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Il dio che non voleva morire. Tecnica, Capitalismo e limiti del vivente

Il dio che non voleva morire. Tecnica, Capitalismo e limiti del vivente. Un’intervista a Lelio Demichelis a cura di Paolo Bartolini

Il dio che non voleva morire. Tecnica, Capitalismo e limiti del vivente
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12 Maggio 2016 - 23.11


ATF

Un’intervista a Lelio Demichelis a
cura di Paolo Bartolini
.

Prof. Demichelis, in un suo recente lavoro ha
parlato espressamente di religione per definire l’impianto tecno-capitalista
che governa le nostre società. Quale valenza strategica e politica riconosce a
un’analisi del dominio contemporaneo centrata sulla categoria del “religioso”?

In tempi di
Isis e di integralismo politico-religioso potrebbe sembrare fuori luogo parlare
e scrivere di capitalismo, di tecnica e di rete come di fenomeni religiosi. Io sostengo invece che
proprio il capitalismo e la tecnica intesa come apparato hanno assunto ormai
forme tipicamente religiose. Utilizzando le categorie e le modalità del religioso per evangelizzare il mondo, ma nella forma tecnica e capitalista.

Se andiamo
alle analisi di Michel Foucault sulla nascita del potere moderno come
evoluzione del potere pastorale delle
prime comunità cristiane; se (ancora Foucault) analizziamo i meccanismi
psicologici e pedagogici insiti nelle discipline
e poi nelle forme biopolitiche di potere
e di governo (la governamentalità) degli
uomini; se, ancora, guardiamo alle società di massa del ‘900, alle forme
totalitarie di potere, al concetto di ideologia
– ebbene, abbiamo la conferma di quanto le forme religiose siano ben presenti
anche oggi, in tempi di apparente secolarizzazione ma soprattutto di mercato
globale e di rete.

La religione
classica era un sistema di rappresentazioni collettive e di pratiche ripetute
che uniscono e connettono e integrano ciascuno in una comunità/gregge,
legandolo al pastore che guida il
gregge e sciogliendolo all’interno del gruppo; è poi un insieme di riti, miti, cerimonie, simboli che rimandano e
rinviano a Dio ma soprattutto alla chiesa che lo incarna e lo interpreta.
Quindi, religione che lega, connette,
struttura ogni fedele in un sistema integrato, coerente e
incessantemente replicato, fatto di discorsi, di narrazioni e di simboli, di
riti e di miti che agiscono per produrre e ri-produrre nel tempo comportamenti,
atteggiamenti, motivazioni, senso della vita. Dando un ordine generale e un
senso unitario e omologante
, quindi rassicurante, davanti
all’incertezza della vita, facendo apparire come vera (e come il solo
vero possibile
) quella dottrina che
deve essere praticata e che diventa verità
normale, normata e indiscutibile
.

Da
qui, quella che lei definisce appunto come religione
tecno-capitalista
.

Esattamente. Un religione con il proprio culto e i propri riti (il
mercato, lo scambio, la competizione economica, il consumo e poi il
consumismo), i propri templi (le
borse, le fabbriche, i supermercati/outlet, gli Apple Store, la Rete stessa
scritta con la maiuscola), le proprie rappresentazioni
(la pubblicità, il modello Uber, la condivisione), i propri simboli e i propri feticci (la rete,
l’iPhone), la propria grande narrazione
e le proprie favole (la mano
invisibile, la rete come libera condivisione, l’intelligenza collettiva) e il
proprio catechismo per far apprendere
fin da piccoli, la dottrina (il dover essere connessi, il dover condividere, il tecno-entusiasmo, i videogiochi, YouTube, la
vetrinizzazione di s̩ Рcome la definisce Vanni Codelupp -, la perdita della
privacy
), i propri pastori che guidano
il gregge e che poi diventano santi
(Steve Jobs, ma anche Mario Draghi), i propri teologi/guru (la Silicon Valley) – il tutto per riprodurre e
replicare all’infinito comportamenti e motivazioni congrue al più efficiente
funzionamento della chiesa-apparato, dando un ordine generale e un senso
omologante
, quindi rassicurante e integrante e comunitario alla vita di
ciascuno. E ciascuno acquisisce così un proprio ruolo come fedele (produttore, consumatore, spettatore, nodo
della rete), all’interno di un mondo in sé incessantemente mutevole e
de-strutturante e de-socializzante (il mercato, la competizione, la rete). Diventando
un uomo nuovo diverso dal passato – obiettivo
e pratica di ogni religione (come di ogni totalitarismo) – e anche il
capitalismo vuole un uomo nuovo, lo
vogliono i neoliberisti, lo volevano e lo vogliono gli ordoliberali: un uomo di
mercato, confuso con un mercato e una rete che sono disciplina e biopolitica/bioeconomia/biotecnica
insieme (andando appunto a governare la vita
intera
dell’uomo, spogliandolo della sua individualità vera e della sua
possibile autonomia).

Religione
dunque – e potremmo tornare a Feuerbach, a Durkheim, a Weber e alla sua
relazione tra religione calvinista e capitalismo o a Freud, per citare solo
alcuni. Potremmo, meglio, tornare a Benjamin, che già nel 1921 definiva il
capitalismo come una religione (forse la più estrema che si sia mai data,
il capitalismo essendo la celebrazione di
un culto sans treve e sans mercì;
un culto capace anch’esso di generare colpa). Ma se Benjamin pensava al
capitalismo come a una religione senza teologia, questa teologia invece esiste,
eccome. Se Carl Schmitt sosteneva che tutti
i concetti decisivi della moderna dottrina dello stato sono concetti teologici
secolarizzati
; se oggi si scrive giustamente (Roberto Esposito, ad esempio)
che anche l’economia vive di concetti teologici, ebbene è tempo di estendere
questa chiave di lettura anche alla rete e alla tecnica come apparato, parlando
di una teologia tecnica. E una
teologia è il sistema dottrinale che impone il rispetto della verità che deve essere accettata, ma è
anche l’espressione dell’esigenza di un sistema religioso di riportare le molteplicità
esistenti all’Unità, i molti che pure
incessantemente crea all’Uno del
sistema-religione. Per cui, il capitalismo offre una quantità infinita di beni
e di consumi personalizzati e individualizzati – cioè moltiplica apparentemente
le diversità offerte e la libertà di scelta dell’individuo – ma questo può
avvenire solo e sempre dentro al
sistema capitalista (che è la verità)
e similmente dentro alla rete che si
moltiplica sì all’infinito e apparentemente senza un centro (senza una Chiesa),
purché tutti siano però connessi a questa rete, dentro a questo Uno che è la rete come mezzo di connessione (la rete, potremmo
dire, come la più grande società di massa della storia, come il più grande gregge
religioso mai prodottosi). Rete che – come il capitalismo – prima suddivide e
separa (il lavoro, i lavoratori, crea i personal
computer, gli apparati mobili individuali)
ma poi integra le parti suddivise in qualcosa (l’Uno del mercato & della rete, appunto) maggiore della semplice
somma delle parti. Pensiamo a come il mondo si divida oggi – in modo manicheo,
ideologico, integralisticamente religioso – tra tecno-ottimisti (gli eletti)
e tecno-critici (i dannati); a come
l’essere connessi sia una sorta di dovere
(una disciplina, una pedagogia, un catechismo) non tanto e non solo economico quanto esistenziale.

Ecco, questa
è la forma del potere religioso
odierno, non solo del capitalismo (Benjamin), ma soprattutto della tecnica. O altrimenti:
così come nel ‘900 Raymond Aron parlava di religioni
secolari
per definire le ideologie totalitarie del secolo, altrettanto lo
sono capitalismo e tecnica. Anzi, più che secolari.

    In che
senso lei parla di rete come di un mezzo
di connessione
?

Religione, come detto, significa anche (è una delle
sue etimologie) legare insieme.

E connettere e far connettere in rete
è una forma di legare insieme,
strutturare, integrare.  Mi rifaccio ad
Aya Norenzayan, che nel suo libro Grandi
Dei
ha definito gli otto principi che fanno nascere le grandi religioni
capaci di tenere insieme i grandi gruppi umani, ovvero: chi è integrato/legato e sorvegliato e controllato si comporta bene;
la religione è più nel contesto e nell’ambiente sociale che nelle singole
persone
; l’inferno è più potente del paradiso; fidati di coloro
che si fidano di Dio
; nelle religioni le azioni contano più delle parole;
gli Dei devono essere oggetto di adorazione; e infine:

i Grandi Gruppi religiosi cooperano per competere. Otto principi che
possiamo applicare perfettamente al tecno-capitalismo (e tecnica e capitalismo
sono oggi una cosa sola), perché il Grande Dio è oggi il
tecno-capitalismo che integra e controlla e crea incessanti meccanismi di
cooperazione/connessione/rete-gregge affinché ciascuno si comporti bene (sia docile e utile, direbbe Foucault,
ovvero a produttività crescente) e sia integrato
e controllato
nella sua produttività/utilità per il sistema-religione; una
religione che è nel contesto più che nelle persone (è la globalizzazione
e la rete, è nel dover essere connessi, è nel tecno-ottimismo sempre e comunque);
dove l’inferno (la disoccupazione, la precarizzazione, l’esclusione,
l’austerità merkeliana) è ovviamente peggio
del paradiso ma è meglio per
educare, addestrare, disciplinare a diventare tutti capitalisti; dove si deve
imparare a fidarsi di coloro che si fidano di Dio, quindi del denaro e dei
mercati, della mano invisibile, della
rete e della (falsa) idea di condivisione;
dove il fare conta più delle parole (cioè della riflessione e del
ragionamento critico, dell’essere se stessi, della responsabilità,
dell’auto-nomia); dove Dio deve essere oggetto di adorazione (i mercati, le
borse come luoghi sacri non profanabili dal popolo, ma anche la Rete e
la Silicon Valley, mondi separati e sacri)
e tutti devono cooperare/connettersi per
competere
.

Nonostante l’euforia diffusa sulle potenzialità
della rete, lei ha più volte mostrato cautela e scetticismo sul valore
emancipativo delle tecnologie digitali. “Essere in rete” denoterebbe piuttosto
un processo di cattura che impedisce la partecipazione reale alla vita
democratica. Siamo dinnanzi a uno strumento che può essere usato meglio o
dobbiamo accettare questa ambivalenza come insormontabile?

Se ha ragione
Günther Anders, la tecnica non è neutra, non è più un semplice mezzo a disposizione dell’uomo, ma è
diventata il fine della vita degli
uomini. E’ una sorta di sistema autopoietico, quindi difficilissimo da
governare. Di più: Anders sosteneva che le forme
tecniche
– i modi in cui gli apparati funzionano – tendono a diventare forme sociali, a imporre agli uomini
certi comportamenti, certi modi di fare e
quindi anche di essere. Quello che sembrava
un mezzo di comunicazione e di
conoscenza – la rete, appunto – sembra essere diventato il fine. Analogamente l’economia (di mercato): doveva essere un mezzo al servizio della società, è
diventata il fine della vita di
ciascuno e dell’intera società, vita messa in mobilitazione economica permanente.

Il cittadino dell’illuminismo è
diventato un semplice homo oeconomicus
(un cliente, un utente, un prosumer, un profilo) e oggi un homo technicus.
Nuovamente unidimensionale, anche se cresce l’offerta di divertimento,
godimento, distrazione di massa per compensare flessibilità e precarietà e
nichilismo. Era un uomo che ieri sognava di cambiare il mondo, oggi l’unica innovazione di cui parla e a cui
s’interessa è quella tecnologica: non vuole più cambiare il mondo ma essere un
maker, creare start-up, essere non se
stesso
ma imprenditore di se stesso.
Ha perso ogni capacità di fare discorsi
sui fini
(come dice Gustavo Zagrebelsky) ed è diventato ancora di più parte
del sistema. Come uscire da questa gabbia
d’acciaio in versione virtuale
? Difficile. Ma il mio La religione tecno-capitalista si chiude comunque in senso
ottimista, invocando un principio di
laicità
da esercitare anche (soprattutto) nei confronti di questa religione. Laicità anch’essa non facile,
certo, perché il tecno-capitalismo non sembra una religione, perché non sembra
esserci un potere teologico, perché è una religione
liquida
(parafrasando Bauman). Questa sua particolarissima forma religiosa
pone però un grande problema di libertà e di democrazia: come controllare un potere
che non sembra un potere, che non si riesce a collocare fisicamente da qualche parte essendo ovunque e in ogni luogo, che ha in sé e per sé una sorta di microfisica (religiosa) del sapere e del
potere
? E soprattutto, come riconoscerlo?
La grande sfida che ci attende è proprio quella di riconoscere e poi di controllare
democraticamente un potere/sapere (ancora Foucault) che non ammette controlli e
limiti perché capitalismo e tecnica hanno l’accrescimento infinito di sé come
propria essenza e come propria escatologia. Il tutto dentro alla macro-tendenza di questi anni e che
accompagna l’egemonia tecno-capitalista, che cerca (penso anche alle riforme costituzionali ed elettorali di
Renzi) la semplificazione e l’accentramento del potere (politico, economico,
tecnico), la estromissione del demos dalla sovranità e la cancellazione del
bilanciamento dei poteri. Ormai siamo in quella che chiamo una democrazia-non-più-democrazia. E invece,
proprio come mezzo secolo fa si cercava di portare la democrazia anche oltre i cancelli delle fabbriche (altrimenti non si era in una democrazia),
lo stesso dovremmo fare oggi, portandola oltre
i cancelli virtuali della rete, dei social network, dei motori di ricerca, del
Big Data, del capitalismo delle piattaforme
. Perché non basta dire social, smart e condivisione per
avere democrazia.

Sulla scia della precedente domanda, qual è la sua
opinione sulla cosiddetta “share economy”?

Critica. Come deve essere sempre davanti a
processi nuovi – o che sembrano nuovi.
Per non cadere nuovamente nelle retoriche
(e in un tecno-entusiasmo molto infantile ma a riproducibilità infinita) di
una condivisione che nasconde sempre
più forme assolutamente capitalistiche di economia, di lavoro, di prestazione
individuale. Perché io posso certo condividere il mio appartamento, ma i
profitti sono soprattutto della piattaforma che permette la condivisione.
Perché il falso tassista di Uber non
è un imprenditore di se stesso (come
sarebbe secondo le retoriche dominanti), ma è un lavoratore alienato dove i
veri mezzi di produzione non sono il suo smartphone e la sua auto, ma la piattaforma Uber. Grazie alla rete – appunto: sempre
più mezzo di connessione – ogni
lavoratore prima fisicamente e contrattualmente subordinato può (deve) diventare un lavoratore autonomo,
un imprenditore di se stesso, un
lavoratore individualizzato, ma con il suo
posto di lavoro e i suoi tempi di
esecuzione. Concretamente è un falso
imprenditore di se stesso
perché sub-ordinato a un nuovo padrone. È sì esterno alla struttura dell’impresa, ma è ancora più
integrato-connesso-legato al mercato-religione. In realtà la condivisione e
l’aiuto sono pratiche antiche e non il prodotto virtuoso della rete. La
rivoluzione francese era nata per realizzare un principio di fraternità, di solidarietà, cioè di condivisione. Il welfare pubblico
post-1945 era basato sulla condivisione
(la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della società, la
creazione di uguali punti di partenza per tutti, le assicurazioni sociali come
forma di condivisione sociale dei rischi). Ma tutto questo è
stato progressivamente rimosso e anche in rete i ricchi sono sempre più ricchi
e le disuguaglianze si accrescono. Di fatto è il ritorno a un capitalismo 0.0 ma la chiamiamo modernità e innovazione. Attenzione:
questa critica non mi impedisce certo di vedere – anche grazie alla rete –
forme autentiche di condivisione, di pratiche del dono, di finanza etica, di
aiuto e di solidarietà, di volontariato. Sono la speranza che non vuole morire,
la solidarietà vera e una sorta di fuga dal mercato verso la libertà. Ma
appunto, non sono ciò che comunemente si definisce come sharing economy.

La dimensione del conflitto, in questi anni di egemonia
neoliberista, sembra schiacciata tra i poli della violenza esplicita (pensiamo
alle molteplici guerre a bassa intensità che infiammano il pianeta) e dei
generici auspici di pace. Quale spazio intravede, in Europa, per una
conflittualità non distruttiva capace di mettere in discussione l’assetto
oligarchico dell’Unione?

Viviamo in un
paradosso. Da una parte, in rete, dominano le retoriche del dover condividere (tra di noi, per
permettere profitti crescenti alle piattaforme, all’oligopolio
tecno-capitalista, al Big Data); dall’altra, nella realtà trionfano egoismo,
esclusione, chiusura, conflitti fatti di violenza esplicita, ma anche di competizione
economica di tutti contro tutti – che è un’altra forma di violenza. Cosa contrapporre? Un nuovo conflitto – di idee, progetti, speranze, indignazioni; un conflitto
costruttivo. Il problema è come contrastare
un potere tecnico ed economico (religioso)
che ha ormai conquistato l’egemonia. Perché se il tecno-capitalismo è una
religione, allora è un processo culturale prima che economico (o meglio: il
capitalismo e la tecnica hanno costruito la propria egemonia come cultura,
divenendo religione). Contro questa egemonia potrebbe servire tornare a
Gramsci, alla sua idea di una guerra di
posizione
, di conquista delle
casematte
dell’avversario. Costruendo però – e diversamente da Gramsci – non
una contro-egemonia o una diversa egemonia (come illuminista nel
senso di Kant e come laico e libertario impenitente sono contrario ad ogni
forma di egemonia), ma una società finalmente aperta, non conformista, non
etero-normata e non etero-diretta. Questa costruzione
la si può fare solo smontando i
meccanismi di potere/sapere della religione
tecno-capitalista, facendoci eretici rispetto
alla sua teologia/escatologia. Cosa difficilissima anche perché non esiste più
una sinistra capace di proporre soluzioni diverse da quelle neoliberiste e ordoliberali,
perché abbiamo appunto perduto la capacità di fare discorsi sui fini. Perché il tecno-capitalismo ha sciolto ogni
opposizione/contestazione, incorporandole e mettendole a profitto per sé,
trasformando ciascuno in mero (s)oggetto economico e tecnico (tutti capitalisti e tutti in rete).
Perché, grazie alla rete come mezzo di
connessione
ha potuto passare dal fordismo
concentrato
delle grandi fabbriche del passato (dove era relativamente
facile organizzare un sindacato e fare discorsi
sui fini
), al fordismo
individualizzato
di oggi.

In ultimo le domando la sua opinione sulla
crescente ibridazione tra organismi viventi e macchine. La bio-tecnica, di cui
ha parlato in un suo libro, coltiva il sogno/incubo di una vita aumentata,
sempre meno ancorata ai limiti bio-fisici della realtà. In che modo questo
desiderio si capovolge nel suo contrario, dunque nella tanato-tecnica e nella
tanato-politica?

Di ibridazione uomo-macchina e di
biotecnica parlo soprattutto nel senso indicato prima, quello di Anders, cioè
della tendenza delle forme tecniche a
sostituirsi alle forme sociali, ma
anche delle forme economiche
(capitaliste)
a sostituirsi alle forme
sociali
, nella convinzione, tutta neoliberista-ordoliberale che il mercato
(ma oggi anche la rete) sia la forma perfetta di società e di democrazia. Ma il
capitalismo e gli apparati tecnici rifuggono dalla democrazia (ne sono la
negazione, ancor più perché religiosi, oggi teocratici più che tecnocratici) –
e i tentativi del passato di democratizzare
il capitalismo
si sono infranti contro la sua crescente egemonia,
soprattutto contro la sua teologia e la sua escatologia.
Quindi, se il capitalismo e la tecnica sono due forme (in realtà, una forma
unica) di biopolitica, di governo delle vite
intere singole e collettive per la
creazione di un uomo nuovo, questo
loro essere biopolitiche (religiose) si traduce nel loro contrario, proprio com’è
accaduto per tutte le biopolitiche totalitarie del ‘900 – e com’è accaduto
nella storia anche per le religioni monoteiste – cioè in tanato-politiche, oggi
con la nascita di nuove oligarchie, con infinite illusioni di libertà che
alludono a una libertà che non esiste quasi più (e bisognerebbe dire: o la libertà, o il Big Data), con un
nichilismo esistenziale e de-socializzante diffuso, con la sostituzione della
sovranità del mercato e della tecnica a quella del demos. La differenza, rispetto al passato è che il tecno-capitalismo
sopravvive a tutte le sue contraddizioni e può trasformarsi in tanato-politica
(come l’Europa verso la Grecia) senza perire sotto le sue rovine, né provare
sensi di colpa (la colpa è sempre di
coloro che non si adattano e non si piegano ai dogmi della religione e della troika Рche ̬ una forma di
Inquisizione). Non serve allora una contro-biopolitica, come non serve una
contro-egemonia. Serve un ritorno alla politica.
Pensando a un nuovo principio di laicità.

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