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La crisi del linguaggio filosofico nella seconda modernità

La crisi del linguaggio filosofico nella seconda modernità: una riflessione dal sottosuolo. [Sonia Caporossi]

La crisi del linguaggio filosofico nella seconda modernità
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4 Febbraio 2015 - 00.03


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di Sonia Caporossi

[right]In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile.[/right]

[right](Quella mattacchiona di Valerie Solanas, incipit dello SCUM Manifesto, a mo’ di esempio di qualsivoglia delirio locutorio preso a suo tempo per buono)[/right]

[right]Io credo più nelle cose che nelle parole.[/right]

[right](Pound, Ezra)[/right]

[right]Chi ha orecchi per intendere, intenda![/right]

[right](Cristo, Gesù)[/right]

[center]***[/center]

In questa società, come la sociologia normativa ormai da quarant’anni finge di sapere benissimo avendone in realtà solo un vago sentore (perché all’interno del problema è essa stessa immersa), la percezione della coscienza collettiva è diventata problematica al punto tale che ad essa si accompagna una crisi del segno linguistico tipica di ciò che Ulrich Beck ha chiamato, un po’ riduttivamente, seconda modernità: come dire che il linguaggio, oggi come oggi, non ha più la propria tradizionale funzione costitutiva della coscienza in quanto, giocoforza, nell’odierna civiltà dell’immagine la simultaneità ha preso il posto della successione logico-temporale sia nell’oralità che nella scrittura, ostacolando gravemente il richiamo collettivo ed individuale alla memoria e alla storia. L’antistoricismo nietzschano che tanto ha permeato le correnti filosofiche del primo e del secondo Novecento, e che può essere additato come principale responsabile di questa disfatta dell’autenticità del linguaggio proprio in virtù della modalità costruttivistica successiva, ha avuto vita facile nel corso del Novecento campando da simbionte su questo dato di fatto interconnesso, dal punto di vista economico, allo sviluppo del terziario avanzato, quello delle telecomunicazioni e della simultaneità dell’espressione scritta, orale, metaverbale e relative modalità di ricezione: ovvero, per una volta, la filosofia degli anni Sessanta in particolare ha giocato, quanto allo sviluppo della techne, di largo anticipo.

Una conseguenza di questa astrazione in termini visivi, comunicativi e di immagine è anche il fatto che la parola in genere ha perso la sua cosalità, il suo nesso intrinseco con le cose che nomina, sempre ammesso, verrebbe da dire, che l’abbia mai posseduto: il logos greco, infatti, parola filosofica per eccellenza che significa sia verbo che Dio, indica esemplarmente questa tendenza all’astrazione linguistica tipica della cultura occidentale da sempre, gettata – nell’esperienza senza adeguata preparazione teoretica, protesa più verso le pure idee che verso la concretezza dei riferimenti alle cose. Si assiste insomma in tempi odierni ad una sorta di crisi del linguaggio che si ripercuote sulla lingua: le parole e le cose non posseggono più un legame forte, le cose possono aspirare allo statuto di (presunta) realtà solo se si trasformano in parole astratte come veicoli platonici di idee. La realtà si scinde dalle parole nel flusso mediatico di virtualità avvolgente e simultanea che caratterizza l’era ancora attuale della comunicazione di massa, quella del cui concetto Adorno e Benjamin hanno dipinto la sagoma lasciando a Lyotard l’indagine sulla condizione cosiddetta “postmoderna” del sapere.

La conseguenza è che “si” pensa un corpo scisso nell’immediato presente, “si” concepisce una percezione distorta del valore delle cose e “si” rischia in continuazione (la grammatica qui è impersonale per forza di cose) di far degenerare i comportamenti sociali in violenza, secondo la vecchia ma non stantia lezione di Durkheim, in quanto ad un corpo percepito come immagine virtuale e simulacrum, fra l’ “a-storico” e l’ “anti – storico”, non pertiene più la tribale sacralità del rispetto della vita e della persona, nella propria irriducibile individualità: l’oggetto di consumo non è, si badi bene, viepiù consumato, bensì rimesso perpetuamente in mostra, nella vetrina cristallizzante della propria diuturna dis – mostrabilità, tale che ormai, a parlare di “sacralità della persona”, viene da ridere ai più. La cosa strana è che i ridanciani followers and fanatics di questa tendenza di pensiero la considerano ineludibile ed incontrovertibile proprio perché ne è stata fatta l’analisi da coloro che essi ritengono condivisibili senz’altro per correttezza ed infallibilità ermeneutica, ma non si rendono conto che essa, la corrente di pensiero che narra la morte dell’uomo, insomma, non perché sia antistorica risulta per questo meno inquadrata nella storia e soprattutto, è essa stessa oggetto di mistificazione linguistica primaria.

Ma insomma, oggi, di morte dell’uomo si può davvero parlare, con il linguaggio filosofico a nostra disposizione, nonostante e proprio in virtù della mostra delle atrocità nei postumi del nazismo? Sembrerebbe di sì, giacché da almeno cinquant’anni, insieme al crollo dei valori e delle Istituzioni è avvenuta, quatta quatta nei generali doposbronza intellettuali di cui la nostra epoca culturale s’è imbrattata, la scissione fra segno e significato e fra significato e senso (perché è di questo che in fondo si parla) che a sua volta ha permesso, a livello filosofico e sociale, il frantumarsi e l’indebolirsi del concetto di verità, non più legata ai fondamenti storici ed antropologici, non più in contatto con l’humus comune simbolico di cui parlava Cassirer; e tuttavia (è questo il punto) la verità, in fondo, è stata vituperata e vilipesa da chi, in primis, si sente figlio primogenito delle geometrie non euclidee ma in realtà, nella propria impostura tuttologica, non comprende granché di teoria matematica, e ciononostante addita con derisione il popperiano di turno che ancora crede nell’analisi (e non intendo qui parlare di quella della psiche), senza capire che casomai è Wittgenstein, non Popper, il punto di riferimento imprescindibile in filosofia del linguaggio, ancora oggi ch’è oggi. Ma quel figlio della crisi in cuor suo sa benissimo che, proprio per questo, di verità e di certezza assolute, non si può scientemente parlare in modo pacifico da un bel pezzo, essendo piuttosto da quasi un secolo giunta l’ora non tanto della ricerca della verità, quanto della ricerca fine a stessa, sic et simpliciter.

Perciò la volatilizzazione dell’aletheia non può essere considerata il vero motivo della crisi della società del secondo Novecento, pardon, volevo dire: della sua filosofia. E allora, se la crisi non può essere identificata con la messa in discussione del concetto di verità (che anzi apre infinite e fruttuose vie di ricerca fuor di metafisica), quale è il reale punto dolente del malessere contemporaneo e (fingendo che tale parola abbia un senso) “postmoderno”?

È prevalso, in definitiva, un relativismo nichilista che ha immobilizzato l’azione etica proprio laddove riteneva di metterla in moto; un movimento di pensiero osannato o quantomeno giustificato dalla filosofia postnietzschana soprattutto francese della seconda metà del Novecento, ma del quale non si sa bene quale sia il terminus ante quem, se sia stato tale nichilismo come corrente culturale e sensus communis, insomma, a dare l’avvio alla “morte dell’uomo”, o se sia prima morto l’uomo (come vorrebbero tali teorici a giustificazione empirica a posteriori del proprio crasso e conclamato costruttivismo a priori) e quindi sia rimasto, solo soletto, vox dolentis in deserto, il nulla (che in quanto nulla, si badi bene, è pur sempre qualcosa). Forse è per questo che la filosofia del secondo Novecento fino ad oggi è stata anche, superbamente, splendidamente e dannatamente, la più verbosa: l’inventio linguistica ha provato a compensare la débàcle concettuale, facendo con essa tutt’uno: e la filosofia s’è fatta poiesis, e la poiesis, filosofia.

Il linguaggio infatti, in quanto strumento poietico per eccellenza, possiede come sua funzione primitiva quella, udite udite!, di nominare le cose, perché suo scopo fondante rimane quello di possederle e non farsene possedere. Nanni Moretti in Palombella Rossa coglieva ad hoc il senso di questa spersonalizzazione astratta del linguaggio, nella famosa scena dell’intervista con la giornalista che lo incalza usando termini in stretto politichese totalmente privi di senso, portando il protagonista a sbottare nel famoso: “trend negativo”!?!?!…Ma come parla!!!…Le parole!…Le parole sono importanti!!!”. Ed Habermas, l’ottimista, certo concorderebbe.

Essendo il luogo della produzione di senso, la lingua è anche, alla Benjamin, il fortunato luogo dell’inespresso, ovvero il luogo della creazione di sempre nuovi significati e della modificazione e creazione continua della cultura nella potenzialità infinita dei sensi. È, questa, una circolarità ermeneutica sempre oscillante tra tradizione e innovazione (checché se ne dica), la quale travalica la dimensione della nootemporalità di Fraser per spaziare nell’ambito della comunicazione prettamente sociale. Perché essa sia viva e vitale, però, occorrerebbe, molto normalmente, riacquistare la dimensione della tradizione (in senso ampio) e quindi i significati storici delle parole che si sono trasformati nel corso del tempo. È infatti indubitabilmente accaduto che, nel trapasso generazionale delle tradizioni e dei significati, emersi o simbolicamente latenti, l’immaginazione, come fondamento del linguaggio, nella seconda modernità si sia svincolata dai territori preferenziali dell’arte, del mito e del rito, e sia stata incanalata, coercitivamente e senza mediazioni, all’interno dell’omologante e passivante flusso mediatico. Se i nomi sono l’essenza stessa della realtà, si deve tendere al collegamento dei segni linguistici in modo tale che essi diano forma a dei significati comuni che ci facciano sentire a casa nostra nel mondo. Ma nel flusso mediatico, l’unico nomen è il medium stesso, e tutto il resto dilegua, compresa la filosofia, ormai ancilla mediorum.

La lingua, fenomenologia oggi perversa del linguaggio, ha pur sempre la funzione di permettere l’acquisizione di un codice comune nel confronto delle esperienze di vita sullo sfondo della tradizione culturale e della storia della comunità parlante. Il collegare le parole ai concetti sullo sfondo di esperienze comuni consente anche il confronto costruttivo e il dialogo delle identità dei singoli all’interno del senso di realtà ed impedisce, così, l’immergersi sterile nell’ampolla astratta degli ideologismi separatori i quali, in sostanza, impediscono una reale comunicazione. È questo il principale motivo per cui si è manifestata la crisi della filosofia: la corsa all’inventio, tipica della migliore poiesis come arte ma lontana anni luce dalla filosofia in senso stretto, ha fatto sì che i significati, proprio laddove si rendevano maggiormente appetibili esercitando una ridondante fascinazione linguistica ed emozionale, non risultassero più condivisibili, sulla base di un senso comune estetico e logico, alla comunità dei parlanti: i filosofi hanno letteralmente creato una propria lingua ad hoc, non in senso semplicemente specialistico (com’era sempre stato) ma proprio nel senso che hanno applicato la vis poietica tipica dell’arte scrittoria alle produzioni di pensiero, facendo della filosofia una forma d’arte astratta, astraente e d’avanguardia, e per questo, allontanandola giocoforza da qualsivoglia aspirazione di verità e, quindi, di realtà; ovvero, di scientificità. Qualcosa di molto simile a ciò che è accaduto per la critica letteraria in figure di spicco come Roland Barthes e Maurice Blanchot, per intenderci, laddove la critica sul romanzo è diventata pezzo d’arte essa stessa. Ma, fintanto che si tratta di critica letteraria in bello stile, niente da dire, anzi, ben venga. La filosofia, però, apparterrebbe a rigore ad un altro statuto, quello non tanto dell’aletheia, quanto della sua indagine; ed oggi, per conseguenza, non si sa quasi più se non a malapena, certe volte, che cosa essa sia.

Ciò di cui parlo ha riscontri oggettivi: basti pensare che illustri filosofi estetici, ad esempio, sono stati fra i primi a esplicitare ottimamente, in senso artistico, proprio questo nesso arte – filosofia scrivendo romanzi e racconti filosofici e facendone prezioso melting pot: Stefano Zecchi ed Emilio Garroni ne sono l’esempio lampante, come lo stesso Paolo D’Angelo, forse per primo, sottolinea nel suo “L’estetica italiana del Novecento” (Bari, 1997), laddove, a mio avviso, passare dalla forma saggio alla forma romanzo è stato più che un deragliamento letterario: ovvero un atto estremo di onestà. Ma si sa, la filosofia estetica, come del resto la critica, si presta al trapasso, si presta molto e bene, senza per questo inficiarne il campo di indagine, perché dall’arte al discorso sull’arte poco ci passa: il problema, piuttosto, si manifesta quando tale trans – genderismo viene applicato a branche filosofiche come la teoretica, la filosofia politica, l’etica, la logica, la filosofia del diritto, l’antropologia, la storia stessa della filosofia, tale da abbattere i confini d’indagine fra l’una e l’altra fino a farne romanzo, “narrazione”.

Accade allora che mentre prima, fino all’Ottocento Hegel compreso, la filosofia era difficile da capire per il suo linguaggio specialistico, che però diceva “l’ovvio della non – ovvia condizione dell’ovvio” (Emilio Garroni), a cavallo del Novecento la filosofia sia divenuta difficile da capire per un linguaggio artistico che la accomuna all’arte denaturalizzata delle avanguardie del Novecento, tanto che ci si domanda se un reale contenuto, fondato e non solo creato, ci sia. Abbiamo acquistato in bellezza, ma perso in scientificità. Controindicazione non desiderata, quest’ultima, ma ineluttabile, nella con – fusione pasticciata delle semiosfere, laddove il senso comune, volenti o nolenti, come accade per quell’arte astratta di difficile decifrazione che la filosofia è diventata, fatalmente si perde.

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