di Maria Rita D’Orsogna*
E così [url”il Brasile vende, o cerca di vendere”]http://www.theecologist.org/News/news_round_up/2985696/brazil_to_auction_amazon_fracking_licences.html[/url], l’Amazzonia ai petrolieri. Si tratta di 266 concessioni di shale gas in sedici stati del Paese, per la maggior parte nella foresta in cui vivono tribù indigene. Nella lista dei possibili acquirenti Bp, Shell, ExxonMobil Rosneft, Petrobras, Statoil, Premier Oil, Gdf Suez, Total, Anadarko ed altre, [url”per un totale di 37 ditte”]http://www.anp.gov.br/?pg=77518&m=&t1=&t2=&t3=&t4=&ar=&ps=&1442930157743[/url] da 17 paesi.
Fra le località più delicate la Valle del Juruà , il parco Serra do Divisor e la Valle del Javari, tra Bolivia, Peru e Brasile dove vari gruppi indigeni sono approdati da altre parti del Paese dopo essere stati oggetto di violenza da parte di trafficanti di droga, disboscatori e petrolieri in anni passati. Non trovano pace neanche qui. Oltre a loro, si stima che fra queste concessioni vivano circa settantasette gruppi che non hanno mai avuto contatto con il mondo esterno.
Le 266 concessioni riguardano non solo la foresta che ospita queste comunità indigene, ma anche vari acquiferi sotterranei, aree di produzione agricola e zone di mare note per le migrazioni e la sosta di balene. Ma un gruppo di attivisti detto [i][url”Coalizão Não Fracking Brasil”]http://www.naofrackingbrasil.com.br/[/url][/i] (Coesus) non ci sta. Chiede che le comunità indigene siano lasciate libere dal fracking. La foresta – con i suoi ritmi, e i suoi tempi – è la vita per queste persone e contaminarne l’acqua e le risorse basilari con sostanze tossiche ed inquinanti significherebbe di fatto la loro decimazione. Fanno parte di Coesus un folto numero di biologi, geologi, ambientalisti, e scienziati.
Per creare maggiore sensibilizzazione, i membri di Coesus fanno viaggi lunghissimi nella foresta per arrivare al parco Serra do Divisor e per parlare con i rappresentanti delle comunità Nawa, Nukini e Puyanawa già esposte al mondo “occidentale†per spiergargli il fracking. I capi tribu dopo lo stupore inziale, si dicono – ovviamente – contrari al fracking e pian piano inizia anche il loro attivismo. Chiedono ai governanti centrali di essere lasciati in santa pace. I movimenti crescono.
I Puyanawa e i Nukini hanno già avuto esperienza con l’uomo bianco: verso la fine del 1800 erano arrivati i tagliatori di alberi da gomma che distrussero il loro habitat, portarono con loro malattie e trasformarono gli indigeni in schiavi da sfruttare per il duro lavoro nelle piantagioni. Gli fu pure imposto di vivere secondo i parametri occidentali, cercando di eliminarne la cultura.
Così si arriva al 9 ottobre 2015, il giorno dell’asta per le concessioni dell’Amazzonia. È stata una piccola catastrofe per il governo, visto che solo 37 su 266 delle concessioni previste sono state assegnate. L’asta pullulava di leader indigeni e di attivisti, i manifestanti hanno organizzato sit in e conferenze stampa su cambiamenti climatici, diritti degli indigeni, ed esperienze passate.
La cosa più sorprendente è che fra gli acquirenti delle concessioni sono ditte minori: [url”le più grandi si sono tutte tirate indietro”]http://cabecadobacalhau.blogspot.com.br/2015/10/grandes-petroleiras-boicotam-13-leilao.html[/url] e non hanno comprato niente. Neanche Petrobras. E poco importa che sia per le proteste, per il crollo dei prezzi, per giustizia sociale. L’importante è che l’86% delle concessioni è rimasto invenduto.
Come dicono in Brasile: Nem aqui e em nenhum lugar desse planeta.
* Fisica e docente all’Università statale della California.
(23 ottobre 2015) [url”Link articolo”]http://comune-info.net/2015/10/brasile-in-vendita-al-migliore-trivellatore/[/url] [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]