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Politica e falsi miti

Politica italiana: guardare al passato senza nostalgia consapevoli che il futuro è tutto da inventare. [Alberto Melotto]

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26 Dicembre 2013 - 23.08


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di Alberto Melotto

Nel romanzo I piccoli maestri di Luigi Meneghello, i giovani protagonisti, saliti sulle montagne con il fucile a tracolla, figli della buona e colta borghesia veneta ostile al fascismo, inventavano un modo ironico, quasi goliardico, per non cadere nella vuota retorica tanto cara al regime mussoliniano. Siamo qui per fare i partigiani, si dicevano, ma bando alle frasi roboanti, chi verrà scovato a parlar di libertà dovrà pagar pegno.

Se si dovesse usare analoga severità con i professionisti del giornalismo e della politica nostrani, si potrebbe facilmente sanare il nostro debito pubblico. Tutto quel parlare di sviluppo, ripresa, non soltanto è del tutto avulso da qualsiasi rapporto con la realtà. Somiglia minacciosamente alle carezze e ai sussurri del macellaio che servono ad accompagnare la bestia impaurita al capannone con i ganci appesi al soffitto, privo di finestre.

Quando questi figuri sono in vena di un discorso più articolato, allora ecco spuntare l”accenno al glorioso passato industriale dello stivale, un passato ancor non troppo lontano da quinta potenza mondiale che non manca di scaldare il cuore alle famiglie raccolte intorno allo schermo televisivo.

Michail Bachtin, nel suo Estetica e Romanzo, definisce questa modalità del pensiero inversione cronologica. Il critico russo ci spiega che ci è più facile credere e quindi impiegare con obbedienza le nostre energie verso un ideale, se siamo persuasi nel profondo che ciò che cerchiamo, che inseguiamo con ostinazione, abbia già avuto luogo nella dimensione del passato. In tutte le religioni e le civiltà dell”antichità troviamo esempi al riguardo – l”età dell”oro, il paradiso terrestre. Questo perché la nostra psiche diffida del futuro come qualcosa di vuoto e rarefatto, mentre il passato fornisce una parvenza di consistenza e di solidità, rappresenta un àncora, un rifugio dalle intemperie dell”esistenza. Ciò che è già accaduto, potrà senz”altro ripetersi ancora una volta.

Poi, va da sé che questo inizio millennio ospita parecchie nostalgie invecchiate, come uno sgabuzzino degli oggetti smarriti. C”è il mito fondativo della rivoluzione d”ottobre, che meriterebbe d”essere lasciato in pace per quel che ha davvero significato, invece d”esser brandito da sempre più sparuti gruppetti di radicali di sinistra. Ma non è certo a questo che guardano i guardiani delle larghe intese. I Letta, i Renzi, gli Alfano occhieggiano senza vergogna al benessere del trentennio dorato del secondo dopoguerra, l”era della prosperità per molti se non per tutti, retta da regimi politici improntati al compromesso socialdemocratico.

Occorrerà ricordare alcune, semplici cose. L”Italia del 1945, con la schiena dritta e la dignità ritrovata grazie alla lotta partigiana, era un paese essenzialmente agricolo, dove peraltro la gran parte dei terreni coltivabili era di proprietà del grande latifondo. Con la sua tipica astuzia, la Democrazia Cristiana seppe varare una riforma, nei primi anni ”50, che attuò una parziale redistribuzione di questi grandi appezzamenti. La protesta dei ceti umili delle campagne, braccianti e mezzadri, venne così smorzata e depotenziata, protesta che nei primi decenni del ”900 aveva issato sulle proprie spalle le bandiere del socialismo e dell”anarchia. In ogni caso, il fenomeno dell”inurbaménto, del travaso dalle campagne alle città fu imponente e foriero di traumi personali e collettivi. Quartieri di palazzi privi di ogni struttura di supporto – strade, negozi, luoghi di socializzazione – sorsero ai margini delle grandi città del nord. Nei suoi reportage dall”italia degli anni ”60, Giorgio Bocca osservava le indaffarate cittadine lombarde, notando, con moto di desolazione, la totale assenza di librerie per le vie.

Certo, il vitello grasso della moderna economia, il Prodotto Interno Lordo, crebbe a velocità più che sostenuta, del 5% dal 1951 al 1957 e addirittura del 6% dal 1958 al 1963. Gli appassionati di questo tipo di cifre dovrebbero però tenere conto dei costi antropologici e ambientali che questo repentino passaggio di scala portò con sé. In uno dei suoi racconti, Italo Calvino raccontava con pacata malinconia la puerile, colpevole normalità d”un assolato giorno del 1954, il giorno della morte di Alcide De Gasperi: da militante comunista, non pareva vero che i passanti si concentrassero soltanto sulle banali esigenze del giorno, comprare un gelato, viaggiare sulla vespa, invece di meditare sulla scomparsa d”un uomo di tutt”altro campo rispetto al suo, ma d”una serietà che già sembrava fuori posto. Pier Paolo Pasolini rincarava la dose affermando che i democristiani avevano avuto successo nel cambiare il volto e l”anima del paese grazie all”uso discreto ma opprimente del mezzo televisivo, laddove i fascisti, semplice manica di criminali, non seppero giungere a tanto.

Già, il regime della Dc, ché all”Italia non venne concesso il relativo beneficio dell”alternanza al governo di partiti di segno diverso. Alcune riforme di vasta portata, come quella che portò all”approvazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1970, furono l”effetto di una ondata di rabbia e di sollevazione del mondo operaio che gli stessi sindacati faticarono assai a controllare, e che finirono perciò per assecondare, probabilmente loro malgrado.

Sull”isolamento del Partito Comunista sono stati versati fiumi d”inchiostro, ancora si può raccontare di un episodio degli ultimi anni della prima repubblica. E” la primavera del 1984, vigilia delle elezioni per il rinnovo del parlamento europeo, e la radiotelevisione italiana rispolvera il rito delle tribune elettorali. Ospite il segretario del partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, che dovrà rispondere alle domande registrate via audio dei telespettatori, scelte e filtrate da quattro giornalisti. Si parla di argomenti d”indiscutibile spessore, la scomparsa di Aldo Moro e la teoria del compromesso storico, la vicinanza o meno dei comunisti italiani a Mosca, la consistenza del cosiddetto “strappo”, si passa poi all”invasione sovietica dell”Afghanistan: “Come definirebbe l”agire dei guerriglieri afgani? Risponde Berlinguer con l”usuale onestà intellettuale: “Resistenza all”occupazione di una potenza straniera”. Ma tutto questo argomentare spiace, e non poco, ad uno dei quattro giornalisti, che le telecamere inquadrano mentre siede di malgarbo sul divanetto televisivo, scomposto, anzi stravaccato. E” evidente che la semplice presenza in studio del dirigente comunista lo infastidisce, lo irrita sommamente. Così d”un tratto esplode tutto il suo astio ”Mi sembra che lei abbia parlato fin troppo” e gli chiede in merito al presunto calo di consensi del Pci. Non pago della risposta, non abbastanza auto-denigratoria, Vigorelli continua a interrompere, a provare a spezzettare il discorso dell”altro, infine Berlinguer in un crescendo calcolato di finissima ironia gli domanda: “Ma lei è del partito socialista, vero?” come un medico che abbia finalmente trovato la diagnosi più semplice ad un caso di alterazione psichica, in grado di spiegare tutto quell”accanimento fegatòso. “Sì, ma mi trovo qui in veste di rappresentante della stampa”.

Questo gustoso siparietto non è privo di pensieri per queste gelide notti d”inverno. Dei protagonisti di questo scambio, uno, Enrico Berlinguer, morì purtroppo pochi giorni dopo, a seguito di un malore che lo colse durante un comizio a Padova “andate casa per casa, azienda per azienda, strada per strada”. L”altro, Piero Vigorelli, dopo aver diretto testate giornalistiche nella raidue socialista e a mediaset poi, ha optato, del tutto inaspettatamente, per un impegno politico a fianco di Silvio Berlusconi, e risulta attualmente eletto presso il comune di Ponza.

Questo apòlogo privo di lieto fine ci sia di sprone per guardare al passato senza nostalgia, anzi per guardare fattivamente al futuro che ci attende, con idee nuove.

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