ATF
Il Pentagono prepara una nuova guerra in Asia sudorientale
«Sotto i nostri occhi» – Cronaca di politica internazionale n°259
di Thierry Meyssan
Probabilmente siete consapevoli di essere informati in modo incompleto su ciò che sta accadendo in Myanmar e probabilmente non avete sentito parlare della coalizione militare che si sta preparando ad attaccare questo paese. Tuttavia, come qui spiega Thierry Meyssan, gli eventi attuali sono stati organizzati da Riad e da Washington fin dal 2013. Non prendete posizione prima d’aver letto questo articolo e averne assimilato le informazioni.
Secondo lo stato maggiore USA, il Myanmar fa parte della zona da distruggere (qui, la carta pubblicata da Thomas P. M. Barnett nel 2003).
DAMASCO (Siria) – Nel perseguire la sua Grande strategia di estensione del dominio della guerra [1], il Pentagono ha anche preparato la strumentalizzazione dei curdi nel Medio Oriente, una guerra civile in Venezuela e una guerra usurante nelle Filippine. Tuttavia, questi conflitti dovranno ancora aspettare, a beneficio di un quarto teatro di operazioni: la Birmania, sul cammino verso la Cina.
In occasione della riunione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 28 settembre, l’ambasciatrice degli Stati Uniti e alcuni dei suoi alleati hanno accusato il governo di coalizione di Myanmar di “genocidio” [2].
Questo parolone – che nel diritto europeo indica un massacro di massa, ma nell’ordinamento statunitense si applica a un metodo di assassinio anche quando il criminale faccia solo una vittima – è sufficiente per Washington per giustificare una guerra, con o senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza, come già si è visto in Jugoslavia [3].
La riunione del Consiglio di Sicurezza si è svolta su richiesta dell’Organizzazione della Conferenza islamica (OIC).
Per conciliare i fatti con la loro narrazione, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia, che hanno celebrato – al tempo della “Rivoluzione Zafferano” – sia Aung San Suu Kyi (2007) sia i monaci buddisti per la loro resistenza nonviolenta dittatura dello SLORC [4], hanno ora semplicemente messo insieme l’esercito birmano, la vincitrice del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi [5] e tutti i buddisti del paese [6] nel campo dei malvagi.
La Birmania non ha mai conosciuto la pace civile a seguito del dominio straniero, britannico e poi giapponese [7].
È più facile da destabilizzare da quando la giunta SLORC ha accettato di condividere il potere con la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) e da quando sta cercando di risolvere in modo pacifico i molti conflitti interni del paese.
Per un caso della geopolitica, la Birmania lascia passare attraverso il suo territorio l’oleodotto che collega lo Yunnan cinese al Golfo del Bengala, e ospita stazioni cinesi di sorveglianza elettronica delle rotte navali che passano al largo delle sue coste. La guerra in Birmania è quindi più importante per il Pentagono che stoppare le due “Vie della seta” in Medio Oriente e in Ucraina.
Eredità dalla colonizzazione britannica, tra le popolazioni birmane discriminate si trovano 1,1 milioni di discendenti dei lavoratori bengali che Londra spostò all’interno dell’Impero delle Indie verso la Birmania: i Rohingya [8].
Accade che questa minoranza nazionale – non una minoranza etnica – sia musulmana, laddove la grande maggioranza dei birmani siano buddisti. Infine, durante la seconda guerra mondiale, i Rohingya collaborarono con l’Impero delle Indie contro i nazionalisti birmani.
Nel 2013, quando il Pentagono e la CIA avevano schierato le orde jihadiste in Siria e lì vi tenevano una guerra di posizione, l’Arabia Saudita ha creato un’ennesima organizzazione terroristica alla Mecca, il Movimento per la Fede (Harakah al-Yaqin). Il gruppo, che dichiara di riunire i Rohingya, è in realtà controllato dall’organizzazione pakistana Ata Ullah, che combatté i sovietici in Afghanistan [9].
Nel 2013, quando il Pentagono e la CIA avevano schierato le orde jihadiste in Siria e lì vi tenevano una guerra di posizione, l’Arabia Saudita ha creato un’ennesima organizzazione terroristica alla Mecca, il Movimento per la Fede (Harakah al-Yaqin). Il gruppo, che dichiara di riunire i Rohingya, è in realtà controllato dall’organizzazione pakistana Ata Ullah, che combatté i sovietici in Afghanistan [9].
Il regno saudita ospitava la più grande comunità maschile Rohingya, dopo la Birmania e davanti al Bangladesh, con 300.000 lavoratori maschi senza le loro famiglie.
Secondo un rapporto dei servizi di intelligence bengalesi, anteriore alla crisi attuale, il Movimento per la Fede agisce da un anno con una scissione della Jamaat-ul-Mujahideen bengalese intorno allo slogan “Il Jihad dal Bengala a Baghdad”. Questo gruppuscolo ha giurato fedeltà al califfo di Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi, e ha raccolto nella stessa coalizione i Mujahidin indiani, Al-Jihad, Al-Ouma, il Movimento degli Studenti Islamici dell’India (SIMI), il Lashkar- e-Toiba (LeT) e il pakistano Harkat-ul Jihad-al-Islami (HuJI). Questo progetto è stato finanziato dalla fondazione Revival of Islamic Heritage Society (RIHS)del Kuwait.
Quando, meno di un anno e mezzo fa, nel marzo 2016, lo SLORC accettò di condividere il potere con il partito di Aung San Suu Kyi, gli Stati Uniti tentarono di strumentalizzare il premio Nobel per la pace contro gli interessi cinesi. Sapendo che sarebbe stato loro difficile manipolare la figlia del padre dell’indipendenza birmana, il comunista Aung San, allora incoraggiarono il Movimento per la Fede – «non si sa mai…» -.
Nel settembre del 2016, Aung San Suu Kyi rappresentava il suo paese all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite [10].
Assai ingenuamente, spiegò i problemi del suo popolo e gli strumenti che stava mettendo in atto per risolverli gradualmente, a partire da quello dei Rohingya. Quando tornò a casa, si rese conto che i suoi ex sostenitori statunitensi erano in realtà i nemici del suo paese. Il Movimento per la Fede ha lanciato una serie di attacchi terroristici, tra cui quello alla stazione di polizia di confine a Maungdaw, dove 400 terroristi saccheggiarono l’arsenale uccidendo 13 persone fra doganieri e soldati.
Aung San Suu Kyi ha perseverato e ha mirato a costituire una commissione consultiva per analizzare la questione Rohingya in modo da presentare un piano concreto volto a porre fine alla discriminazione di cui è oggetto la minoranza. Questa commissione era composta da sei birmani e tre stranieri: l’ambasciatore olandese Laetitia van den Assum, l’ex ministro libanese (che in realtà rappresenta la Francia) Ghassan Salamé, e l’ex segretario generale dell’ONU Kofi Annan, in qualità di presidente della commissione.
I nove commissari intrapresero un lavoro di rara qualità, nonostante gli ostacoli birmani. I partiti politici non riuscirono a far sciogliere la commissione da parte dell’Assemblea nazionale ma riuscirono a far adottare una mozione di sfiducia nei confronti della commissione da parte dell’assemblea locale di Arakan (lo Stato in cui vivono i Rohingya). In ogni caso, i commissari hanno presentato il loro rapporto il 25 agosto con possibili raccomandazioni da attuare e senza trappole, con il vero scopo di migliorare le condizioni di vita di ciascuno [11].
Lo stesso giorno, i servizi segreti sauditi e statunitensi hanno dato il segnale della risposta: il Movimento per la Fede, rinominato dai britannici Esercito di salvezza dei Rohingya dell’Arakan, diviso in 24 squadre d’assalto, ha attaccato diverse caserme dell’esercito e della polizia, causando 71 morti. Per una settimana le truppe birmane conducevano un’operazione anti-terroristica contro i jihadisti. 400 membri delle loro famiglie fuggivano in Bangladesh.
Tre giorni dopo, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha iniziato a chiamare tutti i capi di Stato dei paesi musulmani per avvisarli del «genocidio dei Rohingya». Il 1° settembre, il giorno della più importante festa musulmana, l’Eid al-Adha, ha pronunciato un vibrante discorso a Istanbul, nella sua attuale veste di presidente dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, al fine di salvare i Rohingya e sostenere il loro Esercito di salvezza [12].
Tre giorni dopo, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha iniziato a chiamare tutti i capi di Stato dei paesi musulmani per avvisarli del «genocidio dei Rohingya». Il 1° settembre, il giorno della più importante festa musulmana, l’Eid al-Adha, ha pronunciato un vibrante discorso a Istanbul, nella sua attuale veste di presidente dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, al fine di salvare i Rohingya e sostenere il loro Esercito di salvezza [12].
Tuttavia, questi jihadisti non hanno affatto difeso i Rohingya, ma sono intervenuti sistematicamente per sconfiggere i tentativi di migliorare le loro condizioni di vita e porre fine alle discriminazioni che li colpivano.
Il 5 settembre, il presidente del Consiglio del discernimento iraniano, Mohsen Rezaei, ha proposto di unire le forze di tutti gli Stati musulmani e di creare un esercito islamico per salvare i «fratelli Rohingya» [13].
Si tratta di una presa di posizione tanto più importante in quanto il generale Rezaei è un ex comandante in capo dei Guardiani della Rivoluzione.
Mentre l’esercito birmano aveva interrotto tutta l’attività nei confronti dei terroristi, diversi villaggi Rohingya venivano bruciati, mentre la popolazione rakhine dell’Arakan linciava dei musulmani, ai suoi occhi tutti legati ai terroristi. Secondo i Rohingya, era l’esercito birmano a bruciare i villaggi, mentre secondo l’esercito birmano erano i jihadisti a farlo. Gradualmente, tutti i Rohingya che vivevano nel nord dell’Arakan si sono rifugiati in Bangladesh, ma curiosamente non i Rohingya che vivono nel sud dello Stato.
Il 6 settembre, una delegazione ufficiale turca è andata in Bangladesh per distribuire cibo ai rifugiati. Era guidata dal ministro degli esteri Mevlüt Çavuşoğlu e dalla moglie e dal figlio del presidente Erdoğan, Bilal e Ermine.
La campagna di mobilitazione della comunità nei paesi musulmani si basa su immagini particolarmente impressionanti. Così questa fotografia viene diffusa dal governo turco. Dovrebbe rappresentare le vittime musulmane dei monaci buddisti in Birmania. È in realtà una vecchia fotografia di una cerimonia funebre delle vittime di un terremoto in Cina.
Nei paesi musulmani, una massiccia campagna di disinformazione garantiva, con fotografie a sostegno, che i buddisti massacravano in massa i musulmani. Naturalmente, nessuna di queste foto era stata scattata in Birmania, e queste false dichiarazioni sono state smascherate una dopo l’altra. Ma in quei paesi in cui la popolazione è scarsamente istruita, queste foto risultarono convincenti, mentre le smentite rimasero inascoltate. Solo il Bangladesh aveva riserve sul ruolo dei jihadisti e ha assicurato al Myanmar la sua cooperazione contro i terroristi [14].
L’11 settembre l’attuale Presidente dell’Organizzazione della Conferenza islamica (OIC), Recep Tayyip Erdoğan, è apparso davanti al comitato scientifico dell’Organizzazione riunito ad Astana (Kazakistan), che non ha competenza «per salvare i Rohingya».
Il giorno seguente, il 12 settembre, la Guida della Rivoluzione, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha preso una sua posizione. Molto preoccupato per la proposta del generale Rezaei, vigilava per delegittimare la guerra di religione in preparazione, lo “scontro di civiltà”, a parte mettere in discussione la presenza di una donna a capo di uno Stato. Stava pertanto cercando di chiudere la porta a un impegno militare dei Guardiani della Rivoluzione. E dichiarava: «È abbastanza possibile che il fanatismo religioso abbia svolto un ruolo in questi eventi, ma questo è un tema molto politico, in quanto è il governo di Myanmar a esserne responsabile. E alla testa di questo governo c’è una donna crudele, vincitrice del Premio Nobel per la Pace. In realtà, questi eventi hanno firmato il certificato di morte del Premio Nobel per la Pace» [15].
Subito a Teheran, il presidente sheikh Hassan Rohani ha invitato l’esercito regolare a partecipare al conflitto in preparazione. Il 17 settembre, i capi di stato maggiore iraniani e pakistani sono entrati in contatto per unire le loro forze nella crisi [16].
Si tratta della prima iniziativa militare, ma riguarda l’esercito iraniano (che sta già lavorando con i suoi omologhi turchi e pakistani per difendere il Qatar) e non dei Guardiani della Rivoluzione (che combattono a fianco dei siriani contro jihadisti). L’Iran fornisce anche massicci aiuti ai rifugiati.
Il 19 settembre, Erdoğan, ignorando le spiegazioni di Aung San Suu Kyi [17] e sfruttando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha convocato il gruppo di contatto dell’OIC per chiedere a tutti gli Stati membri di sospendere qualsiasi commercio con il Myanmar e chiedere al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di prendere una decisione [18].
Uscendo finalmente dall’ombra, l’Arabia Saudita ha affermato di sostenere discretamente i Rohingya da 70 anni e di aver già offerto loro 50 milioni di dollari di aiuti durante questo periodo. Il re Salman ha aggiunto una donazione di 15 milioni di dollari [19]. L’ambasciatore saudita alle Nazioni Unite a Ginevra, Abdulaziz bin Mohammed Al-Wassil, ha mobilitato il Consiglio dei diritti umani.
Dimenticando le guerre che stanno conducendo in Iraq, Siria e Yemen, la Turchia, l’Iran e l’Arabia Saudita, ossia le tre principali potenze militari musulmane, si sono rinsaldate attraverso un semplice riflesso comunitario [20] e si sono posizionate accanto ai Rohingya. Tutte e tre hanno designato il nemico comune: il governo della coalizione dell’esercito birmano e Aung San Suu Kyi.
Questa inversione completa della situazione in Medio Oriente ha già avuto un precedente: le guerre della Jugoslavia. In Bosnia-Erzegovina (1992-95) e Kosovo (1998-99), i paesi musulmani e la NATO hanno combattuto fianco a fianco contro i cristiani ortodossi legati alla Russia.
In Bosnia Erzegovina, il presidente Alija Izetbegović si attorniò dello statunitense Richard Perle, che lo consigliava diplomaticamente e guidava la delegazione bosniaca durante gli accordi di Dayton. Sul piano mediatico, beneficiava della consulenza del francese Bernard-Henri Lévy, a detta di costui, mai smentito. Infine, sul fronte militare, si appoggiava sui consigli del saudita Osama bin Laden, che organizzò per lui la Legione araba e ricevette un passaporto diplomatico bosniaco. Durante il conflitto, sostenuto dalla NATO, Izetbegović ha ricevuto pubblicamente il sostegno della Turchia, dell’Iran e dell’Arabia Saudita [21].
Il conflitto kosovaro ha avuto inizio con una campagna terroristica dell’esercito di liberazione del Kosovo (UÇK) contro Belgrado. I combattenti sono stati addestrati da forze speciali tedesche su una base della NATO in Turchia [22].
L’attuale capo del servizio segreto turco, Hakan Fidan, era l’ufficiale di collegamento con i terroristi in seno allo stato maggiore della NATO. Ora è il capo del MIT, l’intelligence turca, ed è il numero due del regime. All’inizio della guerra, 290mila kosovari scapparono dalla Serbia per tre giorni per cercare rifugio in Macedonia. I televisori occidentali mostrarono a piacimento questa lunga fila di fuggitivi che camminavano lungo una linea ferroviaria. Tuttavia, secondo i pochi milioni di macedoni che li hanno ricevuti, non esisteva alcuna ragione oggettiva per questa migrazione, ampiamente controllata dalla NATO. Poco importa: questo spostamento di popolazione è stato usato per accusare il presidente Slobodan Milošević di reprimere in modo sproporzionato la campagna terroristica che colpiva il suo paese e la NATO gli dichiarò guerra senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
Il lavoro sporco che si sta preparando estende il teatro delle operazioni verso Oriente. Il Pentagono non ha la possibilità di imporre un’alleanza turco-iraniano-saudita, ma non ne ha bisogno. In Jugoslavia, questi tre Stati sono stati coordinati dalla NATO per quanto non avessero contatti diretti. Tuttavia, combattere fianco a fianco in Birmania li costringerà a trovare accordi in Iraq, Siria e Yemen; e perfino in Libia. Considerando la devastazione del Medio Oriente e la perseveranza delle popolazioni nel resistere, il Pentagono può lasciare questa regione a guarire le sue ferite per un decennio senza temere di vedere sorgere la minima capacità di opposizione alla sua politica.
All’indomani della riunione del Consiglio di Sicurezza che ha posto le basi per la guerra futura contro la Birmania, il segretariato di stato ha informato il presidente Barzani che gli Stati Uniti non sostengono l’indipendenza di un Kurdistan in Iraq. Il Pentagono non può in effetti mobilitare la Turchia e l’Iran nel sud-est asiatico e nel contempo mettersi a fregarli proprio a ridosso delle loro frontiere. Ma’sud Barzani, che si era impegnato senza lasciarsi vie di uscita per il referendum sull’indipendenza, dovrebbe presto ritirarsi dalla vita politica. Soprattutto dal momento che l’esposizione delle bandiere israeliane a Erbil, massicciamente trasmessa dai canali televisivi arabi, persiani e turchi, gli ha alienato tutti i suoi vicini.
Se lo scenario del Pentagono continua così come lo possiamo anticipare, la guerra contro la Siria dovrebbe finire a causa della mancanza di combattenti, partiti per andare lontano, a servire “l’Impero americano” in un nuovo teatro operativo.
Thierry Meyssan
NOTE
[1] Fonte: The Pentagon’s New Map, Thomas P. M. Barnett, Putnam Publishing Group, 2004. Analisi: «Gli Stati Uniti e il loro progetto militare mondiale», di Thierry Meyssan, Haïti Liberté (Haiti) , Rete Voltaire, 22 agosto 2017.
[2] « Myanmar : le Secrétaire général demande “une action rapide” pour mettre fin au”cauchemar” des Rohingya dans l’État de Rakhine », Compte-rendu du Conseil de sécurité, Onu, 28 septembre 2017. Référence : CS/13012.
[3] Il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno già fatto redigere l’atto d’accusa contro il Myanmar, persino prima degli eventi attuali: Countdown to Annihilation: Genocide in Myanmar, Penny Green, Thomas MacManus, Alicia de La Cour Venning, Queen Mary University of London, 2016. Persecution of the Rohingya Muslims ; Is Genocide Occurring in Myanmar’s Rakhine State; a Legal Analysis, Allard Lowenstein, Yale University, 2016.
[4] « Birmanie : la sollicitude intéressée des États-Unis », par Thierry Meyssan, Abiad & Aswad (Syrie), Réseau Voltaire, 5 novembre 2007.
[5] The Burma Spring : Aung San Suu Kyi and the New Struggle for the Soul of a Nation, Rena Pederson, Foreword by Laura Bush, Pegasus, 2015.
[6] Neither Saffron Nor Revolution : A Commentated and Documented Chronology of the Monks’ Demonstrations in Myanmar in 2007 and Their Background, Hans-Bernd Zöllner, Humboldt-University, 2009.
[7] Burma/Myanmar : What Everyone Needs to Know, David Steinberg, Oxford University Press, 2013.
[8] Pour être plus précis, il y a eu des immigrés bengalis en Birmanie avant la domination britannique, mais l’immense majorité des Rohingyas descend des travailleurs déplacés par les colons. NdA.
[9] “Myanmar’s Rohingya insurgency has links to Saudi, Pakistan”, Simon Lewis, Reuters, December 16, 2016.
[10] “Speech by Aung San Suu Kyi at 71st UN General Assembly”, by Aung San Suu Kyi, Voltaire Network, 21 September 2016.
[11] Towards a peaceful, fair and prosperous future for the people of Rakhine, Advisory Commission on Rakhine State, August 2017.
[12] “We won’t Leave Rohingya Muslims Alone”, Presidency of the Republic of Turkey, September 1, 2017.
[13] “Rezaei urges Muslim states to defend Rohingya Muslims”, Mehr Agency, September 6, 2017.
[14] “Bangladesh offers Myanmar army aid against Rohingya rebels”, AFP, August 29, 2017.
[15] « Myanmar : le Guide critique les défenseurs des droits de l’homme », Leader.ir, 12 septembre 2017.
[16] “Iranian, Pakistani Top Military Commanders Stress Need for Ending Myanmar Muslims’ Plights”, Fars News, September 17, 2017.
[17] “Aung San Suu Kyi speech on National Reconciliation and Peace”, by Aung San Suu Kyi, Voltaire Network, 19 September 2017.
[18] «OIC Contact Group on Rohingya calls for UN Resolutionon Myanmar», Organisation of Islamic Cooperation, September 19, 2017.
[19] «Le Serviteur des Deux Saintes Mosquées accorde un don de 15 millions de dollarsaux réfugiés Rohingyas», Saudi Press Agency, September 19, 2017.
[20] The Rohingyas : Inside Myanmar’s Hidden Genocide, Azeem Ibrahim, Hurst, 2016.
[21] Comment le Djihad est arrivé en Europe, Jürgen Elsässer, préface de Jean-Pierre Chevènement, éditions Xenia, 2006.
[22] «L’UÇK, une armée kosovare sous encadrement allemand», par Thierry Meyssan, Notes d’information du Réseau Voltaire, 15 avril 1999.
Traduzione a cura di Matzu Yagi.