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Monologhi all'ONU

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30 Settembre 2012 - 00.12


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«Sotto i nostri occhi», cronaca di politica internazionale n°10

strangebibidi Thierry Meyssan.

Ogni anno, per una settimana, i capi di Stato e di governo si ritrovano a New York per assistere all”apertura dell”Assemblea generale delle Nazioni Unite. Tuttavia, questo incontro ha progressivamente perso il suo aspetto costruttivo per trasformarsi invece in uno show televisivo i cui momenti forti sono superati in audience solo dalle Olimpiadi e dal campionato del mondo di calcio. Il discorso più atteso era quello del presidente degli Stati Uniti, invitato a parlare dopo che la presidente brasiliana aveva scaldato l”aula. Sempre cordiale, “Barack” ha fatto la sua entrata in scena tendendo la mano al Segretario Generale Ban Ki-moon, seduto alla tribuna superiore, che si è alzato e piegato in due per stringergli la mano. È l”unico capo di Stato a essersi permesso questo gesto. Il suo discorso, compilato come una sceneggiatura hollywoodiana, ha ripercorso la vita dell”ambasciatore Chris Stevens, ucciso due settimane prima a Bengasi.

Ha raccontato che l”America non è un impero, ma un insieme di uomini e donne liberi che lavorano e si battono affinché il resto dell”umanità possa godere della stessa libertà. Questa «sequenza emozionale» si è conclusa con un “lieto fine”: «La storia è dalla nostra parte e una marea crescente di libertà non potrà mai far retromarcia.» Questo slogan voleva essere una risposta adeguata a un articolo del ministro russo Sergej Lavrov, che non vede la storia e la libertà dalla parte di coloro che hanno distrutto la Libia e attaccano la Siria.

Il dibattito che ha fatto seguito allo show è stato intitolato «la composizione o la soluzione delle controversie internazionali con mezzi pacifici.» Contrariamente a quanto tale titolo poteva suggerire, si è parlato soprattutto della guerra che la NATO e il Consiglio di Cooperazione del Golfo negano di condurre in Siria, di quella che la Francia vuole fare al Mali, e di quella che Israele vuole fare agli Stati Uniti Stati contro l”Iran.

Le dichiarazioni a favore di un intervento militare in Siria si sono fondate sulla teoria della «primavera araba»: tutti gli eventi accaduti da due anni nel mondo arabo avrebbero le stesse cause, risponderebbero alle stesse aspirazioni, e dovrebbero portare al trionfo della democrazia e dell”economia di mercato. Tuttavia, i sostenitori di questa teoria non sembrano disinteressati. Il primo ministro britannico David Cameron ha affermato la compatibilità dell”Islam con la democrazia e l”economia di mercato, citando il buon esempio turco (più di cento giornalisti e centinaia di alti ufficiali detenuti, le minoranze armena e curda oppresse, ma «un”economia aperta e un atteggiamento responsabile di sostegno al cambiamento in Libia e in Siria»). Dopo aver paragonato le convulsioni del mondo arabo alle epiche lotte delle Americhe e dell”Europa per la loro libertà e unità, l”emiro del Qatar ha perorato il rovesciamento delle dittature e l”instaurazione della libertà di espressione, proprio lui, Sheikh Hamad, il golpista che ha imbavagliato tutti gli oppositori e i media nel suo paese. Con questo, implicitamente prendendo lezioni da 18 mesi di sconfitte dei suoi mercenari, ha invitato gli altri stati arabi ad aiutarlo militarmente per finirla con la Siria. Quanto al presidente francese, François Hollande, ha chiesto che l”ONU stabilisca un mandato sulle «zone liberate», così come in altri tempi la Società delle Nazioni (SDN) aveva dato un mandato alla Francia su tutta la Siria e il Libano.

La questione del Mali era meno caricaturale. Il primo ministro Modibo Diarra ha ricordato che il terrore imposto dagli islamisti e la secessione del nord del paese sono il diretto risultato dell”intervento militare in Libia, legalizzato dal Consiglio di Sicurezza. Egli ha quindi chiesto che l”Onu legalizzi anche un intervento militare internazionale che aiuti il suo piccolo esercito a riconquistare i territori perduti. La Francia, che trepida d”impazienza dal suo intervento in Costa d”Avorio, si è offerta volontariamente nella speranza di ripristinare la sua area di influenza in Africa occidentale. Quindi dobbiamo fare la guerra a dei fanatici che Parigi aveva armato e inquadrato per rovesciare la Jamahiriya libica.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha descritto un Iran oscurantista e aggressivo che rappresenta già ora un pericolo reale e diventerebbe una minaccia globale, se disponesse della bomba atomica. Per sostenere il suo discorso, ha moltiplicato i riferimenti ad accuse discutibili, che vanno dagli attentati compiuti in Thailandia e in Bulgaria fino a un complotto contro l”ambasciatore saudita a Washington, per non parlare dell”amalgama tra Al-Qa”ida e la Repubblica islamica dell”Iran. «Bibi» ha inoltre sostenuto che il mondo doveva scegliere tra la modernità incarnata dal popolo ebraico e dai suoi scienziati premi Nobel, o l”oscurantismo medievale, rappresentato dall”Iran (salvo ammettere che questo paese è sulla cresta dell”onda in materia di tecnologia nucleare). La cosa più grottesca è stato il suo ricorso a un diagramma tendente a creare confusione presso il grande pubblico. Ha assicurato che l”Iran ha completato il 70% di un programma nucleare militare. Ma Teheran dispone solo di uranio arricchito al 20% per scopi civili, laddove un programma militare, per iniziare, avrebbe bisogno di uranio arricchito all”85%.

Alcuni oratori hanno suscitato stupore. Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha sconcertato l”Assemblea affrontando a sorpresa il tema del dibattito che tutti avevano dimenticato: «La composizione o la soluzione delle controversie internazionali con mezzi pacifici.» La delegazione statunitense ha abbandonato rumorosamente l”aula al momento in cui, costellando il suo discorso con versi del poeta classico Saadi, ha sottolineato che la pace non si ottiene né con il Diritto né con la Forza, bensì tramite la compassione per gli altri e il sacrificio di sé. Provocazione suprema, ha ribadito la sua fede in un avvenire perfetto, governato dai profeti e non da coloro che vi si richiamano.

Un altro esempio, il presidente statunitense dell”Afghanistan, Hamid Karzai ha chiesto la revoca delle sanzioni che riguardano i leader talebani, non perché costoro siano cambiati né diventati modelli di tolleranza, ma perché vorrebbe farli entrare nel suo governo. Perché mai dunque gli si è fatta la guerra? O ancora, il primo ministro giapponese, Yoshihiko Noda, si è permesso di criticare il dogma sacrosanto della superiorità dei regimi democratici. Analizzando il disastro di Fukushima, ha osservato che le istituzioni rappresentative di un popolo oggi possono risultare illegittime quando impropriamente privano le generazioni future dei loro diritti fondamentali. Sono forse più legittime quando impropriamente privano gli altri popoli dei loro diritti fondamentali?

Al momento in cui scrivo questo articolo, i capi di Stato e di governo continuano la loro passerella in tribuna. Si attendono con impazienza le dichiarazioni russe e cinesi, previste troppo tardi per poterle commentare in questa rubrica.


 

Traduzione a cura di Matzu Yagi.

 

 

Questa “cronaca settimanale di politica estera” appare simultaneamente in versione araba sul quotidiano “Tichreen” (Siria), in versione tedesca sulla “Neue Reinische Zeitung”, in lingua russa sulla “Komsomolskaja Pravda”.

 





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