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La nostra impotenza contemporanea

Estratto dell’intervento di Alain Badiou alla conferenza “Le symptôma grec”, tenutasi presso l’Università di Parigi e all’École Normale Supérieure nel gennaio del 2013.

La nostra impotenza contemporanea
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17 Novembre 2013 - 17.21


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di Alain Badiou

Voglio iniziare con una sensazione, un sentimento, forse personale, forse ingiustificato, ma che ad ogni modo sento, viste le informazioni di cui dispongo: una sensazione di generica impotenza politica. Ciò che sta accadendo in Grecia è una sorta di concentrato di questa sensazione.

Ovviamente il coraggio e la creatività tattica dei dimostranti progressisti e anti-fascisti sono motivo di entusiasmo. Queste sono cose veramente importanti. Sono cose nuove? Niente affatto. Esse sono gli elementi invariabili di ogni vero movimento di massa: egualitarismo, democrazia di massa, invenzione di slogan, coraggio, velocità di reazione… Sono cose che abbiamo visto, con la stessa energia – un’energia gioiosa e sempre un po’ ansiosa – nel Maggio del 1968 in Francia. Le abbiamo viste più recentemente a Piazza Tahrir, in Egitto. Sicuramente esse dovevano essere all’opera anche ai tempi di Spartaco o di Thomas Münzer.

Ma proviamo a muoverci, provvisoriamente, da un altro punto di partenza.

La Grecia è un paese con una storia molto lunga e dal significato universale. Un paese la cui resistenza a varie oppressioni e occupazioni che si sono susseguite è dotata di particolare intensità storica. Un paese in cui il movimento comunista, anche nella forma della lotta armata, è stato particolarmente potente. Un paese in cui, ancora oggi, i giovani danno l’esempio sostenendo rivolte di massa e tenaci. Un paese in cui, senza dubbio, le forze reazionarie classiche sono ben organizzate, ma in cui vi è anche la risorsa coraggiosa e copiosa di grandi movimenti popolari. Un paese in cui ci sono senza dubbio organizzazioni fasciste forti, ma anche un partito di sinistra con una base elettorale e militante apparentemente solida.

Ora, ogni cosa in questo paese accade come se nulla riuscisse a fermare il totale dominio capitalista, sprigionato dalla crisi in cui il paese stesso versa. È come se, sotto la direzione di comitati ad hoc e governi servili, il paese non avesse alternativa a seguire i decreti selvaggiamente anti-popolari della burocrazia europea. In realtà, rispetto alle questioni che si pongono e alle loro “soluzioni” europee, il movimento di resistenza sembra essere più una tattica di posticipazione che una fonte di reale alternativa politica.

Questa è la grande lezione del nostro tempo; una lezione che ci invita non solo a sostenere il popolo greco con tutta la nostra forza, ma anche ad accompagnarlo in una riflessione su cosa vada pensato e fatto affinché questo coraggio non sia un coraggio disperatamente inutile.

Ciò che colpisce – in Grecia soprattutto, ma anche altrove, in particolare in Francia – è l’evidente incapacità delle forze progressiste di costringere i poteri economici e di stato – quei poteri che stanno apertamente cercando di sottomettere la gente alla nuova (sebbene di lunga data e fondamentale) legge del liberismo assoluto – alla benché minima ritirata.

Non solo le forze progressiste non stanno facendo alcun progresso e non riescono a ottenere anche solo un successo limitato. Ma le forze fasciste sono addirittura cresciute e, sullo sfondo illusorio di un nazionalismo xenofobo e razzista, ora rivendicano la leadership dell’opposizione ai decreti delle amministrazioni europee.

La mia sensazione è che alla fine la radice di questa impotenza non sia l’inerzia della gente, la mancanza di coraggio o il sostegno della maggioranza per dei “mali necessari”. Molte testimonianze ci hanno mostrato che le risorse per una resistenza popolare, vigorosa e di massa esistono. Tuttavia questi tentativi non hanno prodotto alcun nuovo modo di pensare la politica. Nessun nuovo vocabolario è emerso dalla retorica di protesta e i rappresentanti sindacali sono alla fine riusciti a convincere tutti che occorre aspettare… le elezioni.

Penso che quello che sta accadendo oggi sia che le categorie politiche che gli attivisti stanno cercando di utilizzare per pensare e trasformare la situazione in cui ci troviamo siano ampiamente inoperative.

Dopo i movimenti di massa degli anni Sessanta e Settanta, abbiamo ereditato un periodo contro-rivoluzionario molto lungo: dal punto di vista economico, politico e ideologico. Questa contro-rivoluzione ha efficacemente distrutto la fiducia e il potere che una volta erano in grado di saldare la coscienza popolare alle parole di emancipazione politica più elementare – parole come, per citarne alcune, “lotta di classe”, “sciopero generale”, “rivoluzione”, “democrazia di massa” e tante altre.

La parola chiave “comunismo”, che aveva dominato il panorama politico sin dall’inizio del XIX secolo, è stata relegata a una sorta di infamia storica. Il fatto che l’equazione “comunismo = totalitarismo” sembri naturale e sia accettata in maniera unanime indica quanto pesantemente, nei disastrosi anni Ottanta, i rivoluzionari abbiano fallito. Ovviamente non possiamo nemmeno evitare una critica severa e incisiva di ciò che gli stati socialisti e i partiti comunisti al potere, specialmente in Unione Sovietica, erano diventati.

Ma questa critica dovrebbe essere la nostra critica. Dovrebbe nutrire le nostre teorie e pratiche, aiutandole a progredire, tuttavia senza guidarci in una tetra forma di rinuncia e senza gettare via il bambino con l’acqua sporca. Poiché questo ci ha condotti a uno stupefacente stato di cose: nel guardare a un episodio storico di importanza capitale per noi, abbiamo adottato, praticamente senza alcuna restrizione, il punto di vista del nemico. E coloro che non l’hanno fatto hanno perseverato nella vecchia lugubre retorica, come se nulla fosse accaduto.

Fra tutte le vittorie del nostro nemico, questa vittoria simbolica è una delle più importanti.

Ai vecchi tempi del comunismo ci prendevamo gioco di quello che chiamavamo langue de bois, il linguaggio trito e stereotipato fatto di parole vuote e aggettivi pomposi.

Certo, certo. Ma l’esistenza di un linguaggio comune è anche l’esistenza di un’idea condivisa. L’efficacia della matematica nelle scienze – e non si può negare che la matematica sia una magnifica langue de bois – ha a che vedere con il fatto che essa formalizza l’idea scientifica. La capacità di formalizzare velocemente l’analisi di una situazione e le conseguenze tattiche di quell’analisi. Questo è richiesto anche in politica. È un segno di vitalità strategica.

Oggi, una delle grandi capacità dell’ideologia democratica ufficiale consiste nel fatto che essa ha a sua disposizione una langue de bois parlata su tutti i media e da ciascuno dei nostri governi, senza eccezioni. Chi crederebbe che termini come “democrazia”, “libertà”, “diritti umani”, “bilancio in ordine”, “riforme” e così via non sono altro che gli elementi di un’onnipresente langue de bois? Siamo noi, militanti senza una strategia di emancipazione, a essere (ormai da un po’) i veri afasici! E non sarà il linguaggio simpatico e inevitabile della democrazia movimentista che ci salverà. “Basta questo o quello”, “tutti insieme vinceremo”, “fuori” “resistenza!”, “ribellarsi è un diritto”… Queste formule sono in grado di coalizzare i sentimenti collettivi e sono, dal punto di vista tattico, estremamente utili; ma lasciano completamente irrisolta la questione di una chiara strategia. Questo linguaggio è troppo povero per una discussione sul futuro delle azioni di emancipazione.

La chiave del successo politico risiede nella forza della ribellione, nel suo scopo e nel suo coraggio. Ma anche nella sua disciplina, e nelle dichiarazioni di cui essa è capace – visto che le dichiarazioni hanno a che fare con un futuro strategico positivo che riveli una nuova possibilità rimasta fino ad allora oscurata dalla propaganda del nemico. È per questo motivo che l’esistenza di movimenti popolari di massa non fornisce di per sé alcuna visione politica. Ciò che tiene insieme un movimento sulla base di sentimenti individuali è sempre un elemento negativo: quella cosa che procede a partire da negazioni astratte – come “basta capitalismo”, o “basta licenziamenti”, o “no all’austerità”, o “abbasso la troika europea” – che hanno solo l’effetto di saldare il movimento con la fragilità dei suoi sentimenti. Anche in forme di negazione più specifica, il cui obiettivo è preciso e che coalizzano diversi strati popolari, come “basta Mubarak” durante la primavera araba, esse possono produrre un risultato ma non possono mai costruire la politica di quel risultato.

Ogni politica diventa l’irreggimentazione di ciò che afferma e propone, non di ciò che nega e rifiuta. Una politica è una convinzione attiva e organizzata, un pensiero in azione che indica possibilità nascoste. Motti come “resistenza!” sono certamente auspicabili al fine di mettere insieme le persone, ma rischiano anche di trasformare questa assemblea in nulla più che un misto gioioso ed entusiasta di esistenza storica e fragilità politica, per poi diventare, una volta che il nemico (che è politicamente, discorsivamente e governamentalmente meglio attrezzato) ha la meglio, un amaro doppione e una ripetizione di un fallimento.

Non è nel contagio di un sentimento negativo di resistenza che troveremo ciò che serve per produrre una seria ritirata delle forze reazionarie che cercano oggi di disintegrare qualsiasi forma di pensiero e azione che rifiuti di assecondarle; ma nella disciplina condivisa di un’idea comune e nell’utilizzo diffuso di un linguaggio omogeneo.

La ricostruzione di questo linguaggio è un imperativo fondamentale. È con questo fine che ho cercato di reintrodurre, ridefinire e riorganizzare tutto ciò che dipende dalla parola “comunismo”. La parola “comunismo” denota tre cose fondamentali. In primo luogo, essa denota l’osservazione analitica secondo cui, nelle società dominanti contemporanee, la libertà, la cui feticizzazione democratica è nota a tutti noi, è, di fatto, interamente dominata dalla proprietà.

La “libertà” non è altro che la libertà di acquistare ogni bene possibile senza alcun limite prestabilito, e il potere di fare “ciò che si vuole” si misura direttamente dalle dimensioni di questo acquisto. Chi ha perso ogni possibilità di acquistare qualcosa non ha, di fatto, alcuna libertà, come i “vagabondi” che gli inglesi liberali del capitalismo emergente condannarono a morte e impiccarono, senza scrupoli. Per questa ragione Marx, nel Manifesto, dichiara che tutte le ingiunzioni del comunismo possono, in un certo senso, essere ridotte a una: l’abolizione della proprietà privata.

Inoltre, “comunismo” significa l’ipotesi storica secondo cui non è necessario che la libertà sia governata dalla proprietà, e che le società umane siano dirette da una ristretta oligarchia di potenti uomini d’affari e dai loro servi politici, la polizia, l’esercito e i media.

È possibile una società in cui ciò che Marx chiama “libera associazione” predomini; in cui il lavoro produttivo sia collettivizzato; in cui abbia inizio la dissoluzione delle grandi contraddizioni non-egualitarie (tra lavoro intellettuale e manuale, tra città e campagna, tra uomini e donne, tra amministrazione e lavoro, etc…); e in cui le decisioni che concernono tutti siano davvero un affare di tutti. Dovremmo trattare questa possibilità egualitaria come un principio di pensiero e di azione, e non abbandonarlo.

Per finire, “comunismo” designa il bisogno di un’organizzazione politica internazionale. Esso cerca di mettere in moto le capacità delle persone e di costruire, in contrasto con lo stato di cose esistente, un potere interno a ogni situazione data. Per questo potere l’obiettivo è di essere in grado di piegare il reale nella direzione prescritta tenendo insieme i principi e la soggettività attiva di tutti coloro che intendono trasformare la situazione in questione.

La parola comunismo, dunque, definisce l’intero processo attraverso cui la libertà è liberata dalla sua sottomissione non-ugualitaria alla proprietà. Il fatto che questa parola sia stata quella che i nostri nemici hanno più loscamente rifiutato ha a che vedere con il fatto che non sono in grado di resistere a questo processo, il quale distruggerebbe la loro libertà, la cui norma è stabilita dalla proprietà. Se questo è ciò che i nostri nemici detestano maggiormente, allora è dalla sua riscoperta che dobbiamo incominciare.

Questi esercizi verbali ci hanno portato lontano dalla Grecia e dall’urgenza concreta della sua situazione? Forse. Tuttavia, una politica [une politique] è sempre l’incontro tra la disciplina delle idee e la sorpresa delle circostanze. Essa è un potere immediato, ma anche l’istituzione di una durata. La mia speranza è che la Grecia sia, per tutti noi, il sito universale di questo incontro.

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