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La vittoria di Donald Trump. Tra rottura e ripetizione della Storia

La candidatura Clinton era il frutto marcio di un’America stravolta che la crisi sistemica ha reso torva, torbida, ipocrita, feroce e cinica. [Piotr]

La vittoria di Donald Trump. Tra rottura e ripetizione della Storia
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9 Novembre 2016 - 23.54


ATF

di Piotr.

1. Donald
Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America

Non esulto.
Non gioisco. Sono solo moderatamente meno preoccupato. Per il momento.

La candidatura
Clinton era il frutto marcio di un’America stravolta che la crisi sistemica ha
reso torva, torbida, ipocrita, feroce e cinica ben più di quanto già fosse
quando nel secolo scorso gettò due bombe atomiche sui civili giapponesi e
uccise in Vietnam circa 2 milioni di persone.

Le élite
che più di duecento anni fa ci hanno donato l’Illuminismo, hanno fatto la
Rivoluzione Francese e scritto i Diritti dell’Uomo e del Cittadino, da tempo vogliono
sbarazzarsi dei vincoli che i loro stessi vecchi valori impongono alle loro
idee e alle loro azioni
. Dopo la presa del potere della borghesia quei
vincoli furono trasformati in ipocriti simulacri e disattesi con regolarità, ma
c’era un ritegno, a volte solo formale, che comunque non permetteva di gettarli
esplicitamente a mare. La borghesia come classe che doveva occupare ed
egemonizzare lo spazio sociale aveva bisogno di un decente apparato ideologico.
Oggi, nell’attuale crisi sistemica questi vincoli per quanto formali essi
possano essere sono lo stesso sentiti come un’insopportabile camicia di forza
che non permette tutte le sconsiderate azioni che le élite pensano di
dover fare per mantenere la loro supremazia. Da quando è scoppiata la crisi,
nel secolo scorso, la borghesia come corpo sociale si è dissolta, lasciata come
falso bersaglio per falsi alfieri del proletariato, e le sue ristrette élite
si sono rintanate in bunker inaccessibili a qualunque classe sociale, fuori del
raggio d’azione di qualsiasi controllo democratico, impermeabili a qualsiasi
valore, laico o religioso.

Ecco allora
che ogni ritegno viene meno, che l’appello ipocrita ai diritti umani definiti
nell’epoca moderna si accompagna al sostegno spudorato di forze
ultra-oscurantiste premoderne e l’appello alla democrazia si accompagna
all’istigazione a delinquere e al sostegno esplicito a nazisti dichiarati.
Stiamo parlando di Siria e Ucraina.

Questo è ciò
che rappresentava Hillary Rodham Clinton. Questo è ciò che fino a ieri ha
esaltato la nostra sinistra e la sua corte di intellettuali.

La
devastazione della “più bella Costituzione del mondo”, cioè la nostra, è parte
integrante di questo processo e di questa mentalità
.

Questa è la
cifra culturale dell’epoca contemporanea. Un disastro.

Non è un caso
che i due candidati alla Casa Bianca siano stati i meno amati di tutta la
storia statunitense e che il più “impresentabile”, Donald Trump, sia forse addirittura
il meno funesto.

2. Trump, il populismo e la crisi
sistemica

I paragoni tra la vittoria di Trump e quella di altri
“populisti”, a partire da oggi e per molte settimane si sprecheranno. Nella
vituperata categoria verranno inseriti e paragonati a lui personaggi che niente
hanno a vedere l’uno con l’altro. Di sicuro si rammenterà l’inaspettata
vittoria di Berlusconi, poi si passerà all’ungherese Orbán, non ci si
dimenticherà del filippino Duterte (che tanto dispiacere sta dando agli Stati
Uniti) e, statene pur certi, qualcuno non si periterà di citare persino Putin,
se non altro perché se si parla di qualcosa di negativo Putin va sempre
tirato in ballo
.

Ah, dimenticavo, va da sé che verrà tirato in ballo anche
Beppe Grillo.

Ho già avuto modo di riflettere sul termine “populismo” (si
veda [1]). In sintesi, “populista” è chiunque non condivida la razionalità
corrente, quella dettata dalle élite dominanti, adatta ad un obiettivo
perfettamente razionale che altro non è se non la riproduzione delle élite
stesse. È quindi populista chi vorrebbe che le persone avessero un lavoro per
poter fornire di un progetto la propria vita. È populista chi non comprende le
ragioni dell’Alta Finanza e dei suoi guru che parlano a suon di schemi logici e
di formule matematiche (in realtà matematicamente e logicamente poco
interessanti). In altri termini, è populista chi non si preoccupa degli
interessi delle élite
, perché ciò vorrebbe dire non essere in grado
si trascendere la percezione immediata della realtà e adeguarsi invece al
banale modo immediato di percepire del “popolo”. Cosa ritenuta sommamente
antiprogressista e irrazionale.

Ma cosa vuol dire l’elezione del “populista” Trump, dal
punto di vista di un consuntivo e di un preventivo storico? Perché se questa
elezione è una soluzione di continuità, lo è tra un prima che conosciamo, o
dovremmo conoscere, e un dopo che non è ancora accaduto ma dovremmo cercare di
prevedere.

3. Le crisi sistemiche riconfigurano il
mondo

Con “crisi sistemica” non intendo quella che è scoppiata con
i subprime. Lascio agli specialisti di economia questa idea. Io non so
nulla di economia e quindi per me questa crisi finanziaria è solo una
“sottocrisi”, cioè il fallimento di una strategia per contrastare la crisi
sistemica vera e propria che si protrae da circa mezzo secolo. Una crisi che
è per sua natura internazionale
: internazionali sono le sue cause e
internazionali le sue conseguenze. Necessariamente.

Perché?

Il capitalismo, in quanto sistema finalizzato
all’accumulazione infinita, nasce in Occidente e nasce extravertito, per usare
un termine dell’economista Samir Amin. Nasce cioè proiettato necessariamente
all’esterno. Si pensi alla sua patria d’origine, quell’isoletta periferica
galleggiante tra freddi mari del Nord, chiamata Gran Bretagna, che conquistò il
più grande impero formale della Storia. In modo sintetico ma preciso, il termocapitalismo
occidentale moderno nacque con la conquista inglese del Bengala. Coi proventi
di quella colossale rapina gli Inglesi riuscirono a ripianare i loro debiti coi
banchieri olandesi e a investire nelle invenzioni che diedero vita alla Prima
Rivoluzione Industriale; infine relegarono i già predominanti Olandesi stessi a
un ruolo marginale. Poi la leadership passò, con le due guerre mondiali del
Novecento, agli Stati Uniti d’America, una sorta di isola colossale, senza
nemici di terra e bagnata dai due grandi oceani commerciali. Ora questa
leadership è in crisi, una lunga crisi iniziata col Nixon shock del 1972,
quando Richard Nixon dichiarò a tutto il mondo che il Dollaro non si basava più
sull’oro ma sulla potenza militare, politica e culturale degli Stati Uniti. Nel
termocapitalismo extravertito occidentale i processi di accumulazione generano
terremoti internazionali e, viceversa, ogni terremoto internazionale ha effetti
sui processi di accumulazione. La crisi di sovraccumulazione che iniziò a
conclamarsi alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso e annunciata col
Nixon shock, fu affrontata spostando gli investimenti dal commercio e dall’industria
alla finanza (ecco l’origine della famosa finanziarizzazione) e con la globalizzazione,
con cui la finanza occidentale intercettava il plusvalore prodotto nei
cosiddetti Paesi emergenti, in primis la Cina e il resto dell’Oriente asiatico.
Il tentativo di rapina della Russia, rapina agevolata dal cleptocrate Boris
Eltsin beniamino “democratico” dell’Occidente, era parte di questo processo.

L’Impero Britannico nel bel mezzo della sua crisi sistemica
(iniziata nel 1873 con la Lunga Depressione) cercò di reagire raddoppiando i
suoi domini diretti sul resto del mondo per scaricare su di esso le
contraddizioni generate dal processo di accumulazione e contrastare le potenze
che allora stavano emergendo, cioè gli USA e la Germania. Allo stesso modo gli
Stati Uniti stanno cercando oggi di ampliare a dismisura il loro impero per lo
stesso motivo. Ora i competitors si chiamano Cina e Russia, una Russia
rimessa in piedi, dallo stato pietoso in cui versava, da Putin, non a caso il
nuovo cattivissimo dell’establishment statunitense con il seguito belante dei suoi
vassalli. Se ci mettiamo dal punto di vista dell’impero statunitense, questo
tentativo di sovraespansione è più che comprensibile, proprio per quanto
abbiamo detto. Poiché il Dollaro è sostenuto dallo strapotere americano (che
gli permette di godere, per dirla con l’ex presidente francese Valéry Giscard
d’Estaing, di un “privilegio esorbitante”), se questo strapotere dovesse essere
drasticamente ridimensionato, che cosa succederebbe all’economia, alla finanza
e alla società statunitensi? Qualcosa di estremamente grave se il grande
storico e geografo inglese David Harvey ha facilmente predetto che qualsiasi
attacco o minaccia al predominio del Dollaro avrebbe suscitato “una
reazione, anche militare, selvaggia
”.

E mantenere lo strapotere vuol dire essere costretti ad
accrescerlo, perché l’accumulazione di ricchezza e di potere nel capitalismo
soffre della sindrome di Alice oltre lo specchio: bisogna correre sempre più
forte per rimanere per lo meno nello stesso punto
.

È un segreto solo per chi non vuole vedere. Un segreto alla
luce del sole, rivelato senza reticenze ad esempio da
Thomas Friedman due anni prima delle
Torri Gemelle, nel suo “Manifesto per il mondo veloce”: «La mano invisibile
del mercato non funzionerà mai senza un pugno invisibile … chiamato Esercito,
Aviazione, Marina e Corpo dei Marines degli Stati Uniti
».

4. Finanziarizzazione e globalizzazione
vogliono dire impoverimento della classe media e della classe operaia

Oggi molti commentatori vedono nella vittoria di Trump una
“rivincita” di quelle classi. E lo è. Ma i commentatori mainstream non
tirano solitamente le conseguenze di quanto affermano. Non ci riescono o non
gli va di farlo. Cerchiamo allora di tirarle noi, così come siamo in grado di
fare.

La vittoria di Obama è stato un grande e prolungato addio
delle speranze progressiste
, un addio decorato dal primo
presidente nero degli Stati Uniti, il regalo d’addio più lussuoso che il sistema
americano potesse presentare. Un lusso che ha fatto letteralmente prendere
abbagli, veder miraggi, al “popolo di sinistra” italiano. Sotto le sue due “tenures”
la classe media non ha smesso di impoverirsi, per la maggior gloria di Wall
Street e il numero dei cittadini afroamericani fucilati dalla Polizia ha
raggiunto un livello inaudito. Questo tanto per far capire che tra l’aspetto e
le parole e il fare c’è di mezzo il mare. Una cosa che il “popolo di sinistra” però
non credo capirà mai, per via delle sue tare che confonde per “ideali”.

Il lungo addio americano delle speranze progressiste segue
quello che in Europa è iniziato – anche se non ancora finito ma ci manca poco –
con
Tony Blair, con François Mitterrand, con Gerhard
Schröder. In India è stato il lungo addio del Partito del Congresso e anche, in
certi Stati indiani, dei partiti comunisti locali.

Non diversamente in Italia. Col centrosinistra, paladino
entusiasta della finanziarizzazione e della finanziarizzazione, le condizioni
dei lavoratori e dei giovani sono peggiorate come sotto il centrodestra non era
successo. In parallelo sono aumentati i doni all’Alta Finanza come nemmeno
Berlusconi e Tremonti osavano fare. Per non parlare del supino allineamento a
tutte le aggressioni imperiali.

La Storia si ripete. Quasi un secolo fa la destra si era
già presentata come alfiere degli interessi (ovviamente non quelli “di classe”)
degli strati sociali dei lavoratori in generale. Lo fece il Fascismo e
lo fece il Nazismo. Se si analizzano i meccanismi di rapina finanziaria imposti
dalle potenze anglosassoni alla Repubblica di Weimar, troviamo dei paralleli
sconcertanti con quanto succede adesso. Quando Lord Keynes le accusò di stare
lastricando la strada per una seconda guerra mondiale, sapeva esattamente quel
che diceva. Così fu. Il Fascismo e il Nazismo erano la reazione
all’impoverimento dovuto a quella rapina e alla sconfitta dei generosi
tentativi rivoluzionari dei socialisti di sinistra in Italia (il Biennio Rosso)
e dei comunisti in Germania (la rivolta Spartachista). Bisogna sempre
ricordarsi che i leader spartachisti tedeschi Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht
furono assassinati non dalla destra, ma dai Corpi Franchi che facevano capo al
più grande partito progressista di allora, il Partito Socialdemocratico Tedesco,
in particolare a Gustav Noske, ministro della Difesa.

La Storia si
ripete ricorsivamente e non necessariamente in forma di farsa. Le ripetizioni
possono essere tragiche come le volte precedenti. Ma quel che cambia, in
continuazione, sono le condizioni in cui si svolge la ripetizione.

Nei primi
decenni del secolo scorso il Fascismo e il Nazismo presero il potere in Potenze
subordinate che cercavano di espandersi ai danni della Potenza allora egemone,
la Gran Bretagna. Oggi Donald Trump vince invece proprio nella nazione egemone,
che deve fronteggiare il proprio declino. C’è quindi una grande differenza.

Non solo, il
“populismo” di Donald Trump si inserisce in una storia culturale e politica
molto differente da quella europea. Parlare di Trump come di un “fascista” è
quanto di più superficiale si possa fare. Più utile – specialmente per noi
Europei – sarà cercare di capire cosa succederà alla finanziarizzazione e come
cambieranno i rapporti internazionali. Qui, se proprio si vuole, si possono trovare
analogie più appropriate con la prima metà del secolo scorso.

4. La crisi
della politica neocon, della finanziarizzazione e della globalizzazione

La marcia
trionfale dei neocons è stata preparata dal democratico Bill Clinton e
si è dispiegata dopo le Torri Gemelle sotto il repubblicano Bush jr. Questa
marcia ha accompagnato quella della finanziarizzazione e della globalizzazione.
Ma essa sta sempre più incespicando, perché il suo ruolino militare non è stato
rispettato. Ricordo che il generale Wesley Clark ha rivelato che nel 2001 i neocons
avevano deciso di  â€œliquidare” (take
out
) sette Stati in cinque anni, ovvero entro il 2006: Iraq, Somalia,
Libano, Libia, Siria, Sudan e infine Iran. Oltre all’Afghanistan che era
l’apripista. Siamo nel 2016 con i liquidatori impantanati in Novorussia,
Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Yemen e fuori dai piedi in Iran. Questo
ritardo ha dato il tempo a Russia e Cina di diventare temibili sia militarmente
sia economicamente. Molto temibili. Significa, come conseguenza, che la
finanziarizzazione a guida occidentale, a scadenze sempre più frequenti deve
fare i conti con la realtà, ovvero col fatto che è un cumulo di carta straccia
e che la globalizzazione in quanto predominio statunitense sul mercato
internazionale dà e darà ritorni decrescenti. E le società sulle quali si regge
comunque il potere delle élite, sono stanche, spaventate, irritate,
stufe marce.

Ciò significa
che la politica, ovvero il Potere del Territorio, ha necessità di sganciarsi
dal Potere del Denaro nella sua forma finanziarizzata e globalizzata per
affrontare la crisi sistemica facendo prevalere un punto di vista
squisitamente politico
. Non è un passaggio agevole, perché il Potere del
Territorio ha bisogno del Potere del Denaro, e viceversa. E’ un passaggio traumatico
e storicamente è sempre stato la conseguenza di un
a
serissima
impossibilità
di andare avanti lungo il percorso precedente.

Ora, il
rischio di implosione delle società occidentali, minate nella loro struttura
economica e nei loro valori, quelli che le hanno plasmate e a cui sono
abituate, e il rischio di una guerra termonucleare con Potenze che sono emerse
come frutto inintenzionale della globalizzazione, tutto ciò può costituire
questa impossibilità. Se è così, occorre il prevalere di un punto di vista politico
autonomo dai centri finanziari che riconosca che, obtorto collo, la
Superpotenza deve adeguarsi a una configurazione multipolare del mondo e che la
finanziarizzazione e la globalizzazione sono al capolinea (si veda [2]).

Non è la prima
volta nella storia del capitalismo che la politica si sgancia dall
’economia (con buona pace dei marxisti
economicisti). Durante lo sgretolamento dell
’egemonia britannica (che era basata in
Occidente sul gold-standard e il libero mercato unilaterale, e in Oriente e in
Africa sulla forza) il New Deal negli Usa e – ecco il punto – i fascismi in
Europa fecero la stessa cosa. E ovviamente lo faceva lo stalinismo in Russia
con tutt’altro progetto in testa. La spiegazione ultra sintetica e ultra
sintetizzante di quei fenomeni è questa, pur con tutte le loro evidenti
differenze
politiche e le loro differenti motivazioni. Non sto
assolutamente equiparando i tre fenomeni, sto dicendo che furono tutti e tre
espressione di una supremazia della Politica sull’Economia, reazione, a sua
volta, alla crisi dei processi di accumulazione mondiali coordinati dall’Impero
Britannico ormai in declino.

Un fenomeno
analogo sta accadendo sotto i nostri occhi. L’elezione di Donald Trump alla
presidenza degli Stati Uniti potrebbe dare l’avvio a una svolta simile. Non è
automatico né garantito che ciò avvenga. I poteri contrari a questa svolta sono
enormi, privi di scrupoli. E’ anche evidente che ciò non significa
automaticamente un allontanamento della guerra, come il secondo conflitto
mondiale è lì a insegnare. Ma significa che l’ottica potrebbe cambiare e di
molto e che la crisi potrebbe imboccare un nuovo cammino, molto diverso da
quello degli ultimi trent’anni. Un cammino pieno di pericoli, ma di tipo nuovo.
Un cammino contrastato. Questi contrasti e questi pericoli, è prevedibile,
riguarderanno in massima parte la democrazia e la libertà, in senso generale.
Non potremo mai abbassare la guardia.

Non perché
Trump sia un fascista, come dice a vanvera la sinistra. Ma perché la democrazia
e la libertà che noi Occidentali abbiamo conosciuto finora, e che con alcune
importanti interruzioni si sono sviluppate a partire dalla Rivoluzione
Francese, andavano di pari passo con un impetuoso sviluppo termocapitalistico
che non sarà più possibile. Come riuscire allora a far vivere la libertà, o le
libertà (civili, di genere, eccetera), e la democrazia in assenza delle loro
basi materiali storiche? Non è impossibile. Molte idee e istituzioni
sopravvivono attraverso cambiamenti epocali, basta pensare a quelle religiose.
Non è impossibile ma non è scontato e soprattutto non è gratis.

Se non ci sarà
nessuna resistenza popolare, se non ci sarà vigilanza e se non ci saranno nuove
idee improntate non al progresso, che si è visto la fine miseranda che
sta facendo, ma all’emancipazione, la gestione del nuovo cammino della
crisi sarà autoritaria.

5. Nulla è
scontato

Come reagirà
il deep state alla vittoria di Trump? Come reagiranno i vari centri di
interesse e di potere? Come reagiranno le differenti strategie che si fronteggiano
all’interno delle élite statunitensi?

Lo scontro tra
le strane posizioni parzialmente accomodanti di Trump e le cristalline
posizioni guerrafondaie della Clinton, che si è agitato sul palcoscenico del
teatrino della campagna elettorale, è già in atto in modo crudo nella realtà. E
credo che sia destinato a protrarsi.

Il
Dipartimento di Stato di Obama e il Pentagono negli ultimi tempi non hanno
fatto altro che smentirsi l’uno con l’altro. Se Kerry e Lavrov firmavano una
tregua in Siria, immediatamente dopo il Pentagono bombardava (e per la prima
volta!) l’Esercito Arabo Siriano, uccidendo anche dei militari russi. Se, dopo
il “massacro del funerale” nello Yemen da parte dell’Arabia Saudita, il
Dipartimento comunicava che avrebbe rivisto il suo sostegno ai Sauditi, immediatamente
dopo il Pentagono faceva bombardare le postazioni degli Houthi direttamente da
una sua nave da guerra.

Ieri
Mark Toner, portavoce del Dipartimento di Stato, ha dichiarato che una volta
liberata Raqqa dall’ISIS, tutte le forze straniere se ne dovranno andare, che
non sarà ammesso nessun tipo di regione semi-autonoma nel Nord della Siria, che
il governo della città dovrà in tempi brevi essere ridato alla Siria e che, in
conclusione, “we want to see a sovereign, intact Syria”. Ci può covare
sicuramente qualche gatta, sotto queste parole. Ma la risposta del Pentagono
non si è fatta attendere. Il generale Joseph Dundorf ha rilasciato
dichiarazioni totalmente contrastanti con quelle di Toner. Ha affermato che c’è
un piano di lunga durata di occupazione e governo di Raqqa da parte della
Coalizione, dei “ribelli moderati” e del sedicente Esercito Siriano Libero. Ha
poi aggiunto che le forze curde, cioè l’SDF, non fanno parte della soluzione e
che essa verrà negoziata solo con la Turchia.

Lo
stesso Obama ha dato l’impressione di stare cercando di fare un po’ di prato
inglese sotto i piedi della Clinton, con inserimenti last minute qua e
là in posti chiave di persone a lui fedeli che la avrebbero potuta intralciare
nei suoi progetti e nelle sue velleità da presidente.

Insomma, nemmeno uno stato imperiale come gli USA è
monolitico. E’ chiaro che in Medioriente diverse strategie imperiali si sono
scontrate, specialmente a fronte dell’atteggiamento russo. All’epoca della
crisi degli “attacchi chimici”, la linea dei bombardamenti perse, mentre vinse
quella dei negoziati (con la Russia). Al contrario, al momento della tregua di
Aleppo vinse quella dei bombardamenti, mentre perse quella dei negoziati. Per
Raqqa lo scontro sembra aperto. Non certo perché improvvisamente Washington si
sia messa ad amare Damasco, ma per motivi molto più intricati, come i rapporti
con la Turchia o la constatazione che uno stato indipendente a maggioranza
araba e minoranza curda che rivendica una propria supremazia significherebbe governare
un pantano disseminato di mine. E sicuramente per valutazioni, negoziati,
timori e prospettive che noi nemmeno sappiamo. E’ un errore dare per scontato
che gli Stati Uniti abbiano un’unica strategia. Ciò equivarrebbe a dare per
scontato che gli USA possano sempre fare quello che vogliono.

Ai tempi della guerra nel Vietnam c’era un gruppo che
propugnava bombardamenti atomici (il cui portavoce era il democratico
Eisenhower!). Ma non ci furono bombardamenti atomici, il repubblicano Nixon
detto “boia” firmò il trattato di pace e tutti ricordiamo quando gli ultimi
marines scapparono attaccandosi ai pattini degli elicotteri.

Durante la precedente crisi sistemica l’Impero Britannico
decise che costi quel che costi non avrebbe mollato l’osso, non si
sarebbe adeguato all’emergenza multipolare di allora. Anzi, come si è detto, in
piena crisi pensò bene di raddoppiare i suoi domini diretti, ma non servì a
nulla e perse l’impero. “Costi quel che costi” significò allora per il mondo
quasi 100 milioni di morti in due guerre mondiali.

Ora “costi quel che costi” può significare la fine del
genere umano e anche negli States lo sanno e non credo che lì siano tutti pazzi.
Non ogni scelta teoricamente per loro migliore è effettivamente alla loro
portata e non tutte le scelte sono effettivamente possibili. Da anni la loro
strategia si svolge tramite “approssimazioni”, nel senso logico-matematico, vale
a dire, si situa tra ciò che è possibile e ciò che è impossibile, anche se ciò
che è impossibile sarebbe, teoricamente, la loro prima scelta. Non a caso
diversi seri analisti statunitensi affermano da molto tempo che Washington non
ha una “grand strategy”.

La strategia di Obama tendeva verso l’approssimazione
inferiore e quella dei neocons tende verso l’approssimazione superiore,
col rischio che ciò porti a un evento catastrofico non pianificato.

Il “leading from behind” di Obama, i proclami
disattesi (come la “linea rossa” degli attacchi chimici), il non aver voluto o
potuto impedire l’intervento russo nonostante si stesse preparando da mesi
sotto il loro naso, l’altalena “sanzioni sì, sanzioni no” alla Russia per il
suo intervento in Siria, sono tutti segnali di una strategia “approssimata”
verso il basso. Ovviamente anche la “strategia approssimata” verso il basso è
criminale ed è nostro compito denunciarla e contrastarla come possiamo. Ma
questo non deve impedirci di vedere le contraddizioni in seno all’Impero. Esse
si riverberano anche all’interno degli stati vassalli, come i paesi UE, con conseguenze
che dobbiamo saper valutare e anticipare, e questo le rende doppiamente degne
di essere prese in considerazione.

La vittoria di Trump è un segno netto che le contraddizioni
all’interno dell’Impero hanno raggiunto un punto di svolta.

Donald Trump tenderà verso l’approssimazione inferiore, come
il suo predecessore Obama, così come sembra voler fare e in contrasto coi
proclami della Clinton? O cercherà di dividere la Russia dalla Cina ridefinendo
cosa è possibile e cosa è impossibile? Quanta libertà avrà? Quanto sarà tenuto
al guinzaglio dal suo vice Mike Pence, neocon piazzatogli dietro il
sedere dall’establishment repubblicano?

E cosa succederà in Europa, in Italia? Per fare un esempio, Renzi
continuerà ad essere sostenuto dalla Casa Bianca nei suoi litigi con la
Commissione Europea e con la Merkel? Gli impegni militari che Obama ci ha
richiesto saranno ancora necessari? E il TTIP che fine farà? Verrà abbandonato?
Come si riposizionerà la NATO?

L’elezione di Trump è stata un terremoto nel centro dell’Impero.
Le onde sismiche si propagheranno di sicuro anche alla sua periferia
.

PS. Mi sto domandando se i “mercati” prenderanno la scusa della
Brexit e dell’elezione di Donald Trump per far scoppiare la nuova grande crisi
finanziaria che sta covando da un pezzo.


 NOTE

[1] Piotr: Chi sono i veri populisti?

[2] Piero
Pagliani: Al cuore della Terra e ritorno: comprendere la crisi sistemica.
Parte seconda: “La crisi che verrà. Definanziarizzazione e deglobalizzazione”

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