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Pratiche di verità

Intervista al filosofo Carlo Sini. [Paolo Bartolini]

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28 Febbraio 2017 - 22.57


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di Paolo Bartolini

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Professor Sini, voglio cominciare domandandole quale ruolo emancipativo immagina possa rivestire la filosofia in questo inizio di secolo segnato dal primato dell’economia di mercato e da una tecnica dominata da logiche meramente autoaccrescitive.

Sin dalla sua nascita socratica la ricerca filosofica si è caratterizzata per la capacità di arrestarsi, di fare un passo indietro o a lato e di riflettere, rendendosi attenti alla presenza di ciò che è. La filosofia procede, per sua natura, in controtendenza e in contrattempo. Essa mira a generare, in sé e negli altri, ciò che io chiamo una attiva paralisi e che Husserl definiva “sospensione del giudizio”. Contrariamente a ciò che si potrebbe immaginare, ci vuole moltissima energia attiva per operare in sé questa trasformazione apparentemente statica, che non si lascia trascinare dall’ovvio e dall’urgente, orientandosi piuttosto verso tutt’altro tipo di urgenze e di propositi. Come disse Heidegger, ciò che ci è più vicino è difficile da tematizzare e da vedere: si tende a seguire conformisticamente l’opinione comune. Proprio questo costume condiviso, che accoglie le opinioni di tutti o dei più, nasconde molti segreti e molte verità inconsapevoli. E se è vero che il nostro è il tempo della massima velocità e della quantità sterminata di impulsi e informazioni, tanto più sarà necessario fermarsi e guardarsi attorno, senza pregiudizi e senza preconcetti. Sospendendo il giudizio, appunto, per chiedersi con che cosa e con chi abbiamo davvero a che fare. Beninteso, cominciando da sé: chi sono io? Che cosa gli altri hanno fatto di me? Che cosa, diceva Sartre, io posso fare di ciò che gli altri hanno fatto di me?

Nel suo paziente e pregevole lavoro dedicato alla costruzione di un “pensiero delle pratiche” ha affrontato spesso la questione della verità e delle sue figure nel corso della storia. Quale relazione intercorre tra verità ed errore nel momento in cui la verità non si àncora più nell’assoluto e viene a coincidere con la realtà stessa nel suo eterno divenire?

Abbiamo la tendenza a identificare la “verità” con i suoi contenuti, cioè con i significati espressi. Il mondo è finito o infinito: una affermazione è vera, diciamo, l’altra è falsa. Questo modo di ragionare, così straordinariamente diffuso, dimentica l’essenziale, ovvero gli strumenti mediante i quali l’alternativa stessa è stata posta ed espressa. Tutto un universo di esperienze, di tradizioni, di credenze, di usi linguistici, di mentalità condivise sta alla base di formulazioni come quella utilizzata sopra come esempio. In tal modo confondiamo il significato con il senso. Possiamo proporci di stabilire, per esempio, il significato della parola “mondo”, ma questa operazione presuppone un universo di senso che resta tacitamente alla base del nostro stabilire. Che è mondo per Omero? Che è mondo per Gesù di Nazareth? Che è mondo per Voltaire? E così via. Ogni risposta rispecchia il senso della verità, che transita attraverso i suoi divenienti significati. Intendo dire che la verità è anzitutto un evento, ovvero l’evento delle sue figure che assumono nel tempo la veste di transeunti significati. Siamo nel cammino della verità, non “abbiamo” la verità come un possesso oggettivo e stabile.

Può descrivere in che modo l’odierna civiltà dell’accumulazione economica si posiziona rispetto ai concetti di verità e di errore? Nel suo libro “Inizio” (Jaca Book, 2016) ha parlato di un’emozione intensa sprigionata dal contatto con l’emergere inarrestabile di nuove figure di verità. Il falso – e credo che nel capitalismo spettacolare integrato moltissimo vi sia di falso – non potrebbe dunque essere ciò che puntualmente manca l’appuntamento con questa emozione profonda o tende a contraffarla per spegnerne la forza rivoluzionaria?

Ogni figura della verità è un tentativo di rispondere alle tre famose questioni che Whitehead espresse così: anzitutto vivere, poi vivere bene, infine vivere meglio. In fondo non c’è molto altro da dire, ma c’è sempre moltissimo da fare, perché già semplicemente vivere è un bel problema. Penso a coloro che rischiano la vita in mare, mossi con ogni evidenza da quelle tre esigenze. La rivoluzione introdotta nel mondo dall’industria e dall’economia capitalistica cercava anzitutto di far vivere bene e anzi meglio un certo numero, molto ristretto, di persone; poi allargò i suoi orizzonti anche sotto la pressione dei naufraghi economici di allora, e allora pensò di essere una soluzione valida per tutti. Qui si annidava il germe della sua insufficienza, perché nessun significato esaurisce la verità; anzi, proprio affermandosi, alleva, diceva Marx, le sue forze contrarie. Oggi viviamo, con una certa pena, questa fase nella quale la verità del capitalismo, volente o nolente, tramonta e nuovi significati di verità battono alla porta. Niente al mondo potrà impedirne alla lunga il prevalere e poi, in un futuro che immagino molto lontano, il loro trasformarsi in superstizione “logica” e in occlusione della verità.

Quali reputa che siano i limiti maggiori dell’attuale pensiero filosofico italiano, e quali gli aspetti più vitali e ricchi di futuro?

Ciò che minaccia, a mio avviso, la filosofia attuale nel mondo e anche in Italia è la riduzione a specialismo culturale: cioè il contrario della sua vocazione millenaria. Non c’è più filosofia, cioè genuina domanda e “sospensione” filosofica, dove la ricerca si limita alla storiografia erudita, al formalismo delle logiche matematiche, alle ontologie imitative della mentalità e del mondo anglosassone (il più ignaro in fatto di consapevolezza filosofica) o a fughe mistiche verso assoluti metafisici e così via. Bisogna, credo, avere pazienza e anche rispettosa modestia. Quando queste mode tramonteranno, resterà, come sempre è accaduto, la genuina ricerca ed espressione filosofica.

Mi farebbe piacere chiederle, in conclusione, che spazio ricopre la spiritualità nella sua visione del mondo caratterizzata, se ho compreso bene, da un materialismo non riduzionistico attento alla vita dei fenomeni e al corpo delle cose. E inoltre: che opinione ha in merito al pensiero della relatività radicale di Raimon Panikkar? Mi sembra che esistano, infatti, numerosi punti di contatto tra il suo pensiero e la prospettiva avanzata dall’autore indoispanico…

Ho conosciuto Panikkar, abbiamo insieme svolto incontri pubblici e sempre ho ammirato la sua genuina e originale consapevolezza dei costumi non ristretti della verità religiosa e delle culture in generale. Un dialogo tra culture, tra Oriente e Occidente, Nord e Sud, mi sembra oggi una delle massime urgenze del nostro mondo. Il dialogo e la comprensione reciproca tolgono terreno al conflitto e alla mera concorrenza a tutti i costi. In questo senso lo spiritualismo di Panikkar incarna un’esigenza sostanziale del nostro tempo. Il “materialismo” del mio pensiero delle pratiche, il riferimento alle operazioni, alla prassi concreta, non è in contrasto con lo spiritualismo della apertura della verità che Panikkar, mi sembra, professava.

(28 febbraio 2017)

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Carlo Sini ha insegnato per trent’anni Filosofia teoretica all’Università statale di Milano. Accademico dei Lincei e membro di altre accademie e istituzioni culturali italiane e straniere, ha tenuto conferenze, corsi di lezioni e seminari negli Stati Uniti, in Canada, Argentina, Spagna e in altri paesi europei. Per oltre un decennio ha collaborato con le pagine culturali del “Corriere della Sera” e collabora tuttora saltuariamente con la stampa, la Rai e la Radiotelevisione Svizzera. È autore di una quarantina di volumi, alcuni tradotti in varie lingue. Qui ricordiamo: Il gioco del silenzio (Mondadori, 2006); Eracle al bivio e L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri, 2007 e 2009); Da parte a parte. Apologia del relativo (ETS, Pisa 2008); Inizio (Jaca Book, 2016).

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