di Gabriele Repaci.
Il recente attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani ha riportato l’Iran al centro del dibattito internazionale, insieme ai soliti cliché che lo dipingono come un regime oppressivo, una prigione per donne e minoranze, un paese impermeabile alla modernità. È una narrazione comoda, netta, utile a sostenere lo scontro politico e ideologico. Ma, come spesso accade, è anche profondamente sbilanciata. Se si guarda con attenzione e senza pregiudizi, l’Iran rivela un’altra verità: una realtà complessa, piena di contraddizioni, dove coesistono spinte modernizzatrici e rigidità tradizionali, autorità religiose e forme di partecipazione popolare.
Il sistema istituzionale della Repubblica islamica non è facilmente classificabile. Non è una democrazia liberale, ma nemmeno una dittatura. È un ordinamento ibrido, unico nel suo genere, in cui poteri religiosi e meccanismi di legittimazione popolare si intrecciano in modo sofisticato. Al vertice si trova la Guida Suprema, figura che esercita un’influenza estesa, ma che non è del tutto sciolta da vincoli: viene nominata da un Consiglio degli Esperti, eletto a suffragio universale, che ha il potere – teorico ma esistente – di revocarla. A sua volta, il Consiglio dei Guardiani, che vigila sulla conformità delle leggi ai principi islamici e filtra i candidati alle elezioni, è composto per metà da membri nominati dalla Guida, per metà da giuristi scelti dal potere giudiziario. Quando i poteri dello Stato entrano in conflitto, un’ulteriore istituzione – l’Assemblea per la Determinazione dell’Interesse – interviene per dirimere le controversie.
Non si tratta di un sistema liberale secondo i canoni occidentali, ma neppure di un blocco rigido e immobile: è un assetto originale, stratificato, che combina elementi religiosi e forme di partecipazione in modo unico nel suo genere. Esiste un Parlamento eletto, una Presidenza espressa dal voto dei cittadini, e un equilibrio tra istituzioni religiose e rappresentanze civili che, per quanto imperfetto, funziona secondo logiche proprie, spesso sottovalutate o ignorate all’estero.
Un altro dei grandi equivoci riguarda la condizione femminile. Se è vero che le donne iraniane sono sottoposte a obblighi – come quello del velo – e incontrano limiti in alcuni ambiti della vita pubblica, è altrettanto vero che il loro livello di istruzione, partecipazione e mobilità sociale smentisce la narrazione di una condizione uniforme di oppressione. Le iraniane oggi sono tra le più istruite del mondo islamico: il 97% è alfabetizzato, oltre il 60% delle lauree è conseguito da donne, e il 70% di queste in discipline scientifiche. L’attenzione all’istruzione, del resto, non riguarda solo le donne adulte: la scuola è gratuita e obbligatoria fino ai quattordici anni, bambini e bambine frequentano regolarmente, il lavoro minorile è vietato e, nelle grandi città, il livello medio d’istruzione è tra i più alti dell’Asia. Non sorprende, quindi, che molte donne partecipino attivamente alla vita pubblica, allo sport, alla ricerca accademica. Alcune si distinguono in settori tradizionalmente maschili, come le corse automobilistiche. Molte insegnano arti marziali nei quartieri popolari. È una realtà contraddittoria, ma viva, dinamica, che non si lascia ridurre al solo hijab.
Anche sulla questione dei diritti civili si tende a generalizzare. Le leggi sull’omosessualità sono effettivamente durissime e prevedono sanzioni severissime, ma nella pratica la loro applicazione è estremamente rara, poiché subordinata a requisiti probatori quasi impossibili da soddisfare: servono quattro uomini (o, alternativamente, otto donne) che abbiano assistito direttamente all’atto sessuale, e le loro testimonianze devono essere identiche e simultanee. Questo fa sì che, al di là dei casi clamorosi, la repressione vera e propria sia molto meno sistematica di quanto si creda. In parallelo, lo Stato riconosce – e in parte finanzia – gli interventi di riassegnazione del sesso. I transgender hanno accesso a documenti coerenti con la loro identità di genere e, in molti casi, trovano persino ascolto da parte di autorità religiose. Un esempio è il Ḥojjatoleslām Muhammad Mehdi Kariminya, figura di riferimento per molte persone trans iraniane, noto per le sue posizioni inclusive. Un paradosso? Sì, ma reale e radicato nel contesto locale.
Le religioni non islamiche sono presenti e attive: cristiani, ebrei e zoroastriani hanno rappresentanza in parlamento, godono di libertà di culto e dispongono di propri luoghi sacri, soprattutto a Teheran. Il pluralismo confessionale, pur limitato, non è affatto inesistente.
Persino sulla sessualità e sui rapporti di coppia esistono istituti giuridici che sfidano la logica occidentale. Il sigheh, ovvero il matrimonio temporaneo previsto dal diritto islamico sciita (conosciuto in arabo come nikah mutʿah), è una formula legale che consente di formalizzare relazioni intime per un periodo determinato, evitando così le sanzioni previste per il sesso al di fuori del matrimonio. Per quanto possa apparire inusuale agli occhi occidentali, questa forma di unione ha un ruolo socialmente e giuridicamente riconosciuto: offre una certa autonomia e riservatezza, spesso apprezzate da donne vedove, divorziate o economicamente autonome. È una forma di regolazione della sessualità che si inserisce in una cornice religiosa, ma con una certa dose di pragmatismo.
Infine, il mito dell’autarchia economica crolla di fronte a un dato semplice: a Teheran esiste una Borsa valori, attiva dagli anni ’60, con centinaia di aziende quotate, molte delle quali frutto di privatizzazioni. Il mercato, seppur regolato e limitato, è presente. Il sistema economico iraniano è fortemente statalizzato, ma non immune da logiche imprenditoriali, e guarda con interesse a investimenti, capitali, sviluppo tecnologico. Anche questo è Iran.
In definitiva, ciò che emerge è un paese contraddittorio, in cui rigidità e aperture si intrecciano senza seguire schemi facilmente decifrabili. Un paese dove il diritto religioso convive con l’università laica, dove la morale pubblica è rigida ma la cultura è vivace, dove la poesia medievale cantava l’amore tra uomini e dove oggi le donne guidano rally, insegnano fisica quantistica e praticano kickboxing nei sobborghi.
L’Iran non è un blocco monolitico, non è una teocrazia nel senso occidentale del termine, non è una caricatura. È una nazione con un’identità storica forte, un sistema politico originale, una società giovane, colta e spesso insofferente. Raccontarlo in modo onesto non significa assolverlo da ogni responsabilità, né giustificarne le repressioni. Significa, semplicemente, riconoscerne la complessità. Che è sempre il primo passo per capirlo davvero.
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