‘di Viviana Vacca
Come alcuni denotano, si corre il rischio di fotografare senza nemmeno più osservare, ovvero c’è il pericolo che la fotografia, dopo che per tanto tempo è stata ritenuta un’arte minore, inconsistente, e ora è finalmente riuscita a farsi assumere nell’olimpo delle arti contemporanee occupando in esso pure uno spazio prestigioso, perda quanto faticosamente guadagnato per bulimia, e conseguente smarrimento delle proprie qualità nel mezzo di una spropositata e inevitabilmente nociva quantità .
La visione è il risultato di un processo causale in cui ciò che vediamo dipende dal modo in cui il mondo è. Chiediamoci allora se la fotografia si trova rispetto al mondo in un rapporto di questo tipo. La risposta è affermativa. In quanto riproduzione meccanica della cosa, sulla scorta di un processo foto-chimico, essa dipende dal mondo. Precisamente si trova con esso in una relazione causale. Come l’esperienza visiva è causata dall’oggetto esterno, e da esso dipende, così la fotografia.
Ne La camera chiara — pubblicato postumo — Roland Barthes ha analizzato l’arte fotografica rispondendo alla domanda ontologica delle immagini. Tra una carenza di consistenza e di magia dell’apparizione di un oggetto (lo spectrum a cui l’immagine fotografica riconduce) si ravvisa il potenziale che rende le fotografie — e alcune di queste in particolare — affascinanti e potenzialmente conturbanti. La capacità chimica — rivelatrice — della fotografia seduce Barthes che, attraverso le sue ormai classiche notazioni, cerca di rispondere a questa forma di riproduzione della realtà sospesa tra l’espressione artistica, la pratica sociale di massa e l’essere un mezzo tecnico di custodia e trasmissione della memoria.
Il segreto del coinvolgimento emotivo è nel concetto di punctum, concetto ancora oggi sfortunato rispetto al canonico studium di cui interrompe la lettura lineare e unitaria dell’immagine. L’elemento, il dettaglio, quella piccola lacerazione o taglio presente nelle immagini che, a prima inapparente, risulta decisivo. Tale da custodire la riserva di senso di un immagine — il brillante, il dettaglio nel senso benjaminiano del termine — e la leva che riaccosta al mondo che la fotografia fa riapparire. Sempre un piccolo punto, estraneo all’ambito delle informazioni che la fotografia produce e che insieme produce il senso di verità che certe immagini sanno produrre.
Ogni immagine — ed ogni fotografia così intesa — è violenta nella superficie della sua esposizione visibile e rimanda a uno sguardo altro, ad un invisibile che non coincide semplicemente con uno spectrum ma con quell’invisibile già tale nell’attimo della fotografia, non percepito esplicitamente nel mondo che lo scatto fotografico ha fissato. In questo senso, solo la fotografia può cogliere il punctum e svelarlo, nella possibilità che essa ci consente di soffermarci su ciò che nella immagine è depositato, nascosto ma completamente esposto. La fotografia svela dunque, attraverso il punctum, un senso che è insieme assenza nella presenza che lo suscita e rivela. Forse è questa assenza, dunque un invisibile, che nella fotografia balena.
Sul piano dell’immediatezza percettiva, cui la fotografia rimanda, le cose hanno, innanzitutto, aspetti. Nella relazione comunicativa interpersonale le persone hanno volto e, nel volto, sguardo. Sguardo, volto, aspetto: sono visibili. Ma intrecciati sempre ad altro, a dell’altro: invisibile. Nel visibile (sul piano percettivo, su quello comunicativo) è quindi annidato un invisibile, con cui il visibile si annoda. Nel punctum della fotografia un visibile è immortalato e strappato al dileguare del tempo, ma così un invisibile balena e trapela, in quanto invisibile.
Nella complessità degli sguardi compresenti nei due occhi di un volto in un unico unicum (in un unico spettro) visibile e invisibile necessariamente coesistono, nel loro reciproco rimando racchiuso ed esposto nell’evidenza.
Il segreto del punctum, il segreto racchiuso in uno sguardo (o negli sguardi divergenti in uno stesso volto) sta dunque nell’invisibile,Il segreto del punctum, il segreto racchiuso in uno sguardo (o negli sguardi divergenti in uno stesso volto) sta dunque nell’invisibile, che nel visibile trapela senza però mai ridursi in quanto tale, depositandosi nel visibile, ad esso. E invisibile non è solo ciò a cui, per esempio, un visibile in primo piano si sovrappone, impedendone una visibilità che l’oggetto invisibile, in questo senso nascosto ma come presenza retrostante, riacquista quando l’ostacolo alla sua visione più non vi si frappone. Ma invisibile è anche tutto quanto è racchiuso nelle potenzialità di uno sfondo, da cui il primo piano distoglie attenzione. Invisibile, in certo ben preciso altro senso, è anche ogni idea, ogni concetto, ogni oggetto di una eventuale visione intellettuale, su cui si affissa ogni platonismo. Il concetto, innervante il senso del visibile, è e resta percettivamente invisibile.
Nella coesistenza e il rimando di visibile ed invisibile ci sono quindi presenza e assenza. La cosa entra così tutta in tal modo nella percezione (e poi nel concetto), perché il visibile ne esibisce lati che rimandano agli altri lati attualmente invisibili. Ma non entra come immediatamente adeguatamente percepita o saputa. Questo ineludibile nesso con l’assenza che ogni percezione comporta, dà perciò slancio a una rincorsa all’adeguata e completa posizione dell’evidenza. In uno sviluppo infinito di esperienze di dati nuovi e ulteriori, tutti pertinenti alla cosa, tutti arricchenti, — se appropriati alla Ma ogni percetto possibile è sempre e solo il visibile e l’invisibile di una cosa sempre sfuggente nella sua adeguazione completa al poterla del tutto e definitivamente sapere.
Come d’altronde è in ogni relazione, in ogni incontro, in ogni singolo sguardo — o nel dilagare di sguardi nel gran mare della rete globale — nei quali l’invisibile si raccoglie in visibile. E se, in un tempo storico come questo appaiono sempre più invadenti, indegne operazioni di manipolazione delle immagini (di un campo di concentramento come della più ridicola propaganda mediatico-politica), vale portare in luce quanto riferito dai racconti fotografici che Georges Didi Huberman ha fatto in Scorze, insieme cronaca di un viaggio al lager di Birkenau ed esercizio dello sguardo (nel doppio senso francese di vista e di rispetto). Una riflessione interiore in fondo su cosa, nella storia e nelle sue immagini, si possa ancora vedere. Le parole non sono spiegazione delle immagini fotografiche con il loro sconvolgente significato all’atto del vedere dentro un luogo simile, che lui stesso definisce “(…) questa capitale del male dell’uomo che sa fare all’uomoâ€.
Tre elementi: il dettaglio, il paesaggio, la semplicità dell’inquadratura (priva di qualsiasi forma estetizzante). Ecco, dunque, la corteccia delle betulle di Birkenau, il fitto bosco composto dai tronchi del medesimo tipo di albero, una veduta ampia che potremmo intitolare (utilizzando una formula usata dal fotografo israeliano Simcha Shirman) “paesaggio polaccoâ€, un’inquadratura dal basso verso l’alto che ci fa vedere solo il cielo e le cime degli alberi, i riflessi di un piccolo specchio d’acqua, il particolare di un pavimento rovinato del Crematorio V. Quest’ultimo frammento visuale appare particolarmente importante: questo residuo ancora visibile comunica oggi, dal suo punto di vista, l’orrore della morte. È rimasto lì, per decenni (ignorato a suo tempo dai nazisti che si “dimenticarono di distruggere i pavimentiâ€) come un marchio gelido a confermare l’atrocità del luogo, il fardello angoscioso dell’assenza di tutti gli esseri umani sterminati.
Ciò che sostiene, in definitiva, lo storico dell’arte francese è che il terribile peso dell’assenza di tutti gli esseri umani che hanno trovato la morte ad Auschwitz-Birkenau non è rintracciabile tanto nell’apparato museale odierno quanto piuttosto in alcuni dettagli “nascosti†e nel luogo in sé: “nei fiori di campo, nella linfa delle betulle, in questo piccolo lago dove riposano le ceneri di migliaia di mortiâ€. Questa impostazione contribuisce ad amplificare la percezione del dolore, a far diventare lo spazio del genocidio spazio della memoria, il tutto grazie alla fotografia e alla capacità dello sguardo umano, che prima di essere una funzione fisiologica è una prerogativa mentale, interiore.
Uno dei tratti dell’estetica contemporanea, dall’arredo al design e di riflesso anche nell’arte, perlomeno in quel tipo di arte che ammicca esplicitamente all’arredo e al design, sembra privilegiare la levigatezza. Esiste cioè una chiara predilezione per tutto ciò che è regolare, armonico, privo di asperità una continua celebrazione di quanto si presenta neutro e asettico, celebrazione che nelle pratiche di maquillage del corpo umano tocca il suo apice. Ogni incongruenza o contrasto, tutto ciò che conferisce senso e che individua sia il corpo umano che gli oggetti materiali viene cancellato in nome di una omogeneità univoca e rassicurante. In questa prospettiva a venir meno è la possibilità di una lettura della superficie delle cose, perché essa acquista senso solo quando marcata, percorsa da segni, incisa dalle scalfitture del tempo e della storia. Sulla scorta di Georges Didi-Huberman e di Scorze, scritto a ridosso di una visita al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, l’immagine è ancora uno strato superficiale come veicolo di significati. Nell’impossibilità di raffigurare la tragedia, di cui ormai è sparito ogni segno, Didi-Huberman ragiona sulla necessità di uno sguardo “archeologicoâ€, che sappia cogliere ciò che è invisibile agli occhi. Saranno due dettagli irrilevanti, le scorze appunto di una betulla e il pavimento spaccato di una baracca — altrettanti puncta, punti di (s)vista — a stimolare quella messa a fuoco che la facciata edulcorata e allestita del campo, ormai ridotto a museo della memoria, non consente più.
Come nelle immagini pasoliniane o nel cinema di Abbas Kiarostsami — immagini residui di un cinema di poesia e di fotografie — la linearità algida e insignificante va a pezzi proprio nell’incontro con una crepa, con una dissonanza: “La corteccia è irregolare, discontinua, accidentata. Qui è attaccata all”albero, là si disfa e cade nelle nostre mani. È l”impurità che viene dalle cose stesse. Parla dell”impurità – la contingenza, la varietà , l”esuberanza, la relatività – di ogni cosa. Sta da qualche parte nell”interfaccia tra un”apparenza fugace e un”iscrizione che sopravviveâ€.
Sarebbe a dire: oltre la levigatezza, la pianificazione, l’omologazione, a conservarsi è questa impurità o residuo, come traccia concreta della vita in tutte le sue folte, brulicanti, irriducibili sfaccettature. Difficile è attraversare questo Unheimliche, il perturbante, la spigolosa alterità delle cose; difficile restituirne il peso specifico, ammettendone anche, come dimostra l’opera di questi artisti, le sbavature, le imperfezioni, il disagio – includendo anzi tutti questi elementi come parti inalienabili della sua manifestazione.
Dunque, con Georges Didi – Huberman “non si può… mai dire: non c’è niente da vedere, non c’è più niente da vedereâ€. Bisogna capire cosa far vedere e come.
(7 gennaio 2017)*Intervento in collaborazione con l’Associazione Culturale Fotografica Dyaphrama (Oristano).
BibliografiaGeorges Didi–Huberman, Écorces, Les Éditions de Minuit 2011.
Roland Barthes, La camera chiara, trad. it. a cura di R. Guidieri, Einaudi 2003.
Jean Luc Nancy, Tre saggi sull’immagine, Cronopio 2007.
Fotografie: di Diego Arbore, 2016 (L’uomo con la valigia in Genova era superba, testata giornalistica indipendente).
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