Pier Carlo Padoan, nuovo ministro
dell’Economia, è un volto poco noto al grande pubblico. Ma non per chi
frequenta le stanze dei bottoni. Già consigliere economico della
presidenza del Consiglio con D’Alema e Amato, poi direttore della
fondazione Italianieuropei, presieduta da questi ultimi, dal 2001 al
2005 è stato direttore per l’Italia del Fmi e, dal 2007, vicesegretario
dell’Ocse, per diventarne due anni più tardi capo economista.

Nelle vesti di “consigliere del principe”, Padoan è stato, insieme a
Nicola Rossi e Pietro Ichino, uno dei principali artefici del lento ma
inesorabile approdo liberist della sinistra ex comunista. A
testimoniarlo sono i suoi scritti sulla rivista Italianieuropei.
Nel 2003, commentando la Strategia di Lisbona, Padoan si mostra
invidioso della poderosa crescita Usa: «L’America cresce di più – scrive
– non perché ha avuto a disposizione le nuove tecnologie
dell’informazione» ma «grazie a mercati, istituzioni e regole che ne
hanno permesso di sfruttare le grandi potenzialità». A solo tre anni
dallo scoppio della bolla delle dot.com Padoan non teme
l’azzardo: se i mercati funzionano bene, allora è lo Stato che deve
dimagrire. Per questo non si può trascurare il monito della Commissione
Ue per la quale «una politica di tagli della spesa pubblica, se credibile e di natura permanente, potrebbe dare vita a effetti espansivi,
migliorando il grado di fiducia del settore privato grazie alla
prospettiva di tagli permanenti di imposte». Guardare alla voce Irlanda.

Nel 2004 Padoan torna a scrivere su Italianieuropei, stavolta
di Argentina. E da uomo del Fmi non può che trovarsi dalla parte
dell’austero ministro Cavallo, che nel 2001 ha «salvato la patria», dice
Padoan, attraverso il piano “deficit zero” (il pareggio di bilancio,
quello che oggi abbiamo anche noi in Costituzione): «Si potrebbe
sostenere – sottolinea – che l’austerità fiscale avrebbe peggiorato, e
non migliorato, le prospettive di crescita, aggravando ulteriormente
l’andamento del rapporto debito/prodotto». Sì certo, è quello che diceva
Keynes e che dicono tutti i libri di economia, ma Padoan la pensa
diversamente: «Il piano di Cavallo aveva una sua logica». Questa:
l’austerità «avrebbe cambiato il sentimento dei mercati», producendo «un
graduale abbassamento dei tassi di interesse, liberando risorse,
pubbliche e private, per una ripresa della domanda». È la stessa
strategia che viene venduta dalla Germania ai Paesi periferici
dell’eurozona, basata sulla favola della “fata fiducia”: i sacrifici
verranno un giorno ampiamente compensati dai mercati.

Sempre nel 2004, e sempre su Italianieuropei, Padoan scrive a proposito del ritardo europeo: «Deve essere accresciuta la liberalizzazione dei servizi e delle utilities»
(acqua, energia, trasporti). L’economista ribadisce ancora la sua
fiducia nell’efficienza dei mercati finanziari, «la cui integrazione in
Europa è ancora lontana dall’essere raggiunta e dove si contrappongono
il modello banco-centrico continentale a quello market-based anglosassone che meglio del primo sostiene l’innovazione». Lo stesso modello che sarebbe fragorosamente crollato nel 2007.

Nel 2005 Padoan ritorna sulla Strategia di Lisbona, denunciando i
ritardi della sua applicazione. Ma lo fa a partire da studi alquanto
discutibili, secondo i quali «a seguito dell’integrazione finanziaria,
il Pil europeo potrebbe aumentare fino al 10%, con benefici maggiori per
quei Paesi, come l’Italia, i cui mercati finanziari sono più distanti
dal livello ottimale». Peccato che la vicenda europea mostri semmai
un’eccessiva integrazione dei mercati, con movimenti di capitali dal
“centro” (Germania e suoi satelliti) attratti dalle bolle immobiliari
nella periferia (Spagna e Irlanda). Non contento della liberalizzazione
della finanza, Padoan invoca anche quella di merci e lavoro: le
simulazioni del Fmi «indicano che misure di liberalizzazione potrebbero aumentare il Pil europeo di diversi punti percentuali».
Per non parlare poi dei «benefici che si potrebbero ottenere da una
deregolamentazione dei mercati dei prodotti in Europa. I guadagni di
crescita potrebbero raggiungere il 7% e quelli in termini di
produttività il 3». E, anche qui, andrebbe ricordato che proprio la
libertà di movimenti delle merci (oltre che dei capitali) è all’origine
dell’indebitamento estero, che è la vera causa della crisi
dell’eurozona.

Dopo tante parole spese a favore dei mercati Padoan, nel 2008, a seguito della crisi dei subprime,
prende atto che qualcosa non è andata per il verso giusto. Di chi sarà
la colpa? Della deregulation finanziaria? Della distribuzione ineguale
del reddito? No, la colpa è dei Paesi Brics, che investono il loro
surplus commerciale causando «il simmetrico peggioramento del deficit
corrente degli Stati Uniti». Se fosse così, allora protezionismo e
controllo dei movimenti di capitali potrebbero essere una soluzione. E
invece Padoan invoca più liberalizzazioni: «Il sostanziale fallimento
del Doha Round (il nuovo accordo del Wto, ndr) è un fatto
molto negativo per l’economia mondiale e rischia di mettere in
discussione gli scenari di sviluppo assai più che gli squilibri
macroeconomici».

Nello stesso anno Padoan si preoccupa dell’abbandono dell’euro da
parte dell’Italia. «Le conseguenze di una simile decisione si
concretizzerebbero in un salto all’indietro di almeno dieci anni». Ma
c’è di peggio: «Una simile decisione avrebbe conseguenze assai pesanti
sui tassi di interesse, che potrebbero portarci alla bancarotta».
Purtroppo Padoan sembra dimenticare una verità banale: è proprio il non
avere una banca centrale che garantisca il nostro debito che causa alti
tassi di interesse e può portarci al default.

E arriviamo ai giorni nostri. L’Ocse di Padoan è molto diversa dal
Fmi di Olivier Blanchard. Mentre quest’ultimo è impegnato in una
revisione della macroeconomia mainstream introducendo concetti
keynesiani, l’Ocse marcia in direzione opposta. In un’intervista di
aprile al Wall Street Journal Padoan afferma che la sfiducia verso l’austerity è un problema di comunicazione. Bisogna convincere la gente che «stiamo ottenendo risultati… Il risanamento fiscale è efficace, il dolore è efficace».
Parole che hanno suscitato l’ira del Nobel Paul Krugman: «A volte gli
economisti in posizioni ufficiali danno cattivi consigli; a volte danno
consigli molto, molto cattivi; e talvolta lavorano presso l’Ocse». I
peggiori, insomma.