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'L''economia è una menzogna'

'L''economia è una menzogna (Bollati Boringhieri, 2014): intervista a Serge Latouche. [Daniele Pepino]'

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3 Aprile 2015 - 16.16


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(a cura) di Daniele Pepino

[center]La politica[/center]

I rimedi, le proposte che lei ha indicato, secondo lei sono praticabili a livello nazionale? Oppure queste politiche che mettono in discussione tutta la base istituzionale esistente – europea e non soltanto – per essere realizzate presuppongono una trasformazione dell’intero sistema?

Per riprendere il parallelo storico già menzionato, potrei rispondere – volendo essere a mia volta provocatorio – che è più realistico immaginare la costruzione di una società di abbondanza frugale a livello nazionale (e anche locale) di quanto non sia stato pensare la costruzione del socialismo in un solo paese nella Russia di Stalin. Questo però non vuol dire che io non tenga conto del fatto che i problemi ambientali più gravi che dobbiamo affrontare per realizzare il nostro progetto hanno una dimensione mondiale (basta pensare al cambiamento climatico). Di fronte a questa complessità, non bisogna perdere di vista il fatto che la costruzione di una società della decrescita è un orizzonte di senso, un progetto che non sarà mai interamente realizzato, è una strada che si percorre.

Questa è la strada su cui dobbiamo muoverci, e in questa direzione possiamo fare dei passi avanti sia a livello locale sia a livello nazionale e mondiale. Esistono già iniziative che vanno in questo senso, come le [url”Transition towns”]http://comune-info.net/2012/07/il-cucchiaio-e-le-transition-town/[/url] [10], che fanno un buon lavoro a livello territoriale, ma che naturalmente non possono risolvere problemi di portata nazionale: ad esempio, non possono risolvere completamente il problema della disoccupazione che caratterizza la crisi attuale in tutta l’Inghilterra, come d’altronde dappertutto. Lo stesso vale a maggior ragione per il livello nazionale, dove è possibile risolvere molti problemi ma non tutti. Oltre un certo punto ci si scontra sempre con un blocco che può essere superato soltanto a un livello superiore.

Dunque una soluzione, o quantomeno una via intermedia, potrebbe passare per la difesa della sovranità nazionale? Cioè per un ritorno al buon vecchio Stato-nazione minacciato dalla globalizzazione e dalla finanza internazionale? Anche ammettendo che sia possibile, una prospettiva simile è auspicabile? Oppure la rilocalizzazione di cui lei parla per gli aspetti produttivi impone anche di ripensare la collocazione dei luoghi istituzionali di decisione (ad esempio a chilometro zero)? Per essere più esplicito, penso alle bioregioni teorizzate da Murray Bookchin,[11] alle municipalità autonome zapatiste [12] (o, per l’Italia, alle riflessioni di Alberto Magnaghi sul progetto locale).[13] Secondo lei oggi queste sono prospettive praticabili in Occidente?

Lei solleva una questione complessa. L’orizzonte del progetto della decrescita è quello di una organizzazione sociale che comporta un’articolazione piramidale di bioregioni (secondo lo schema di Murray Bookchin). È così che ho prospettato le cose nel mio libro La scommessa della decrescita.[14] Tuttavia, nella situazione attuale e immediata, che è quella della crisi dei debiti sovrani, gli Stati Uniti rimangono, secondo me, l’unico potere capace di tenere testa ai mercati finanziari, perché hanno ancora una forza consistente. Oggi assistiamo alla diffusione di varie rivendicazioni di indipendenza da parte di entità territoriali, penso ad esempio alla recente immensa manifestazione di Barcellona nella quale i catalani hanno reclamato la separazione dallo Stato spagnolo. È una cosa molto simpatica, ma nel contesto attuale la Catalogna indipendente avrebbe sicuramente meno peso della Spagna per affrontare una eventuale fine dell’euro o l’uscita dall’Unione Europea.

L’obiettivo finale chiaramente non è di ritornare allo Stato-nazione o al sistema degli Stati-nazione. L’orizzonte rimane una organizzazione confederale di bioregioni. Ma oggi il punto centrale è la lotta titanica tra il potere economico globale dell’oligarchia finanziaria e le popolazioni rappresentate (molto male, bisogna dire) dagli Stati-nazione. La sola istituzione capace di salvarci dallo strangolamento da parte dei mercati finanziari – e capisco benissimo che si possa essere scettici su questa capacità – rimane il vecchio Stato-nazione.

Siamo condannati a combattere una doppia battaglia: una per recuperare e rafforzare il potere degli Stati-nazione, e l’altra, contemporaneamente, per uscire dal sistema nazional-statale.

Ma se la politica dei partiti è ormai ridotta, quasi dovunque, all’amministrazione acritica dell’esistente, è ancora possibile pensare a una «politica elettorale» della decrescita? È pensabile che la struttura politico-istituzionale (e poliziesca) attuale possa orientarsi – supponendo che sia gestita diversamente – verso l’«uscita dall’economia» e lo smantellamento o la riconversione del sistema tecno-industriale che una società della decrescita presuppone? O ancora, in altri termini, come lei ha scritto citando il subcomandante Marcos: «Con la globalizzazione economica il luogo del potere ormai è vuoto, e allora a che serve prendere il potere»?

Il problema è di riuscire a costruire un contropotere capace di affrontare l’oligarchia, come sostiene in un contesto particolare il subcomandante Marcos. È questo il nodo centrale di qualsiasi strategia alternativa. E per raggiungere questo obiettivo non si può fare assolutamente affidamento sui partiti così come sono oggi. Il compito del contropotere infatti è proprio quello di imporre al potere ufficiale e ai partiti di andare in una direzione piuttosto che in un’altra. Un esempio significativo di questo tipo di strategia è quello che è stato ottenuto dalla Coordinadora di Cochabamba nella «guerra dell’acqua». La Coordinadora non ha cercato di prendere il potere, ma di imporre a un potere semifascista di annullare un contratto di privatizzazione dell’acqua firmato con una multinazionale.[15] Per me è questa la strategia giusta.

È a questo che faccio riferimento quando dico che dobbiamo lottare su due fronti: batterci contro lo Stato per costringerlo a usare il proprio potere nei confronti delle imprese multinazionali e delle oligarchie e poi, una volta ottenuta la sconfitta delle oligarchie, batterci per trasformare lo Stato, ed eventualmente per distruggerlo e organizzare una forma diversa della politica.

Dunque si può dire che il movimento della decrescita, per quanto esiste, ha un programma in diverse fasi? O più precisamente un programma di transizione? Allora che differenza c’è tra il movimento degli obiettori di crescita e una forza politica tradizionale come un partito di sinistra classica, con un «programma immediato» e un «programma a medio e lungo termine» (cioè un programma riformista e un altro massimalista o rivoluzionario)?

C’è una grande differenza. Ma su questo punto forse in quello che ho scritto non sono stato abbastanza esplicito, probabilmente perché io stesso non avevo ancora le idee chiare. Riconosco che ho scritto una cosa sbagliata o quantomeno imprecisa, quando ho sostenuto che quello della decrescita era un progetto politico. Oggi non lo definisco più così: a rigor di termini, la decrescita non è un progetto politico ma un progetto sociale, o meglio di società. Si tratta di trasformare la società, non di prendere il potere.

Il nocciolo del progetto è uscire da una civiltà e crearne un’altra, uscire da una religione e inventare un altro immaginario. Ovviamente un progetto del genere ha evidenti implicazioni politiche, in quanto è indispensabile adottare certe misure politiche per impedire la distruzione dell’ecosistema, per preservare le risorse naturali e così via. Ed è proprio questo che in quanto contropotere, contropotere sociale, tentiamo di imporre ai poteri politici ed economici. È all’interno dell’orizzonte di senso rappresentato dall’utopia concreta della società della decrescita che si colloca l’azione quotidiana, di contropotere, che si scontra con i poteri politici ed economici. A questo livello, nelle lotte quotidiane, naturalmente possiamo fare delle alleanze. Ci sono convergenze possibili con una varietà di altri movimenti: gli antinuclearisti, gli altermondialisti, i difensori dei beni comuni come l’acqua, i movimenti contro l’austerità ecc., perfino la lega per la difesa degli uccelli.

[center]Gli scenari[/center]

Al di là delle intenzioni e delle speranze, quali scenari pensa siano probabili da un punto di vista obiettivo e storico? La società della decrescita si realizzerà (se mai si realizzerà) attraverso un processo progressivo? Nascerà a seguito di una serie di crisi e di crolli o sarà il risultato di una successione di avvenimenti catastrofici? Si realizzerà in modo uniforme, contemporaneo in tutto il pianeta? Oppure dobbiamo pensare piuttosto a fenomeni di decomposizione, di secessioni di territori (qualcosa di simile al declino dell’Impero romano)?

Non sono un profeta, non posso rispondere in modo netto. Mi sembra comunque che lo scenario di una trasformazione lenta e progressiva sia il più probabile. La situazione in cui ci troviamo è evidente da almeno cinquant’anni: il primo allarme sulla crisi ecologica si può far risalire all’uscita del libro di Rachel Carson Primavera silenziosa,[16] tutto era abbastanza chiaro fin da allora. Da quel momento in poi si sono sviluppati movimenti come quello dei Verdi ed è cresciuta una coscienza ecologica. Abbiamo avuto la prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente a Stoccolma nel 1972, poi quella di Rio nel 1992, poi quella di Johannesburg, poi ancora Rio, per non dire delle altre. Ma se facciamo un bilancio, si può dire che abbiamo fatto «un passo in avanti e due indietro». Nella realtà, la forza, la capacità di resistenza del sistema è talmente forte che soltanto un crollo può aprire la strada a una via d’uscita. E una volta trovata questa via d’uscita, quale direzione prenderemo?

È questo l’interrogativo. Sarà ecosocialismo o barbarie. Oggi siamo arrivati più o meno al momento della verità. In alcune zone del pianeta la tendenza sembra piuttosto favorevole all’ecosocialismo (penso, ad esempio, all’Ecuador e alla Bolivia), mentre altri paesi, come gli Stati Uniti (basta seguire la campagna elettorale), sembrano invece orientarsi verso forme di ecofascismo, verso un sistema di barbarie. Non posso dire che cosa verrà fuori da questa lotta titanica tra le forze del bene e le forze del male. È difficile da prevedere. Con tutta probabilità comunque stiamo andando incontro a un caos incredibile.

Ho intitolato un mio recente contributo La caduta dell’Impero romano non ci sarà, ma l’Europa di Carlo Magno è destinata a esplodere.[17] Con questo titolo volevo sottolineare il fatto che l’Impero romano in un certo senso non è mai crollato, cioè che è difficile fissare la data della sua caduta: sicuramente non il 410, con il sacco di Roma da parte dei visigoti di Teodorico, e neppure il 476, con la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre. Dopo c’è Bisanzio, la Roma bizantina che nel vi secolo vede una certa rinascita. E in seguito c’è il Sacro Romano Impero germanico, fino al 1806, e comunque negli anni successivi restano due cesari, il kaiser tedesco e lo zar russo. L’Impero di Carlo Magno invece in fin dei conti è durato soltanto cinquant’anni! Si è disgregato perché era un’impresa controcorrente rispetto alla storia del momento. L’Unione Europea oggi si trova nella stessa situazione. Di questa Europa non si può dire che si è costruita controcorrente, ma piuttosto contro il buon senso. Per questo stiamo vivendo il crollo di questa costruzione la cui idea di partenza era seducente, ma che è stata costruita su basi sbagliate.

Le catastrofi le abbiamo già davanti agli occhi, e ce ne saranno ancora. Ma al tempo stesso c’è anche la capacità del sistema di riorganizzarsi. L’Impero romano si è riorganizzato molte volte. Ma nel IV secolo d.C. la popolazione di Roma era passata da circa 2 milioni (questa è la stima al suo apogeo) a 30 000. Ai giorni nostri, la popolazione di Detroit è passata da circa 2 milioni a 700 000. Che cosa è successo? In entrambi i casi le persone non sono scomparse, non sono state massacrate: molte sono andate a stabilirsi altrove e quelle che sono restate hanno riconvertito la zona centrale di Detroit in giardini urbani. È un’altra civiltà che nasce. Probabilmente succederà lo stesso a Parigi e a New York, sarà un cambiamento enorme ma che avverrà poco a poco.

Su questo punto c’è un dibattito aperto con l’amico Yves Cochet, in quanto lui vede il crollo come un momento unico, brutale, mentre io non lo vedo così. Non arriverà un giorno in cui si dirà: «Il petrolio è finito». Più probabilmente, sarà come è successo all’Impero romano nella tarda Antichità, un periodo che ho un po’ studiato e che trovo affascinante. In quel periodo storico gli acquedotti, che erano più o meno l’equivalente del petrolio, non venivano più sorvegliati, spesso si interrompevano, ma poi finivano per essere riparati alla bell’e meglio e rimessi in funzione. Non hanno smesso di portare acqua da un giorno all’altro. Ancora nell’VIII secolo papa Adriano I ne fa riparare alcuni per l’ultima volta, dopo di che cadono in rovina definitivamente. Ma a quel punto la gente, molto meno numerosa, si era poco a poco riorganizzata per farne a meno. Non ne avevano più veramente bisogno, perché tutto era cambiato.

Due anni fa abbiamo assistito al blocco del traffico aereo a causa di un’eruzione vulcanica in Islanda, ma poi i voli sono ripresi. Tra non molto il traffico aereo si bloccherà di nuovo perché non ci sarà più petrolio, ad esempio a causa della guerra con l’Iran e della chiusura del distretto di Sharm el-Sheikh. Poi i voli riprenderanno con un volume inferiore, finché un giorno non ci saranno più. Ma a quel punto ci saremo abituati e ci saremo riorganizzati di conseguenza. Io vedo le cose grosso modo così, anche se si tratta soltanto di un’ipotesi personale, e siamo un po’ nel regno della fantascienza.

Fantascienza sì, ma non più di tanto a mio parere. In effetti, non è uno degli obiettivi del movimento della decrescita (e non solo il suo) quello di reagire concretamente fin d’ora, di abituarsi già adesso a scenari di questo tipo e costruire reti di relazioni, di saperi, di attività manuali, di riappropriarsi dei saperi perduti e di rafforzare l’autonomia proprio in previsione del giorno il cui avverrà il crollo?

Assolutamente. Ed è ciò che fanno, ad esempio, le Transition towns, la rete delle città in transizione di cui si è parlato: sviluppare la resilienza e la capacità di affrontare gli shock prevedibili (come la fine del petrolio o quella del commercio mondiale) rafforzando le capacità di autonomia.[18] È vero che non siamo gli unici a porci questo tipo di problemi: altri lo fanno in altre forme, come ad esempio i movimenti survivalisti, che si organizzano in previsione della catastrofe facendo scorte di armi, creando riserve di cibo, costruendo bunker e altri mezzi di difesa, ma sono scelte diverse, che vanno piuttosto nella direzione di quella che poco fa ho definito barbarie.

Note

10 La «rete di transizione» (transition network) – di cui le «città in transizione » (transition towns) sono parte – è un movimento nato dalle intuizioni e dalle ricerche dell’ambientalista inglese Rob Hopkins, intorno al 2005, con l’obiettivo di «traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico, profondamente basato su una vasta disponibilità di petrolio a basso costo e sulla logica di consumo delle risorse, a un nuovo modello sostenibile non dipendente dal petrolio e caratterizzato da un alto livello di resilienza. Analizzando più a fondo i metodi e i percorsi che la transizione propone, si apre un universo che va ben oltre questa prima definizione e fa della transizione una meravigliosa e articolatissima macchina di ricostruzione del sistema di rapporti degli uomini tra loro e degli uomini con il pianeta che abitano» (www.transitionitalia.wordpress.com). Per il network internazionale cfr. www.transitionnetwork.org. e infra, p. 111, nota 33.

11 Cfr. Murray Bookchin (1921-2006) è uno dei fondatori della corrente dell’«ecologia sociale» e del «municipalismo libertario» (una pionieristica sintesi storica tra il socialismo libertario e la critica ecologica). Di Murray Bookchin cfr. Post-scarcity Anarchism. L’anarchismo nell’età dell’abbondanza, La Salamandra, Milano 1979 (ed. or. 1971), L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, Elèuthera, Milano 1988 (ed. or. 1982) e Democrazia diretta. Idee per un municipalismo libertario, Elèuthera, Milano 1993.

12 Tra i molti testi sull’argomento, per un’analisi critica recente del movimento neozapatista cfr. in particolare Vittorio Sergi, Il vento dal basso. Nel Messico della rivoluzione in corso, ed. it., Firenze 2009; John Holloway, Sergio Tischler, Fernando Matamoros, Roberto Bugliani e Vittorio Sergi, Zapatismo. Tracce di ricerca, ed. it., Firenze 2010.

13 Cfr. Magnaghi, Il progetto locale cit.

14 Cfr. Latouche, La scommessa della decrescita cit.

15 Nel 1999, in Bolivia, il governo municipale di Cochabamba firma con un consorzio di imprese, tra cui la statunitense Bechtel e l’italiana Edison, un contratto per la concessione trentennale delle acque. Il governo boliviano, intanto, dopo aver privatizzato l’istruzione, la sanità e le telecomunicazioni, emana una legge che privatizza l’accesso all’acqua. Ciò darà origine a una serie di lotte per la difesa dell’uso comunitario delle acque, organizzata intorno alla Coordinadora de defensa del agua y la vida, che sfocerà – nella settimana del 4-10 aprile 2000 – nella sollevazione popolare nota come «guerra dell’acqua». La battaglia, che lascia sulle strade di Cochabamba manifestanti morti e centinaia di feriti, oltre ai dirigenti della Coordinadora arrestati, si conclude con la vittoria popolare: il ritiro della legge sulla privatizzazione dell’acqua e l’espulsione dal paese del consorzio.

16 Cfr. Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 1963 (ed. or. 1962). Questo testo, considerato il punto di partenza del movimento ecologista contemporaneo, dimostra per la prima volta gli effetti nocivi dell’uso degli insetticidi chimici, in quanto sostanze tossiche, inquinanti e cancerogene (in particolare il DDT) nell’agricoltura industriale.

17 Si tratta dell’intervento a un convegno all’Assemblea Nazionale francese, ora in Serge Latouche, Yves Cochet, Jean-Pierre Dupuy e Susan George, Dove va il mondo? Un decennio sull’orlo della catastrofe, Bollati Boringhieri, Torino 2013 (ed. or. 2012).

© 2012 Serge Latouche e © 2014 Bollati Boringhieri editore.

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