il suo libro fornisce elementi interessanti – la stessa élite è strutturata per livelli, dove la funzione dell’«utile idiota» è utilizzata su vasta scala e a livelli diversi (nel senso che chiunque può svolgere quella funzione, pur essendo dotato di un buon QI: è sufficiente che si lasci «giocare», per ingenuità o altro, da un soggetto più astuto, o anche più intelligente).

Non credo insomma alla favola – perché tale mi sembra, una favola consolatoria – dei pochi stupidi e corrotti che tengono in pugno la maggioranza virtuosa e intelligente. Avrà capito, da questo rapido accenno, che non attribuisco all’intelligenza un valore morale automatico: la figura del «genio del male» potrà sembrarle a sua volta mitologica, ma dipinge abbastanza bene quello che intendo dire.

Probabilmente, il modello democratico che lei abbozza potrebbe acquistare credibilità al prezzo di una lunga e faticosa rieducazione collettiva: una sorta di grandiosa disintossicazione (fisica e mentale). Ma anche qui ricadiamo nell’eterna contraddizione: a chi affidare questa «rieducazione» se non, di nuovo, a un’élite (magari virtuosa, questa volta), e in tempi comunque non brevi?

Ci si ritrova impelagati nei vecchi dibattiti marxisti sul ruolo dell’intellettuale e dei ceti dirigenti nelle fasi rivoluzionarie. In ogni caso: la contrapposizione fra un «vertice» corrotto e stupido e una «base» sana e responsabile è di gran lunga troppo schematica, e inadeguata al livello molto notevole della sua analisi complessiva.

Nel ringraziarla per l’ottimo lavoro (non solo di oggi, ma anche di ieri e dell’altroieri: ho letto quasi tutti i suoi libri), le porgo un cordiale saluto,

Flavio Cuniberto – Università di Perugia (cattedra di Estetica)

 

Caro professor Cuniberto,

devo ringraziarla per l’acuta – e corretta – analisi del mio scritto. Lo faccio con grande piacere poiché le questioni che lei pone sono tanto reali da avere accompagnato e seguito praticamente tutta la stesura del mio libro.

Riconosco che la pars construens è tremendamente difficile, proprio a partire dall’analisi che io svolgo. Siamo già stati sconfitti e, quali che siano gli sviluppi politici e strategici futuri, il demos, come lei lo chiama, è già stato lesionato in profondità.

È chiaro che io penso proprio esattamente quello che lei mi accredita: non c’è che da avviare, il più presto possibile, una lunga, faticosa, drammatica, rieducazione collettiva. Condivido anche il suo termine: una «grandiosa disintossicazione (fisica e mentale)».

Resta la questione: chi può farla? La può fare solo un’élite non intossicata. Questa élite esiste. Io la chiamo “intelligencija diffusa”. È una massa non indifferente di individui relativamente ancora liberi, capaci di pensare autonomamente, potenzialmente riportabili in vita, intellettualmente parlando. È uno dei sottoprodotti, di scarto, inutili, “tossici alla rovescia” per il Potere. Sono i prodotti di una società complessa di alto livello di sofisticatezza tecnologica. Contradditori come la società che li ha prodotti e che, tuttavia deve tenerli ai margini. Ma che non possono essere esorcizzati. Per lo meno non in questa fase. Forse nemmeno più avanti, poiché le loro capacità intellettuali sono necessarie a far funzionare parti importanti della stessa macchina manipolatrice. Individui potenzialmente soggetti a una “crisi di coscienza”, non impermeabilizzati e non facilmente impermeabilizzabili ai sentimenti e a un gruppo di valori che Matrix ha già espulso dal suo corpo. Certo anch’essi sono preda del pensiero unico e sono isolati in una conoscenza compartimentalizzata che impedisce loro di vedere l’insieme. Ma sono risorse umane non del tutto controllabili. È quanto basta, io credo, per immaginare una resistenza di lunga lena (sempre, ovviamente, che il precipitare delle crisi e dei collassi ce ne dia il tempo).

Ma qui io aggiungo una circostanza che lei sembra non considerare. Questa contraddizione, che oggi non è visibile, è destinata a mio avviso a inasprirsi velocemente, come minimo alla stessa velocità con cui la crisi si sviluppa. Questa non è una valutazione teorica: è un dato sperimentale del nostro tempo. Questioni come quelle di cui qui parliamo erano letteralmente impraticabili a livello di masse consistenti di persone anche soltanto dieci anni fa. Erano allora note solo a un pugno di pensatori e filosofi. Ora sono entrate perfino nel lessico di milioni. L’inquietudine crescente le fa diventare percepibili a molti che, prima, neppure le vedevano e meno che mai le capivano. Questo lo riscontro io stesso nella mia esperienza quotidiana.

Certo si tratta pur sempre di minoranze. Ma si tratta a mio avviso di minoranze in crescita e che acquisiscono consapevolezza a ritmi accelerati. In altri termini io vedo un film in movimento e non la fotografia dell’oggi ripetuta all’infinito.

Altrettanto certo, per me, è il dato che occorrerà, per farle muovere, un’élite intellettuale di tipo nuovo. Io non la concepisco come un’avanguardia classica copiabile dalle esperienze dei partiti di massa del XX secolo. Ci vuole altro per realizzare una grande riforma intellettuale e morale dell’Uomo!

Ci vuole, appunto un’alta visione etica della politica. E ci vuole, ripescandolo – questa sì! – dalle esperienze del passato, un alto grado di disciplina e di organizzazione. Per scardinare la “cupola”, che è possente, anche se cieca alla ragione del cosmo, occorre una grande forza, che si intrecci di morale e di politica.

Molti diranno, e pensano, che questo sia impossibile. Io invece, mi sento vicino in questo alle idee di padre Ernesto Balducci, che, cogliendo in pieno l’unicità di questo passaggio epocale, vedendone la tremenda discontinuità, ipotizzava la necessità di un vero e proprio salto evolutivo dell’homo sapiens. Questo penso. E questo credo possibile. Per questo vado in giro con la lanterna di Diogene, alla ricerca di queste donne e uomini che dovranno costruire le casematte in cui resistere e da cui ripartire.


Cordiali saluti

Giulietto Chiesa

 

 

 

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