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Il Quinto Stato

Mutualismo e contropotere nel labirinto del lavoro indipendente. [Tiziana Drago]

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4 Dicembre 2013 - 15.05


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di Tiziana Drago

È un rullo compressore l’ultimo lavoro di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, [i]Il quinto stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro. Precari, autonomi, free lance per una società nuova[/i], (Ponte alle Grazie, Milano 2013).

In pagine di estrema concentrazione teorica, gli autori attraversano i mutamenti in atto al livello dei grandi processi produttivi e istituzionali e dei loro percorsi sociali molecolari. Portano così il lettore sulla soglia di una verità insieme semplice e intollerabile: non c’è confine allo strapotere contemporaneo del mercato; non c’è rifugio che contenga il trauma ai margini dell’esperienza quotidiana; non c’è argine allo sfregio orrendo del tempo negato, dei diritti sospesi, della lotta barbarica per la sopravvivenza.

E tuttavia, nello stato di deprivazione complessiva offertoci dal neoliberismo, esiste una condizione che, sebbene mobiliti l’insieme del sistema di produzione ed estrazione del valore, appare esposta più di altre alla rimozione della competizione globale: è il profilo sociale di perenne eterogeneità, incompiutezza e sospensione del Quinto Stato, non un ceto, né una classe, piuttosto un processo vivo, una condizione in divenire, perciò stesso esclusa da qualunque forma di rappresentanza lobbistica e sindacale, «in cui si ritrovano tutte le attività autonome, “atipiche” o “non standard”, in una parola “precarie”, l’autoimpresa come la piccola impresa che popolano in maniera prevalente il mondo del lavoro oggi» (p. 10).

Nel percorso di rappresentazione di quello che è per sua natura inafferrabile, A e C si imbattono in condizioni professionali e status sociali divergenti e opportunamente includono i migranti di seconda generazione e i giovani che non studiano né lavorano, i cosiddetti NEET, la zona grigia compresa tra sfiducia e inoccupazione, lavoro intermittente e lavoro in nero.

L’assunto di fondo presuppone che, nella declinazione oggi dominante, esista una struttura profonda che accomuna il pubblico al privato in quanto modelli ugualmente fondati sulla concentrazione del potere e sull’esclusione: è proprio la cattura del costituzionalismo liberale degli Stati nell’alveo del capitalismo globale transnazionale ad aver diffuso su vasta scala l’esperienza della precarietà lavorativa e della marginalità sociale di una parte consistente del Quinto Stato, e soprattutto del lavoro cognitivo giovanile.

L’insensatezza di un sistema ormai sregolato fa sì che il Quinto Stato, pur svolgendo un compito essenziale al funzionamento dei grandi apparati tecnologici e burocratici, sia costretto ai loro confini, mero ingranaggio plurifungibile all’interno di meccanismi che ne disgregano le funzioni intellettuali e lo privano di ogni potere effettivo e riconoscibilità collettiva.

Non a caso – ci pare – la flessibilità e l’elevata capacità di conversione hanno investito in pieno anche la cultura umanistica, polverizzata e declassata a insieme di informazioni e di saperi, investita del nuovo (modesto) statuto di «componente di una formazione di base variamente interdisciplinare e fungibile, capace di adattarsi a condizioni diverse e di fornire alcuni strumenti interpretativi» (Romano Luperini, Otto tesi sugli intellettuali).

L’affilata penetrazione teorica degli autori non fa sconti immeritati sulla contraddizione: gli elementi costitutivi del Quinto Stato sono colti nella loro oggettiva consistenza, prima che i luoghi comuni (di destra e di sinistra) si impossessino del loro significato; pertanto, al lavoro autonomo si attribuisce sia il senso di sottrazione alla gabbia degli ergastoli salariati e alla società di controllo sia il riconoscimento di una condizione di eteronomia indotta dalla potenza ricattatoria del sistema.

Come restituire allora al lavoro autonomo la percezione della propria potenzialità? Come evitare che questa condizione declini verso forme di competitività e sciacallaggio? A e C sfuggono insieme alla Scilla euforica dell’arroganza (la mistificazione sul promettente futuro degli “imprenditori di se stessi”) e alla Cariddi depressa dell’autocommiserazione e del rancore. E, nel solco di una tradizione eterodossa (non si può qui non ricordare il gruppo di lavoro animato da Sergio Bologna intorno alla rivista militante «Primo maggio» ovvero la definizione del precariato come “classe in divenire” adottata da Guy Standing in Una politica per il paradiso), contrappongono alle proiezioni identitarie delle figure professionali la cooperazione e l’agire collettivo; individuano un terreno di ricomposizione attraverso forme di intervento che agiscano dal basso in modo reticolare sulla base di obiettivi universalistici quali i diritti di accesso, la difesa dei beni comuni, il reddito di cittadinanza.

È qui che il contropotere costituente del Quinto Stato si anima di un’ansia di superamento dell’esistente verso uno scenario possibile: i capitoli dedicati al “mutualismo” e alla sua riscoperta a partire dalle ottocentesche società operaie di mutuo soccorso costituiscono un avanzamento nella teoria e nella prassi (quasi un controcanto alle derive sindacali) e segnano di generosa tensione, appena dissimulata, una scrittura che per il resto poco concede alla suggestione.

Non è detto che la salvezza passi da qui. Ma l’impegno, la responsabilità, il futuro appartengono a chi sceglie di incorporare nelle contraddizioni che sperimenta tutte le marginalità, le differenze, i confini che premono sulla scena globale.

(3 dicembre 2013) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]
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