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Lo Spettacolo tra nuovi media e valorizzazione

Proprio come lo spettacolo è assai più dell’insieme dei mass media, così le piattaforme come Facebook non sono mezzi di comunicazione nel senso tradizionale del termine. [R. Sciortino, S. Wright]

Lo Spettacolo tra nuovi media e valorizzazione
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23 Marzo 2018 - 11.00


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di Raffaele Sciortino e Steve Wright

ll capitalismo è un sistema di relazioni che vanno dall’interno verso l’esterno,
dall’esterno verso l’interno, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto.
Tutto è relativo, tutto è in catene.
Il capitalismo è una condizione sia del mondo che dell’anima
(Franz Kafka, in Janouch 1971,151–2).

 

Gli anni Sessanta sono stati un laboratorio di rivolta sociale diffusa e innovazione teorica. È passato mezzo secolo da quel decennio che ha visto, tra l’altro, apparire alcuni testi chiave volti a decifrare la natura delle moderne relazioni sociali capitalistiche. Operai e capitale di Mario Tronti e, seppure assai diversi, la raccolta francese Lire le Capital e il testo di Jacques Camatte sul Sesto capitolo inedito del Capitale sono stati da allora fonti di ispirazione nello sforzo di comprendere il capitale e il modo migliore per distruggerlo. In termini di ampio impatto immediato, tuttavia, il posto d’onore spetta certamente a La Sociétè du Spectacle di Guy Debord, un libro tradotto in una dozzina di lingue nel periodo immediatamente successivo al Maggio francese. La società dello spettacolo è un testo che continua ad affascinare, non da ultimo nell’era di Internet. Né può essere una coincidenza se, caduti nell’ombra con la sconfitta dell’ondata di lotte internazionali post-1968, Debord e i suoi compagni situazionisti sono stati riscoperti proprio negli anni Novanta, un decennio segnato sia dal crollo del socialismo reale sia dall’ascesa del World Wide Web.

Anche se Debord è scomparso proprio quando il Web iniziava la sua irresistibile ascesa, il suo testo è stato considerato da tutta una serie di commentatori come un’anticipazione visionaria del capitalismo digitale globalizzato. Come ha sostenuto John Harris (2012):

quando Debord scrive “dietro le maschere della libera scelta, diverse forme della stessa alienazione si confrontano”, io penso ai social media e al rumore di fondo di gran parte della vita che passiamo online. Tutto sommato, il libro è una raccolta di frasi che descrivono qualcosa di semplice ma profondo: il modo in cui tutto ciò che consumiamo – e, se non stiamo attenti, la maggior parte di ciò che facciamo – incarna una miscela di distrazione e rinforzo che serve a riprodurre il modello di società e di economia che ha portato l’idea dello spettacolo a un limite estremo, quasi surreale.

O, come ha scritto l’ex situazionista Timothy Clark (1998, x), “il fatto che i mondi immaginati da Debord abbiano così tanto in comune con quelli dei suoi avversari è potenzialmente il suo punto di forza. È ciò che permette a La società dello spettacolo di incombere come uno spettro sul non-mondo del cyberspazio”.

Ma le cose non sono così semplici. Va sottolineato che Debord non identifica semplicemente lo Spettacolo con i mass media, al contrario, concentra l’attenzione su un sistema di relazioni sociali in cui “la contemplazione passiva di immagini, che per giunta sono state scelte da altri, sostituisce il vivere e il determinare gli eventi in prima persona” (Jappe 1999, 12). Pertanto, lo Spettacolo non è “un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini” (Debord 1997, 54). Lavorando sui meccanismi che consolidano il dominio del capitale sul mondo moderno, Debord sostiene che “lo spettacolo è una guerra dell’oppio permanente per far accettare l’identificazione dei beni alle merci” (71). Letti in questa prospettiva, i social media offrono alla riflessione critica un campo in cui esplorare queste complesse operazioni di confine nell’era del tardo capitalismo, la possibilità di mettere al centro la relazione tra produzione e consumo online, tra “attività libere” e processo di valorizzazione capitalistico.

Proprio come lo spettacolo è assai più dell’insieme dei mass media, così le piattaforme come Facebook non sono mezzi di comunicazione nel senso tradizionale del termine. Secondo un’interpretazione

Facebook offre alle agenzie pubblicitarie la promessa di un rinnovo continuo dell’insieme di relazioni, interfacce e coinvolgimento dei consumatori. I social media sono cruciali nel tentativo di incantare consumatori in fuga dalle astrazioni e alienazioni della moderna società dei consumi e dalla pubblicità tradizionale… Le diverse esperienze di e su Facebook sono al tempo stesso intense e banali, creative e impoverenti, come se si nutrissero di dettagliatissimi inviti d’acquisto per e-mail della Società dello spettacolo di Guy Debord avvolta nella copertina della Vita quotidiana di Michel de Certeau” (MacRury 2013, 370-1).

A nostro avviso, la specificità dei social media, nel più ampio contesto dell’attuale capitalismo di rete, se si vuole usare questo termine, sta nella sua capacità di combinare – economicamente, tecnologicamente, antropologicamente – una nuova forma di appropriazione di valore attraverso il “dono gratuito” (free gift) dell’attività degli utenti espletata (prevalentemente, se non esclusivamente) nell’ambito della loro riproduzione sociale. Riflettere sui termini del dibattito che verte sulle modalità di questa appropriazione, permette altresì di chiedersi in che misura la prospettiva di Debord delineata ne La società dello spettacolo continua a essere utile per capire cosa è nuovo e cosa al contrario rimane invariante nell’attuale processo di accumulazione capitalistico.

Pensieri preliminari su Debord

Nel presentare la sua nozione di Spettacolo, Debord (1997, 56) punta a leggere il significato del dominio capitalista in termini di totalità. Onnipervasivo anch’esso nel suo dominio, lo Spettacolo “copre l’intera superficie del mondo e si bagna indefinitamente nella sua gloria”. Come descrive dettagliatamente il secondo capitolo dell’opera di Debord, il regno dello spettacolo a sua volta corrisponde all’occupazione totale della vita da parte della forma-merce: “non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede più che quello: il mondo che si vede è il suo mondo”(70). In una delle migliori introduzioni al lavoro di Debord, Anselm Jappe (1999, 28-41) chiarisce il debito debordiano con Storia e coscienza di classe. Nel suo classico testo del 1923, Georgy Lukács (1978, 13-4) afferma che le componenti specifiche della società sono realmente comprese

solo nelle modificazioni subite dalla loro funzione nel processo complessivo della storia, dal loro rapporto con l’intero della società… Questa considerazione dialettica della totalità… è l’unico metodo per cogliere la realtà e riprodurla nel pensiero.

In modo simile, Debord sostiene che solo afferrando la totalità delle relazioni sociali capitalistiche il proletariato può sperare di distruggerle. Entrambi gli autori concordano sul fatto che un’unica classe ha la possibilità di cogliere la totalità, dato che la condizione proletaria è alla base della società capitalista nel suo insieme. Riprendendo Marx, Debord (1997, 183) conclude La società dello spettacolo riaffermando lo statuto peculiare del proletariato come “la classe che è in grado di divenire la dissoluzione di tutte le classi”, e quindi la dissoluzione della stessa società di classe. Jappe (1999, 26) ha ragione a notare che “l’aspetto più attuale del pensiero di Debord è di essere stato tra i primi a interpretare la situazione odierna alla luce della critica marxiana del valore”. Ciò nonostante, colpisce la scarsa attenzione con cui Debord si rivolge – almeno ne La società dello spettacolo – ai processi specifici attraverso cui il valore viene prodotto in quanto tale. Invece, il suo focus è sui modi in cui la vita di tutti gli individui si è subordinata alla merce e alla sua logica:

In tutte le sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto di distrazioni, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante. Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo conseguente… occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna. (Debord 1997, 54).

Per altro verso – come chiarirà qui di seguito la discussione sulle diverse spiegazioni della produzione e/o estrazione di valore nei social media – l’istanza di totalità che Debord rivendica permette di affrontare questioni fondamentali attinenti il dominio capitalistico altrimenti trascurate. Come cercheremo di mostrare, c’è un prezzo da pagare se il circuito del valore é letto principalmente attraverso quella che potremmo chiamare una prospettiva da Capitale Volume Primo, che nella fattispecie interpreta le attività degli utenti dei social media come un momento suppletivo del processo immediato di produzione. Un approccio, pensiamo, che porta a ignorare il fatto che l’autovalorizzazione del capitale necessita di numerose attività umane, le quali non sempre assumono la forma del lavoro salariato. Per usare le parole di Jason W. Moore (2014, 38), “il valore funziona solo nella misura in cui la maggior parte del lavoro non diventa valore”. Afferrare questo significa, quindi, recuperare la prospettiva della totalità portata avanti da Debord che, certo in modo peculiare, ha scelto di seguire Marx (1980, Vol. III) nell’esplorazione critica del “processo di produzione capitalistico come un tutto”.

Debord stesso è peraltro esplicito nell’affermare che il proletariato non può essere ridotto al salariato (tanto meno ai soli lavoratori produttivi) comunque definito1. Di più, la totalizzazione della forma-merce ha reso oramai cruciale la sfera della riproduzione sociale in tutta la sua articolazione – ovvero, l’ambito che Marx poteva ancora presupporre come un dato relativamente neutrale, risulta ora posto dalla stessa produzione capitalistica conformemente al suo concetto. Spettacolo comprende -con l’estendersi del feticismo della merce mediato da immagini sì da ricoprire ogni accesso alla “realtà”, e disconnettendo i soggetti dalla loro esperienza vitale- quei processi della riproduzione sociale la cui fenomenologia concreta è oramai sotto gli occhi di tutti. Tendenziale riduzione dell’esperienza a immagine digitalizzata che ricorre alle macchine di rete per farsi “sociale”. Mondo visto, e non vissuto, nel senso di non prodotto dai soggetti. Realtà fagocitata dall’apparenza, che diviene la sola realtà. La cosiddetta società dei consumi corrisponde insomma alla mercificazione totale della vita sociale. È la sfera dell’attività umana “separata” che lo spettacolo unifica ma in quanto separata: la produzione alienata si rovescia in socialità compensativa con una “reintegrazione controllata” (Debord 1997, 153) che ruota intorno al valore di scambio come nuovo valore d‘uso. “Nell’immagine dell’unificazione felice della società mediante il consumo, la divisione reale è soltanto sospesa… troppo tardi rivela la sua povertà essenziale, che gli deriva naturalmente dalla miseria della sua produzione” (84). Sopravvivenza aumentata, vita diminuita.

Il dibattito sulla produzione di valore nei social media e le sue implicazioni

Nell’ultimo decennio, l’uso dei social media è oramai diventato pratica quotidiana per centinaia di milioni di individui. Facebook, ad esempio, è una piattaforma che al momento può vantare ben più di un miliardo di “utenti attivi” a scala globale (Statista 2016). A sua volta, questo livello di coinvolgimento costituisce la base dell’enorme ricchezza dell’azienda. Nei primi mesi del 2016, la rivista Fortune ha riportato che Facebook aveva sostituito Exxon al quarto posto della lista delle aziende più capitalizzate al mondo (Zillman 2016; Forbes 2016).

Anche se ovviamente non copre tutto il dominio dei social media, Facebook è comunque un caso interessante per considerare la relazione tra piattaforme online e valorizzazione. Allo stato, diverse sono le spiegazioni relative alla fonte della massiccia accumulazione di capitale di questa impresa nell’ultimo decennio. Tra chi è impegnato a sviluppare una critica dell’economia politica il dibattito è senza dubbio vivace, con posizioni anche molto diverse. Ad esempio, secondo Michel Bauwens (2012), Facebook crea un “pool di condivisione e collaborazione attorno alla piattaforma – cioè un’attività che incentivata, inquadrata e controllata crea a sua volta un bacino di attenzione. È proprio questo che viene venduto agli inserzionisti”. Pur dando una lettura diversa, Jakob Rigi e Robert Prey (2015, 396) concordano con Bauwens sul fatto che la fonte della ricchezza della multinazionale sta nella rendita derivante dalla pubblicità: “Il denaro pagato dagli inserzionisti a questo media può forse essere meglio inteso come uno scambio tra rendita e la speranza di generare maggiori vendite future”. In contrasto con queste letture la tesi più ambiziosa sulla relazione tra Facebook e la produzione di valore è stata avanzata da Christian Fuchs, il cui approccio ha il vantaggio di fare i conti con il lavoro svolto dagli utenti che accedono al sito. Nel suo libro del 2014 Digital Labor and Marx come in altri articoli, Fuchs insiste sul fatto che sono diversi i modi in cui questa attività viene trasformata in valore per l’azienda: generando “socialità” e “dati come merce” che possono essere venduti agli inserzionisti, e creando così ”valore sotto forma di tempo online, che non è altro che tempo di lavoro’ (Fuchs 2014b, 4). Infatti:

Più tempo un utente passa su Facebook, più dati che lo concernono vengono generati e poi offerti come merce ai clienti inserzionisti. Lo sfruttamento si dà in questo processo di mercificazione e produzione (Fuchs 2014a, 276).

Fuchs ne conclude che “il lavoro di Facebook crea merci e profitti … dunque è lavoro produttivo” (263). È vero che è un genere insolito di lavoro produttivo, nel senso che è

lavoro non retribuito … lavoratori non retribuiti creano più plusvalore e profitto che in una situazione in cui il loro lavoro sarebbe regolarmente pagato. Il cento per cento del loro tempo di lavoro è tempo di pluslavoro che consente ai capitalisti di generare plusvalore extra e sovraprofitti (119).

In quella che è certamente la sua argomentazione più caratteristica, la cui fondatezza i lettori valuteranno da sè, Fuchs (2015: 114) sostiene che

Il lavoro eseguito dagli utenti di Facebook entra nel processo di accumulazione del capitale di altre società nel campo della circolazione, dove le merci C’ sono trasformate in capitale monetario M’ (C ‘- M’). Il lavoro degli utenti di Facebook è un equivalente online del lavoro adibito al trasporto delle merci: le loro attività online contribuiscono a trasferire a se stessi promesse di valori d’uso. Marx considerava i lavoratori dei trasporti come lavoratori produttivi della circolazione. Gli utenti di Facebook sono lavoratori produttivi della circolazione online che organizzano la comunicazione di messaggi pubblicitari su Internet.

Ora, è importante sottolineare come, da questa ricostruzione sommaria delle letture critiche della dimensione accumulativa nei social media, emergono tutti gli aspetti cruciali della questione ma separati e giustapposti, non ricompresi in un (tentativo di) ricostruzione del rapporto complessivo di capitale, comprensivo altresì del lato soggettivo. Se letture a là Fuchs non vedono il capitale sociale complessivo se non come una somma di singole imprese (al cui livello si pone il problema del profitto) perdendo economicisticamente il salto qualitativo al nesso sistemico riproduttivo – le letture incentrate sul meccanismo della rendita si approssimano al cuore del problema ma tendono a non vedere le peculiarità delle nuove forme di estrazione di valore in rete rimuovendo le attività umane che vi stanno dietro. La difficoltà rimanda, oltre che alla relativa novità del fenomeno, al fatto che nella ricognizione analitica delle diverse dimensioni, di carattere sociologico o culturale o economico in senso stretto, è già implicata, volenti o nolenti, una data lettura categoriale della forma-valore con una data modalità di risalita “dall’astratto al concreto” nella ricostruzione dei diversi ma intrecciati momenti della totalità capitalistica.

La nostra tesi2, come anticipato, è che la specificità dei social media, nel quadro più complessivo del “capitalismo della rete”, sta nel combinare -economicamente, tecnologicamente, antropologicamente- una nuova forma di appropriazione senza produzione in proprio di valore (rendita, con caratteristiche in parte nuove) con il free giftdell’attivazione gratuita degli utenti (soprattutto anche se non esclusivamente) nella sfera della propria riproduzione sociale. Senza negare che siamo di fronte a un box complesso, in cui si intrecciano e spesso sovrappongono dimensioni e livelli differenti del circuito del capitale – crediamo che l’analisi non debba perdere di vista che il modello di business prevalente dei social media è dato dall’advertising che, come diversi autori hanno messo in luce in un’ottica che assume o si avvicina al punto di vista della riproduzione sociale complessiva3, si basa su un trasferimento di valore da altri settori del capitale. Più precisamente, una parte del plusvalore prodotto dal capitale industriale e girato come faux frais della produzione ai circuiti commerciali (in cui l’advertising rientra) viene ulteriormente stornato sotto forma di rendita alle piattaforme proprietarie dei social media.

L’obiettivo del nostro contributo non è però di offrire qui un’argomentazione articolata e una rappresentazione analitica di questa tesi, quanto di proporre alla discussione critica alcune ipotesi euristiche o perlomeno di richiamare l’attenzione su una serie di nodi implicati dall’approccio proposto e che sarebbe utile ulteriormente indagare. Ne indichiamo tre.

In primo luogo, il trasferimento di valore ai social media proprietari operato in condizioni di quasi monopolio prevalentemente sul capitale commerciale delle imprese di advertising è reso possibile da due condizioni generali. Da un lato, ovviamente, la rete come organizzazione delle macchine digitali, le quali operano una peculiare automazione conservando e rielaborando automaticamente le tracce dei processi precedenti grazie alla ricorsività del dispositivo algoritmico (Zuboff 1988). È ciò che permette, tra le altre cose, la profilazione via metadati degli utenti e dunque l’offerta mirata di spazi di advertisement. Dall’altro, l’offerta di nuovi spazi di rete “recintati” si basa sull’attrazione di users attraverso servizi gratuiti che rendono possibili comunità sociali online. È questa espropriazione del free giftdella socialità scambiata in rete che permette di risucchiare valore da altri settori capitalistici sotto forma di rendita. Va notato, di passaggio, come Debord abbia saputo anticipare, partendo da un’analisi della totalizzazione del rapporto sociale capitalistico, la tendenza a una socialità tutta finalizzata a un’integrazione nel sistema di individui “isolati insieme”: “l’impiego generalizzato dei ricevitori del messaggio spettacolare fa sì che il suo [dell’individuo isolato] isolamento si ritrovi popolato delle immagini dominanti, immagini che per questo isolamento soltanto acquistano la loro piena potenza” (Debord 1997, 153). Una potenza che attendeva “solo” la macchina adeguata. A riprova che, contro ogni determinismo tecnologico, è il rapporto sociale a predisporre le condizioni successivamente soddisfatte dall’evoluzione tecnologica, e non viceversa.

Ora, le peculiarità di questa enclosure e del tipo di attività messa in atto dagli utenti online è l’elemento che andrebbe messo maggiormente sotto la lente di ingrandimento – ciò che invece non fa la maggior parte dei sostenitori della “tesi rendita”, ritenendolo probabilmente un elemento “extra-economico” ma ricadendo così, sotto questo aspetto, al di sotto sia delle tesi “operaiste” (da I Volume del Capitale) che almeno tematizzano l’attività degli utenti seppur eguagliandola troppo in fretta al lavoro produttivo, sia delle tesi post-operaiste che la leggono come “free labour” gettandola nel calderone indeterminato della cooperazione multitudinaria resasi presuntamente autonoma dal capitale4. Proprio su questo terreno si rende evidente la questione del sempre più stretto intreccio tra circuito complessivo del capitale e “circuito” della riproduzione del proletariato con ricadute sulla costituzione della sua soggettività. Gli users infatti possono essere “usati” dalle piattaforme proprietarie perché, da un lato, le attività relative alla riproduzione sociale – di cui la socialità online è una forma, insieme al lavoro di cura, alla formazione, ecc. – sono da tempo sottoposte a processi di “lavorizzazione” che le “industrializzano” rendendole tendenzialmente analoghe, nelle modalità concrete di erogazione e organizzazione, al lavoro industriale (a sua volta, come noto, notevolmente trasformato dai processi di digitalizzazione, flessibilizzazione, ecc.) ed estinguendone le modalità “artigianesche”, ideative esecutive e formative5. Dall’altro, e conseguentemente, esse possono essere sottoposte a processi di sussunzione alle macchine tele-combinate, ovvero alla codificazione digitale dell’esperienza vitale e ai meccanismi algoritmici, così come tendenzialmente avviene per ogni attività di consumo in senso lato. È evidente come, anche sotto questo aspetto, lo spettacolo correttamente inteso in senso debordiano si è enormemente ampliato, e il processo pare tutt’altro che vicino alla conclusione, senza che ciò significhi necessariamente equiparazione immediata di queste attività riproduttive “lavorizzate” al lavoro propriamente produttivo di valore6 così come dei loro prodotti-servizi a merci contenenti valore7. Il che, sia detto di sfuggita, pone in nuova, inedita luce la classica e controversa questione del rapporto tra sussunzione formale e reale del lavoro sotto il capitale estendsa alle attività riproduttive, nel mentre grazie ai dispositivi digitali tende a sfumare il netto discrimine tra controllo diretto e indiretto da parte del capitale8.

In secondo luogo, se il riferimento alla teoria marxiana della rendita, purchè collocato in una lettura della riproduzione complessiva del capitale, è fondamentale per interpretare i processi accumulativi nei social media, è però vero che questo tipo di rendita non ricalca esattamente le forme note ma presenta aspetti inediti da approfondire. In effetti, ci troviamo di fronte a enclosures, per così dire, di secondo grado che sono già costruzioni sociali umane intessute di capitale infrastrutturale e sottomesse all’obbligo di innovazione tecnologica continua. Lo “spazio” offerto all’advertising fonte di rendita qui deve captare l’attenzione della mente umana inserita in un ambiente combinato con macchine e mezzi pienamente sussunti al capitale. Per questo è forse possibile e utile riconoscere che i social media proprietari attuano in proprio anche degli investimenti di capitale, finalizzati non a una qualche produzione ma appunto al lavoro di “recinzione” dal quale traggono la rendita. Ciò avviene, da un lato, con l’appropriazione pressochè gratuita dei risultati del lavoro (cognitivo) “generale” (Marx) altamente qualificato, che sviluppa algoritmi e software, un lavoro che pur privatizzato non sta in rapporto con il tempo di lavoro astratto e quindi non produce valore ma è un free gift per il capitale che permette, appunto, le nuove recinzioni9. Dall’altro, si dà attraverso il lavoro di “manutenzione” fornito da lavoro cognitivo salariato applicativo che processa informazioni, il che fa rientrare parzialmente le piattaforme dei social media dentro il capitale commerciale (di cui riducono i costi principalmente grazie ai metadati prodotti automaticamente dalle attività degli users, che vanno a sostituire per la maggiore efficacia di target le ricerche di mercato). Comunque sia, l’aspetto di novità fondamentale resta che gli spazi di rendita vengono alimentati dalla peculiare attività riproduttiva degli users, un’attività non di mera sopravvivenza che attesta contraddittoriamente sia il raggiunto livello, oramai, di quello che Marx chiamava l’ “individuo sociale” sia la sua sussunzione sotto lo Spettacolo.

Un terzo nodo della questione è relativo allo stretto rapporto tra le altissime concentrazioni di capitale comunicativo in rete e le incredibili capitalizzazioni di borsa delle principali piattaforme proprietarie. Non è qui possibile ovviamente entrare nel merito, ma è evidente che questo aspetto non può essere sviscerato criticamente senza ricorrere alla categoria marxiana di “capitale fittizio” (Marx) il cui sviluppo caratterizza, secondo le letture marxiste più approfondite del fenomeno, non una escrescenza “speculativa” ma la nuova normalità dell’accumulazione capitalistica della fase comunemente definita “neoliberale”, strettamente legata non solo all’intreccio tra borse e banche centrali ma anche alle dinamiche geopolitiche (come è evidente, per esempio, dalla cooperazione tra social media e soft power dell’imperialismo statunitense) (Goldner 2012). Nessuna possibilità, dunque, di separare l’aspetto “parassitario” della rendita contrapponendolo a quello presuntamente “sano” del lavoro produttivo e del profitto.

In sintesi, un’analisi critica dei social media conferma che leggere il capitale come rapporto di classe feticistico richiede di tematizzare sia la riproduzione sistemica capitalistica sia la riproduzione sociale del proletariato, nel loro convergere (sussunzione non solo del lavoro ma tendenzialmente di tutte le attività sotto il capitale senza che sia necessario ridurle tutte a lavoro salariato) ma anche nel costituire terreno di contraddizioni e potenziali antagonismi. La nostra lettura di Debord, infatti, non esita affatto nell’apparenza di uno “spettacolo integrato” che ci terrebbe in pugno senza vie d’uscita. E questo è possibile a partire dal fatto che non ogni merce ha un valore, non ogni lavoro può essere ridotto a lavoro produttivo10, il tempo di lavoro necessario viene ridotto a un minimo pur persistendo e anzi ampliandosi come misura della ricchezza – tutto ciò indica come la produzione fondata sul valore e sul capitale ha limiti determinati che paradossalmente si incrementano a misura che lo Spettacolo si amplia e intensifica senza, in ultima istanza, espandere l’accumulazione se non transitoriamente e “fittiziamente”( ma non per questo con effetti meno reali). In questo modo, è forse possibile riportare all’attenzione critica quei nodi diversamente espressi dalle correnti marxiste più interessanti e radicali degli anni Sessanta-Settanta (Spettacolo, capitale totale, fabbrica sociale, operaio sociale) ma sfuggendo all’antitesi rivelatasi falsa fra la “gabbia d’acciaio” della totalizzazione del rapporto salariale, da un lato, e l’idea di un’autonomizzazione già data del proletariato “per sé”, dall’altro.

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Note per una conclusione. Contro l’impotenza: promesse e limiti

Sicuramente non possiamo nascondere i punti deboli di Debord: innanzitutto un certo “giovane-hegelismo” nella contrapposizione netta soggetto-oggetto, produzione-passività (come nel giovane Lukàcs). Soprattutto problematiche la concezione di coscienza di classe e di falsa coscienza, che del resto vengono spazzate via dai processi dello spettacolo, e la sottovalutazione della possibile attivizzazione, nel senso visto, dei soggetti pur dentro il feticismo. Infine, Debord non ha mai affrontato direttamente la questione delle trasformazioni produttive in atto. Nondimeno, in Debord la costituzione della soggettività, sottomessa allo Spettacolo ma anche potenzialmente antagonista, viene tematizzata a livello complessivo di rapporto sociale di produzione e riproduzione della vita sotto il capitale, ben al di là di ogni riduzionismo fabbrichista – così diffuso negli anni Sessanta – al di là della logica meramente additiva dei cultural studies nonché contro le letture a là Foucault delle forme di sottomissione separate dalla traiettoria della forma-valore e della lotta contro di essa.

Inoltre, nel sottolineare l’importanza dell’ambito della riproduzione sociale ancorchè spettacolarizzata, altra faccia della produzione separata e alienata, Debord pone al centro delle sorti dell’umanità il nodo della costruzione di attività immediatamente sociali nella produzione (“une foule de pratiques nouvelles qui cherchent leur théorie”, Internationale Situationniste, VIII, p.10) e della trasformazione rivoluzionaria della riproduzione sociale. Infine ma non di minor inportanza, il proletariato inteso in senso ampio resta la dissoluzione potenziale della separazione sociale (il compito ne determina la soggettivazione), il che non può non avvenire al contempo nella sfera della produzione e della riproduzione sociale, oramai sempre più intrecciate11. Ciò presuppone e comporta al tempo stesso la decomposizione della società di classe di vecchio tipo. Momenti dissolutivi e momenti ricostruttivi saranno inestricabilmente intrecciati nella rivoluzione a venire.


(Questo saggio è la stesura draft della versione apparsa nel volume collettaneo a cura di E. Armano e M. Briziarelli, 2017. The Spectacle 2.0: Reading Debord in the Context of Digital capitalism, pp. 81-94. London: University of Westminster Press).

Ringraziamo gli editori, Christian Fuchs e un revisore anonimo per i loro commenti su una precedente versione di questo saggio.

Note
1 Vedi anche Dyer-Witheford 2015.
2 Presentata e discussa in una prima versione alla Conference di Hatfield, The Dynamics of Virtual Work: the Transformation of Labour in a Digital Global Economy, settembre 2014 (Wright, Armano, Sciortino, Wright).
3 In particolare Bruce Robinson, With a Different Marx, in The Information Society, 31, 2015; Olivier Frayssé, Is the Concept of Rent Relevant to a Discussion of Surplus Value in the Digital World?, in Fisher, Fuchs, ed., Reconsidering Value and Labour in the Digital Age, Palgrave Macmillan, 2015.
4 Sarebbe utile confrontare queste posizioni , che si rifanno entrambe alla tesi negriana dell’operaio sociale degli anni Settanta, con il dibattito in quel decennio su denaro e composizione di classe allorchè gran parte, ma non tutti, gli operaisti scelsero di abbandonare il nesso analitico tra valore, produzione e misura (Wright 2013). Così come esplorare in che misura questa scelta (accennata, ma non discussa a fondo, in Wright 2002) ha contribuito a determinare successivamente i punti deboli di gran parte dell’analisi post-operaista (Formenti 2011; Wright 2009).
5 Per questi concetti vedi Romano Alquati, Dispense di sociologia industriale, 2 voll., Torino, IL Segnalibro, 1989 e Nella società industriale d’oggi, 2000, inedito. Alquati è stato negli anni Sessanta uno dei principali teorici e ricercatori dell’operaismo italiano, ideatore della “con-ricerca militante” e del concetto di composizione di classe; a partire dagli anni Settanta è andato oltre questo approccio avendo individuato il passaggio di una nuova fase capitalistica che dagli anni Ottanta ha cercato di analizzare come “società iper-industriale” caratterizzata dalla tendenziale estensione (innovativa per il coinvolgimento delle dimensioni cognitive e relazionali dell’attività umana) dei processi di industrializzazione alle attività della riproduzione sociale.
6 Che comunque, ricordiamo, si determina in Marx alla scala della riproduzione capitalistica complessiva, ben oltre la teoria ricardiana.
7 Ciò ovviamente non significa che le attività riproduttive non possano essere ridotte a lavoro salariato e scambiate con capitale (come di fatto già avviene per vari tipi di lavoro di cura e formativo) in quanto organizzate in impresa (in senso marxiano: produttore privato indipendente composto di unGesamtarbeiter il cui prodotto, anche come servizio, non è immediatamente sociale ma lo diventa se e solo se viene scambiato sul mercato realizzando il suo “valore”). Ma, appunto, si tratterebbe di lavori non immediatamente sociali. Mentre nel caso degli users dei social media, essi si scambiano direttamente esperienze sociali senza doverle per ora oggettivare prima in una merce. Anche se, dall’altro lato, ciò avviene in un ambiente sempre più “industrializzato” che certamente può preludere alla sussunzione completa sotto il capitale.
8 Di nuovo una “reintegrazione controllata” che alimenta l’ideologia materializzata dell’attivizzazione, della libertà, dell’autonomia degli utilizzatori della rete.
9 Si è parlato a questo proposito di “rendita informazionale” ricavata su beni informazionali che per le loro peculiari caratteristiche non sono o sono difficilmente riducibili a merci (Verzola 2004; Lohoff 2007). Di qui, ulteriore ipotesi eurisitica, la crescente “giuridicizzazione”, di stampo neoliberista anglo-sassone, delle relazioni sociali.
10 Lungi dal pensare che solo il lavoro produttivo in senso capitalistico rivesta un ruolo importante per l’accumulazione così come per la lotta contro di essa, Marx ci ricorda che “essere lavoratore produttivo non è una fortuna ma una disgrazia” (Marx 1980, Vol I, 556).
11 Vedi oltre a Jarrett (2015) l’interessante riflessione sulla riproduzione sociale contenuta in Viewpoint Magazine (2015).

References
Alquati, Romano. 1989. Dispense di sociologia industriale. Turin: Il Segnalibro.
Alquati, Romano. 2000. Nella società industriale d’oggi. Unpublished manu­script.
Bauwens, Michel. 2012. ‘The $100bn Facebook question: Will capitalism sur­vive ‘value abundance’?’, Aljazeera , 29 February.http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2012/02/20122277438762233.html
Caffentzis, George. 1990. ‘ Africa and Self-reproducing Automata’ , in The New Enclosures , ed. Midnight Notes. New York: Autonomedia: 35–41.
Camatte, Jacques. 1976. Il capitale totale. Bari, Dedalo.
Clark, Timothy. 1998. ‘Foreword’ to Anselm Jappe, Guy Debord . Berkeley: Uni­versity of California Press.
Debord, Guy. 1997. La società dello spettacolo, Milano, Baldini&Castoldi.
Dyer-Witheford, Nick. 2015. Cyber-Proletariat . London: Pluto.
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L’articolo è stato già pubblicato su Sinistrainrete il 4 febbraio 2018.

 

 

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