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di Girolamo De Michele.
Quando viveva don Milani
C”è un malvezzo tra i detrattori di don Milani: quello di decontestualizzarlo, destoricizzarlo e disincarnarlo. Di farne un predicatore etereo, che come le figure di Chagal sorvola la realtà senza sfiorarla. Secondo questi detrattori (all”interno di un elenco non completo che va da Paola Mastrocola a Cesare Segre, da Sebastiano Vassalli sino a Giorgio Israel, Sergio Romano e Marcello Veneziani), don Milani sarebbe assieme a Gianni Rodari artefice o promotore, o nel minore dei casi complice, di una presunta distruzione della scuola pubblica, e dell”avvio di una catastrofe educativa che ha prodotto quell”emergenza educativa che si pretende esistere semplicemente perché tutti ne parlano – così come il flogisto non poteva non esistere, dal momento che tutti ne affermavano l”esistenza.
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Andiamo a verificarla, questa scuola che prima del 1968 funzionava così bene. Abbiamo uno strumento che può darci qualche risposta, uno strumento imprescindibile per chi voglia occuparsi con cognizione di causa della scuola: la ricerca sulle competenze alfabetiche degli italiani che, a cavallo tra secondo e terzo millennio, ha fotografato una situazione preoccupante: circa un terzo degli italiani ha competenze alfabetiche modeste, al limite dell”analfabetismo.
Stiamo parlando della capacità di comprendere un articolo di giornale, di trovare l”informazione nel tabellone degli orari ferroviari, di compilare un bollettino di conto corrente.
Per contro, poco meno del 10% degli italiani è in possesso di un patrimonio di competenze linguistiche e di un numero di vocaboli conosciuti medio-alti.
Ebbene, se prendiamo il 1968 come discrimine, scopriamo che tra gli italiani che hanno terminato gli studi prima del ”68 la percentuale di soggetti ai limiti dell”analfabetismo, riferito alla comprensione dei testi in prosa sale al 63%, mentre quella che si colloca nelle fasce medio-alte è di appena l”1.9% [1].
La scuola pre-Sessantotto, quella tanto cara a Gelmini, a Tremonti, a Mastrocola; quella dell”esame in quinta elementare, dei voti numerici, dei contenuti e della memorizzazione generava una società analfabeta. Ma a parlare della scuola, a suonarsela e a cantarsela tra loro, erano – e in buona parte sono – sempre gli stessi: quel 2% di istruiti che avevano superato una selezione neanche darwiniana, ma malthusiana.
A chi insegnava don Milani? Ai figli dei contadini toscani. Alcuni dei suoi alunni erano i primi istruiti della loro gente, sicuramente i primi ad andare oltre la licenza elementare. Che don Milani praticasse una didattica della conservazione, che non cambiava la società e lasciava ciascuno nel proprio pezzo di terra, è un”affermazione possibile solo per chi ignora questa banale verità . Il fatto stesso che alcuni dei ragazzi autori della Lettera a una professoressa fossero già insegnanti di altri proletari, spesso senza apprezzabili differenze di età tra il maestro e l”allievo, ci dice quale rivoluzione sociale veniva messa in moto a Barbiana.
Su questa scuola lascio volentieri la parola a un bravo studioso di cose scolastiche: «È una scuola di classe, dove le differenze di ceto non vengono colmate con l”educazione per tutti, se mai vengono ribadite e cristallizzate. È una scuola che nasconde la realtà (dal sesso ai conflitti sociali, dai diritti sanciti nella Costituzione alle nuove forme di comunicazione). È una scuola che non vuole farsi carico di recuperare gli ultimi, i figli dei contadini e degli operai, degli immigrati del sud che arrivano nelle grandi città . Una scuola rigida e cupa, avversa a ogni creatività , che si trasforma in baluardo della tradizione anziché promuovere lo sviluppo e il cambiamento» [2].
Al tempo di don Milani la scuola era uno strumento di selezione classista. Serviva non a garantire ai figli dei proletari l”accesso all”istruzione, ma a negarglielo. Basta esaminare i grafici e le tabelle elaborate dagli otto studenti in appendice alla Lettera. E fare una semplice considerazione: questi ragazzi, bocciati dalla loro “signora maestra”, erano in grado di comprendere e realizzare operazioni cognitive complesse, che erano accessibili ad appena il 10% della popolazione. Le stesse che i detrattori di don Milani evidentemente non riescono a leggere in un”epoca in cui ci riesce un terzo della popolazione italiana. Don Milani aveva una visione semplicistica della matematica (negarlo sarebbe scorretto): ma questi erano i risultati che otteneva (e negarlo è altrettanto scorretto).
La lingua dei classici, Monti e Foscolo per tutti, era usata non per dare l”idea di una presunta altezza letteraria, ma per selezionare, con la sua incomprensibilità , i bambini costretti a confrontarsi, senza l”ausilio di note e parafrasi – e senza che la “signora maestra”, in questo tanto simile ai convincimenti di Mastrocola, si fosse posto il problema di fargliela comprendere – con una lingua che giustamente percepivano, soggettivamente, come la lingua degli istruiti creata in odio ai poveri. L”avversione di don Milani per il latino nelle medie (che aveva peraltro numerosi alleati nelle sfere “alte” dell”intellettualità italiana: ad esempio Guido Calogero) nasce da qui, non dalle astratte considerazioni intellettualistiche che caratterizzano il dibattito parlamentare sulla riforma della scuola media.
Che cosa ci ha insegnato don Milani
In primo luogo, don Milani ci ha insegnato il punto di vista dei subalterni. Non ci ha insegnato a “capirlo”, a “contestualizzarlo”: non ci ha aiutato a colonizzarli, i subalterni. Ci ha sbattuto in faccia la loro esistenza. Se qualcosa ci ha insegnato, con le parole di Lombardo Radice ci ha insegnato un modo di leggere Gramsci che prima di lui non conoscevamo.
I poveri, i figli dei contadini esistono: hanno una lingua, un modo di fare, una concezione del mondo che ha la stessa dignità di quella degli istruiti.
Con la differenza che i poveri sanno dell”esistenza degli istruiti, questi ultimi – a dispetto del loro universalismo culturale – non concepiscono l”esistenza di un mondo “altro”: come i costituenti americani parlavano di diritti universali, ma non concepivano l”esistenza dei neri e degli indiani (e neanche delle donne, dopo tutto).
L”esistenza di una cultura altra – chiamiamola pure “cultura analfabeta”, richiamandoci a una importante inchiesta degli anni Sessanta – rende parziale quella cultura che, in base ai propri presupposti (che da effetto diventano causa) si pretende universale: una rivoluzione cognitiva, oltre che sociale e politica, dalla quale conseguono una importante serie di cose che don Milani ci ha insegnato.
Ad esempio, che la lingua non è qualcosa di astratto o disincarnato. La lingua parlata esiste nel vivo del corpo, è radicata nella vita biologica, emozionale, intellettuale e sociale dell”essere umano. Non è possibile scindere il problema dell”apprendimento da quello delle condizioni materiali dei poveri di ieri, e dei nuovi poveri di oggi: come recitavano le “Dieci tesi per l”educazione linguistica democratica” parafrasando Bertolt Brecht: «Prima la bistecca e la frutta, e dopo Saussure e le tecnologie educative». Il disprezzo dell”accademia universitaria per don Milani è direttamente proporzionale all”accesso dei baroni (e dei loro portaborse) al benessere alimentare.
Non esiste una sola lingua, ne esistono molte: dalla cui pluralità si deduce la pluralità e la complessità delle capacità linguistiche. Don Milani ci ha insegnato che non può esistere una sola, astratta e disincarnata strategia didattica, perché si insegna a esseri umani in carne e ossa, che hanno un vissuto, un”affettività , una storia, dei bisogni.
Tra questi bisogni e questi vissuti, c”è il bisogno di comunicare. La lingua verbale viene prima di quella scritta, e questa non può costituire il calco per quella: ma la pedagogia linguistica dell”epoca di don Milani ignorava questo semplice fatto, negando e, di fatto, reprimendo la differenza di cui erano portatori i poveri, e imponendo una didattica parziale, inutile e nociva, basata su un insegnamento grammaticale fondato su una tradizione che era tale solo per i figli degli istruiti – quelli che, come dicevano i ragazzi di Barbiana, fanno ripetizione tutto l”anno, perché quello che gli viene insegnato lo sentono ogni giorno in casa, mentre i figli dei poveri ripetevano l”anno.
Don Milani ci ha insegnato che la lingua letteraria, quella di Monti, di Foscolo, di Annibal Caro – quella che Mastrocola rimpiange, ben guardandosi però dallo scrivere i suoi libri usando l”italiano del “traduttor dei traduttor d”Omero” o dei Sepolcri – è cosa diversa dalla lingua: che l”educazione letteraria non può coincidere, con fare imperialistico, con l”educazione linguistica.
Come scrivevano gli autori delle Dieci tesi, «La vecchia pedagogia linguistica era imitativa, prescrittiva ed esclusiva. Diceva: “Devi dire sempre e solo così. Il resto è errore”. La nuova educazione linguistica (più ardua) dice: “Puoi dire così, e anche così e anche questo che pare errore o stranezza può dirsi e si dice; e questo è il risultato che ottieni nel dire così o così”. La vecchia didattica linguistica era dittatoriale. Ma la nuova non è affatto anarchica: ha una regola fondamentale e una bussola; e la bussola è la funzionalità comunicativa di un testo parlato o scritto e delle sue parti a seconda degli interlocutori reali cui effettivamente lo si vuole destinare, ciò che implica il contemporaneo e parimenti adeguato rispetto sia per le parlate locali, di raggio più modesto, sia per le parlate di più larga circolazione».
Infine, don Milani ci ha insegnato la franchezza e l”onestà . I trucchi retorici, le mezze verità , le citazioni scorrette cui fanno ricorso i suoi detrattori testimoniano, se mai ce ne fosse bisogno, non la sua attualità , ma la sua ruvida intempestività .
Cosa dobbiamo imparare oggi da don Milani
Don Milani ci ha insegnato che l”istruzione è dono. Non in senso elevato, o retorico: in senso antropologico. Tutte le civiltà hanno all”origine due sistemi di relazioni: lo scambio e il dono. Ciò che si acquisisce con l”istruzione non è oggetto di scambio, perché chi insegna non si priva di ciò che dà . Ciò che si acquisisce non può essere oggetto di misurazione, di pesa, di valutazione, perché la sua incommensurabilità può solo essere compensata con la pratica del dono da parte di chi ha avuto: a Barbiana chi apprendeva insegnava a sua volta, senza soluzione di continuità .
Nella scuola della misurazione degli apprendimenti, dei test, dei quiz spacciati per oggettività scientifica, ciò che dobbiamo imparare da don Milani è che la conoscenza non può essere scomposta in pacchetti e valutata con qualche decina di crocette, perché fare questo significa negare la natura stessa dell”apprendimento, la sua funzione sociale, la sua destinazione non a questo o quell”allievo singolarmente presi, ma a un comune che apprende, e dal quale apprendono i singoli. Difendere la scuola significa quindi disobbedire?
Si: don Milani ci ha insegnato la virtù della disobbedienza, il diritto di sfondare le cancellate per installare nelle regge dei signori le case dei poveri, ma anche il dovere di non farci possedere dalla visione del mondo dei signori. Di non dimenticare mai, anche dopo essere usciti dall”indigenza e dalle vecchie povertà , la sofferenza dei nuovi poveri.
Questo è il suo insegnamento principale.
In un recente articolo sul “New York Times” l”economista Paul Krugman ha messo in discussione il fatto che nella società globale l”aumento del livello di istruzione sia ancora la chiave del successo economico, perché la tendenza del mercato del lavoro sembra essere piuttosto quella di incrementare la quantità di lavoro manuale irriducibile all”informatizzazione che non richiede particolari requisiti cognitivi; al tempo stesso, il possesso di ampie competenze fa da ostacolo all”esternalizzazione, all”outsorcing, all”azzeramento delle figure professionali intermedie [3].
Lo si vede anche in Italia, dove affiora la tendenza dei nuovi precari a non dichiarare quelle competenze “alte”, a sottostimare in modo intenzionale i propri curriculi nei quali fino a ieri si cercavano di inserire competenze e titoli non acquisiti: i precari si accorgono che è più difficile trovare lavoro se il futuro padrone sa di avere a che fare con una persona colta che, come voleva don Milani, è in grado di leggere il contratto di lavoro.
È evidente che questa tendenza veicola le riforme, sia quelle ufficiali che quelle informali, dei sistemi di istruzione: se volete una chiave di lettura del riordino dei cicli, dell”abolizione del modulo, della semplificazione della scuola media, eccone una.
Ecco l”intempestività della lezione di don Milani, che pretendeva più istruzione invece che meno; che non era ecumenico, ma stava da una sola parte, perché non si può stare contemporaneamente con lo studente che si difende con un foglio di cartone con su scritto il titolo di un libro e col gendarme che quel libro e quello studente riempiono di manganellate; che faceva la cosa giusta perché stava dalla parte giusta: non si difende il diritto all”istruzione, la scuola di tutti e non di qualcuno, i diritti dei poveri vecchi e nuovi contro il furto di sapere, di ricchezza, di futuro perpetrato dai padroni vecchi e nuovi, se non si disobbedisce all”ordine globale con ogni mezzo necessario.
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Note
1. Rispetto alla comprensione di grafici e operazioni matematiche, le percentuali sono rispettivamente del 61% e del 52.3% nella fascia dell”analfabetismo, dell”1.5% e del 4.8% nella fascia di eccellenza. Al contrario, tra gli scolarizzati dopo la metà degli anni Settanta la prima fascia varia tra il 21.9-15.4% (27.2-18.2%, 23.5-19% nella lettura di grafici e operazioni matematiche), e la fascia medio-alta tra il 11.4-14.6% (8.4-9.6%, 10.9-11.4% nelle altre competenze).
2. Davide Montino, Con il grembiule siamo tutti più buoni. La scuola italiana tra falsi problemi e pessime soluzioni, Selene Edizioni, Milano 2009, pp. 29-30.
3. Discute questo articolo Stefano Chiodi su “Doppiozero” qui.
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Fonte: Carmillaonline
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